Rabbi Jaqov Jizchaq. È uscita la classifica delle università del Sole 24 Ore, dalla quale si evince, come oramai avviene storicamente, che l’ultimo posto è occupato dall’università “Parthenope” di Napoli (ma perché non la chiudono? Occupa stabilmente l’ultima posizione da quando esiste!). Siena, invece, “trionfa immortale”. Ho appena finito di compiacermene, che subito incomincio ad incavolarmi, per il solito acritico modo di porgere la notizia da parte dei media, che paiono non distinguere tra dati relativi e dati assoluti (Siena meglio di Pisa o Milano in che, nell’ingegneria nucleare od aerospaziale, oppure nella chimica industriale, che qui non sono mai esistite?) e per il subitaneo scatto del mondo politico per cavalcare il trionfo.
Primo, un gran tourbillon. Non ho capito come “la statistica” di trilussiana ascendenza, possa paragonare le mele con le pere, onde istituire un ordine di preferenza tra cose incomparabili. Non ho capito bene, cioè, come faccia Siena a stare davanti (tra le altre) a Torino, Pavia, Milano, Pisa (caduta al ventiquattresimo posto!), ossia università floride, che hanno tutte le lauree, le specializzazioni e i dottorati al loro posto, ne hanno dozzine più di Siena, per giunta in tutti i settori di base che Siena sta perdendo, oppure non ha mai avuto e bandiscono concorsi a tutto spiano; mentre qui il turn over è fermo quasi da due lustri, e rimediamo allo svuotamento delle cattedre con accorpamenti cinobalanici che rendono il contenuto dei corsi sempre più sfuggente. Per la didattica, addirittura, sopravanziamo Padova e Milano Bicocca, e per la ricerca superiamo nientepopodimeno che il Politecnico di Torino e l’università di Genova, stracciando, ça va sans dire, Firenze e Napoli “Federico II”, salutando da lontano Roma.
Un sogno ad occhi aperti, direi. Non è un po’ sospetto che Siena sia davanti a Pisa e a Firenze, sedi di cui Siena si avvia ad essere di fatto (se non di diritto, come si paventa) succursale? Per molte aree, oramai, queste sedi costituiscono o costituiranno il naturale approdo di trienni senesi (finché esisteranno, dopo la cancellazione dei livelli magistrali). Amicus Plato, sed magis amica veritas. Non è che non gioisca per il buon piazzamento, nonostante tutto, di un ateneo che il marcio mondo politico e la demagogia che si trascina dietro come una puzza hanno dapprima, con sommo disprezzo, sfruttato per strani mercanteggiamenti, dissanguandolo, indi messo alla berlina e fatto segno del dileggio popolare.
Ma è proprio questa retorica bipolare (un giorno “daje all’appestato”, il giorno dopo, pronti a fregiarsi dei successi del “meglio ateneo del mondo”) che risulta insopportabile, giacché rende impossibile ogni confronto serio sui problemi dell’ateneo, affogando ogni considerazione razionale, ora nella livida palude del rancore, ora in un mare di panna montata. Noto, in particolare, che nella classifica del Sole 24 ore, Siena occupa il trentaquattresimo posto (dunque piuttosto in giù, nella classifica) alla voce “sostenibilità”, ossia “il numero medio di docenti di ruolo nelle materie di base e caratterizzanti per corso di studio”. E questo, se interpreto bene i dati, segnala la fragilità e la instabilità di fondo di un ateneo che si avvia a perdere entro il 2020 metà del suo corpo docente.
Leggendo dei buoni risultati della ricerca e dei cattivi circa la sostenibilità, vorrei in particolare che riflettessero, coloro che andavano dicendo che il risanamento andava fatto trinciando a tutto spiano sul personale addetto alla didattica e alla ricerca (quasi che il core business dell’università fosse la produzione di pampepati): ora siamo nella condizione per cui se ne va esattamente la metà dei docenti, un po’ a casaccio ed a turn over ancora fermo (quando riaprirà, si tratterà di una trentina di persone, rispetto alle 500 andate via), ma non vedo ragioni per gioire.
