L’Università era un’altra cosa. In ricordo di Giorgio Israel

Giorgio Israel

Giorgio Israel

Rabbi Jaqov Jizchaq. Leggo della scomparsa del matematico Giorgio Israel, collaboratore del sito ROARS. In un suo intervento aveva scritto: «Tutte le grandi scoperte scientifiche che hanno cambiato il volto del mondo – a partire dal computer digitale – sono frutto di idee teoriche, fondate sulla “scienza di base”. Un grande ingegnere come Leonardo da Vinci ammoniva: “Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza. Quelli che s’innamoran di pratica senza scienza son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada”

E poi ancora sull’oziosa e inattuale guerra fra “umanisti” e “scienziati”: «la sciagurata diatriba tra le due culture danneggia entrambe. Nella furia di distinguerle, le scienze vengono separate dalla cultura e pensate come mere abilità pratiche, predicando che solo ciò che ha un’utilità diretta vale qualcosa.»

Non saprei immaginare commento più appropriato al processo che ho cercato di descrivere nei precedenti messaggi. Qui, nella grettitudine dilagante, se uno sa fare 3×7=21, allora è uno scienziato che si sporca le mani con le dimostrazioni, esposto pertanto al rischio di conseguire qualche infezione. Se poi uno è scovato a leggere un libro, sia Omero o Nabokov, o a suonare un qualsiasi strumento aerofono o cordofono, allora ipso facto è qualificato come un inutile umanista: uno che non immagina neppure cosa sia un bosone o uno spazio vettoriale. Uno immaginato costantemente intento ad esprimersi in rima: fra i batraci eccovi il rospo/brutto eppur utile anfibio/nelle prode sta nascospo/al vederlo tremo e allibio (Primo Levi). Non ci sono più intellettuali o scienziati, ma tecnici e professionisti inscatolati nel proprio settore disciplinare. La cultura e la scienza non sono però affare di scatolame. Dubito che da questo mix di arroganza e di ignoranza (una rima baciata) che in altri termini si chiama provincialismo esca qualcosa di valido. L’università era un’altra cosa.

Perché non discutere apertamente del ruolo destinato all’Ateneo senese nel Sistema Universitario Toscano?

Altan-vecchidelusoRabbi Jaqov Jizchaq. Con riferimento agli argomenti riportati nell’articolo precedente, io soprattutto non ho capito due cose e sarei contento se qualcuno me le chiarisse:

(1) Checché se ne dica o dicano certi organi di stampa compiacenti, l’attuale offerta didattica dell’ateneo non è frutto di una programmazione razionale ponderata in vista di obiettivi chiari, ma è semplicemente ciò che alla massaia è stato possibile cucinare sulla base degli ingredienti racimolati nella sempre più desolata dispensa. Secondo le vigenti norme relative ai “requisiti di docenza”, si tratta di quello che rimane dopo il pensionamento di metà circa del personale docente; per dirla con Don Alfonso: «non può quel che vuole, vorrà quel che può» (Mozart, “Così fan tutte”). Questo ha fatto sì che entrassero in crisi, scomparendo od essendo prossimi alla scomparsa, diversi settori di base, includendo praticamente tutti i settori “teoretici” delle scienze pure: cadono lauree triennali, magistrali e dottorati; si dice che Siena punta tutto sulle “scienze della vita”, ma che vuol dire? E poi è economicamente sostenibile, al giorno d’oggi, un ateneo di dimensioni sempre più piccole, specializzato in alcuni specifici settori? Insomma, sospetto di chi dice “piccolo è bello”. Già hanno spacciato quella che a tutti gli effetti è stata una crisi catastrofica, per necessario, auspicato ed opportuno ridimensionamento (che se Mussari & C. fossero andati a raccontare una frottola del genere al MPS dopo l’affare “Antonveneta”, sarebbero stati sgozzati seduta stante).

(2) Un autorevole membro dell’ANVUR ha tratteggiato il seguente scenario: «quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale.» Il che vuol dire in sostanza trasformare alcune sedi in sedi distaccate dei “grandi hub” della ricerca. Ammesso e non concesso che l’ateneo senese dismetta l’abito “semigeneralista” e trovi le risorse per trasformarsi in qualche cosa di diverso, per niente “generalista”, focalizzato su pochissimi settori per lo più applicativi, con un minor numero di studenti, nonostante le già allarmanti emorragie di questi ultimi anni, se avete cioè deciso di sopprimere, non le scienze del “bue muschiato”, ma importanti aree delle scienze di base, principalmente per mancanza del personale docente richiesto dalla legge, non si capisce cosa intendete farne dei residui. Cioè di chi ancora ci lavora, i brandelli, quello che resta di questi settori in via di dismissione (stiamo parlando di parecchie decine di addetti ai lavori), che per soddisfare le pretese dell’ANVUR, la SUA, il VQR ecc. devono comunque essere ancora scientificamente produttivi. Non è chiaro, un simile scenario, con pezzi di ateneo privi di livelli magistrali, dottorati ed in genere delle forze necessarie per contribuire significativamente alla ricerca, come si possano soddisfare i requisiti che oramai presiedono ai vari meccanismi premiali, tutti basati sulla produttività scientifica e sulla qualità della medesima.

(3) In vista delle “teorie” che circolano e dei movimenti descritti dal prof. Grasso (“regionalizazione”) mi domando se quello che si sta configurando a Siena è un ateneo, una researching university, una teaching university, o una sede distaccata, non dotata di una specifica autonomia. Se comunque in alto loco si è deciso di procedere a una sempre maggiore integrazione a livello regionale tra i principali atenei toscani, come dicono gli psicologi televisivi con aria serena e rassicurante: “parliamone”. Insomma, giù le carte! Difatti non si capisce perché non se ne debba discutere apertamente, non si metta a tema nel dibattito politico e accademico, non diventi anzi questo – date le pesanti implicazioni – il principale argomento e oggetto di negoziazione con le altre realtà; non si comprende cioè perché gli effetti di questa metamorfosi si debbano subire tacendo.

(4) Infine una mesta considerazione sullo stato della nostra democrazia. È consuetudine, oramai, apprendere la direzione che ha preso il corso delle cose “post festum”, quando cioè ne subiamo gli effetti: biblicamente, a vedere solo “le spalle”, cioè le conseguenze delle decisioni di certe recenti imperscrutabili deità burocratiche, senza neppure avere esatta contezza di chi e come decide sulla nostra testa e muove i fili delle nostre esistenze: «Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Esodo, 33, 21-23). Alcuni traducono: «vedrai il mio didietro», ma non è carino.