Chiedere, come sommessamente ha fatto nei precedenti messaggi il sottoscritto – cittadino pagante le tasse – cosa resterà di Siena, in un contesto dove appare sempre più evidente la tendenza a creare “pochi hub” della ricerca, non è fuor di luogo: vorrei capire se a Siena toccherà il privilegio di far parte del “gotha” degli atenei forti (e con quali mezzi dovrebbe realmente competere con Padova, Pisa, Milano, Torino ecc. che si accatteranno il grosso delle risorse e sforneranno il grosso della ricerca?), oppure è destinata a retrocedere a sede distaccata di un polo regionale con la testa altrove. In ogni caso un serio dibattito su questo punto non è più rinviabile. Capisco che sono rogne che il rettore uscente lascia volentieri al suo successore, ma se nella campagna elettorale per la successione non si parlerà di questo, di cosa si parlerà?
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Addendum.
Curiosamente sempre il Sole 24 Ore del 17 Luglio http://www.scuola24.ilsole24ore.com/art/universita-e-ricerca/2015-07-17/classifica-cwur-47-atenei-italiani-i-top-1000-mondo-112232.php?uuid=ACguo9S riporta questo commento, che parrebbe contraddire le classifiche che esso stesso ha diramato (almeno se non le si intende in un senso molto relativo):
“Ci sono 47 università italiane nella top 1.000 dei migliori atenei del mondo. La migliore è la Sapienza di Roma (che si piazza al 112esimo posto), seguita dall’università di Padova (169) e da quella di Milano (172). Lo rivela il Centre for World University Rankings (Cwur), che oggi ha pubblicato la nuova edizione della classifica internazionale delle università più quotate del pianeta (http://cwur.org/2015/), guidata anche quest’anno dalla statunitense Harvard. Una lista, sottolinea il Cwur, che misura la qualità dell’istruzione e della formazione degli studenti, il prestigio dei docenti e la qualità della loro ricerca senza affidarsi a sondaggi o a dati presentati dalle università. presentazione dei dati universitari.
Italiane al top.
Dopo Roma, Padova e Milano, le altre università che completano la top ten italiana sono: l’università di Bologna (208esimo posto), l’università di Torino (221), quella di Firenze (247), la Federico II di Napoli (268), l’università di Pisa (295), Roma Tor Vergata (317), e l’ateneo di Pavia (327).”
L’Università di Siena figura al 446-esimo posto. Che se l’obiettivo è quello di rientrare nelle prime 500, è già un successo. In buona sostanza, metà degli atenei italiani non figurano tra le prime 1000 università del mondo e metà invece sì, e Siena è fra quelle che vi compaiono, precedendo, tra le connazionali, una dozzina di atenei. Questo mi pare molto realistico, ma smettiamola con le stupidaggini del “meglio ateneo d’Italia” o addirittura “del mondo”, come ebbe a scrivere un incauto giornalista, e guardiamo in faccia la realtà: “Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà.” (A. Gramsci)
….quei birbanti di ROARS!
Il sito Roars aggiunge un parametro alla classifica di Shangai e i risultati sono a sorpresa con le italiane in testa.
Giuseppe De Nicolao, professore di Ingegneria a Pavia e collaboratore della rivista online Roars , ha provato ad aggiungere un altro indicatore ai dati raccolti a Shanghai, per stilare una classifica «dell’efficienza delle università che mettesse a confronto i risultati con la spesa», dividendo cioè i costi di gestione di ogni università per il numero di punti raggiunti. E a sorpresa – mettendo a confronto i primi venti atenei della classifica Arwu e i venti atenei italiani che vi sono classificati – a guidare questa «gara» sono quattro università italiane: la Scuola Normale di Pisa, l’Università di Ferrara, Trieste e Milano Bicocca, e nei primi dieci posti otto sono gli atenei italiani mentre a reggere il confronto dell’efficienza tra le grandi università ci sono solo Princeton e Oxford.
Non solo, secondo la classifica di Roars , poiché i punti che l’università conquista per i meriti dei suoi studenti e dei prof sono aggiuntivi, se si fondessero due o tre atenei i risultati sarebbero di molto migliori: «Ad esempio, se si unificassero, operazione priva di qualsiasi valore reale, la Statale, la Bicocca e il Politecnico, una futura università milanese potrebbe aspirare a entrare nei primi venti posti».http://www.corriere.it/scuola/universita/15_agosto_18/controclassifica-dove-l-italia-supera-harvard-stanford-7f7e071e-459c-11e5-a532-fb287b18ec46.shtml