Università italiana e francese: sorprendenti analogie anche nei progetti di riforma

Di seguito un articolo di Cesare Segre (Corriere della Sera 25 maggio 2009) sul movimento universitario francese – che si oppone alla riforma di Nicolas Sarkozy e Valérie Pécresse – e sulle analogie con la situazione dell’università italiana.

Se l’università rinuncia alla competenza

Cesare Segre. È probabile che il movimento delle università francesi contro la riforma di Sarkozy e della ministra della Ricerca Pécresse finisca malamente (…) Ma occorrerà meditare a fondo sulle motivazioni di questo movimento, che in generale non sono state intese bene dal pubblico né dai media: non è un movimento solo degli studenti, ma di molti di coloro che sono impegnati nell’università, anche ricercatori, professori, perfino presidenti, cioè rettori, come quello dell’illustre Sorbonne; non è un movimento politico, dato che è nettamente trasversale, ma semmai antigovernativo. E in effetti è stato provocato da decreti del governo. Niente a che fare con il ’68, a cui va subito la nostra memoria.

 Nell’immediato, il movimento protesta contro drastiche riduzioni dei posti, che metteranno a rischio le possibilità di ricerca; e su rigidi mansionari che dovrebbero regolare, col bilancino, i rapporti fra insegnamento e ricerca, la cui complementarità è, a parole, riconosciuta da tutti. Ma nel fondo il movimento condanna una riorganizzazione che darà il potere decisionale a persone estranee agli studi, cioè burocrati, amministratori e politici, e che sotto la coperta dell’«autonomia» scaricherà e trasferirà a enti esterni il mantenimento economico della ricerca. La ricerca di tipo umanistico, e in genere la ricerca di base, oltre a veder ridotti borse e dottorati, troverà difficilmente i fondi per sopravvivere, mentre avranno prospettive certo migliori i centri dedicati alla ricerca finalizzata, in prima fila quella industriale.
La competenza? Un mito da minimizzare. Per questo è fondamentale, per la riforma, toglierla dalle mani di chi sa, e sa scrutare nel passato e nell’avvenire, e metterla in quelle di chi può, e s’impegna al massimo lucro immediato. Lo spirito critico è un ostacolo per chi ha voglia non di pensare, bensì di fare, certo a suo vantaggio. I ribelli si sono distinti per trovate spiritose (…) I movimenti francesi sanno sempre far tesoro di una felice immaginazione, ma a Parigi si ride davvero per non piangere.

Lo scarso interesse che da noi si è mostrato per questo movimento sembra dire che non si sono avvertite le molte analogie con la situazione dell’università italiana. Anche da noi i burocrati dettano legge, anche da noi si tende ad umiliare gli insegnamenti e le ricerche di base, e ci si getta sull’effimero e sull’immediatamente redditizio. Molti, avvertito il pericolo, cercano di far ritoccare, o sperano di usare a proprio vantaggio, i criteri di valutazione che stanno per diventare obbligatori, invece di dire a chiare lettere che essi, mettendo la museruola ai competenti, soli ad avere la capacità di giudicare, ridurranno le valutazioni, ormai affidabili a chiunque, a puro calcolo quantitativo. Alla faccia della meritocrazia.

9 Risposte

  1. Cari Colleghi,
    l’articolo di Cesare Segre è da condividere in pieno. Finalmente una voce chiara e forte a contrastare un indirizzo degenerativo che sta portando alla distruzione della funzione propria dell’università. Purtroppo si tratta di un indirizzo perseguito da tempo, a fermare il quale non sono valsi argomenti ragionati e richiami autorevoli. Vengono anche da ciò le sensazioni di sfiducia e di rassegnazione. Tanto più che a rafforzare le spinte distruttive un contributo arriva dall’interno stesso della nostra istituzione. Lo mostra il ricevimento che trovano nella Conferenza dei rettori i luoghi comuni che hanno ritmato l’iniziativa dei legislatori dell’ultimo decennio, dalla fissazione punitiva di un astratto tempo di lavoro (quando passo una domenica a correggere tesi di laurea, sarà considerato lavoro straordinario? E come sarà quantificato il tempo che dedico allo studio, per rispetto di me stesso e per evitare di trasmettere agli studenti vacuità ripetitive?) alla “valutazione” affidata a entità e meccanismi di misurazione estrinseci. Il tutto, naturalmente, come si dice, per rispondere all’opinione pubblica, cioè a campagne denigratorie indifferenziate alle quali quegli stessi vertici universitari non hanno saputo reagire. Per quello che mi riguarda, già più di dieci anni fa, quando il percorso legislativo inaugurato dall’allora ministro dell’università e della ricerca era ancora al suo avvio, intervenni come potevo, in Consiglio di Facoltà, in liste di discussione tra universitari, sottoscrivendo appelli, per denunciare i pericoli che mi parvero subito evidenti: qualche collega, ricordo, pur condividendo alcune preoccupazioni, ritenne le mie previsioni troppo pessimistiche. Concludevo così l’esame critico del documento di un gruppo di lavoro ministeriale che preparò l’imminente riforma: «Surrettiziamente, attraverso un discorso sulla riorganizzazione della didattica e delle valutazioni relative, si prefigura una trasformazione radicale della figura del docente universitario, privato della propria identità e specificità di insegnamento e reso “flessibile”, cioè taillable et corveable à merci. In nome della “mobilità delle risorse umane” si prepara una destituzione di ruolo dei docenti, la cui funzione viene a configurarsi tendenzialmente svincolata dalle competenze e dalla ricerca. È un percorso che ha visto cooperare, quasi in una strategia di umiliazione dei professori, additati di recente al ludibrio di un’opinione pubblica ignara e così avvertiti di essere più remissivi, anche alte cariche istituzionali: ciò, senza che nessuna organizzazione rappresentativa e nessuna autorità accademica abbia sentito il bisogno di rispondere. La conseguenza verrà ad essere la riduzione dell’università da istituto per lo sviluppo e la trasmissione dei saperi a appendice generica, frantumata e pletorica (più pletorica di quanto già oggi non sia) di una generica e dequalificata scuola superiore.
    Gli aspetti degenerativi già in atto, nonché essere contrastati, troveranno finalmente la loro piena legittimazione, il riconoscimento ufficiale. Anzi saranno indicati come momenti di necessaria adeguazione e modernizzazione, con il conforto delle teorizzazioni pseudomanageriali e, possibilmente, col consenso rassegnato di quel mondo universitario che si intende riplasmare a proprio comodo. Tutto questo si vuol farlo passare per riforma. Lo creda chi vuole, e chi è ben disposto. Noi vogliamo sperare che vi siano ancora forze che non stanno a questo giuoco»
    (tutto questo, nell’autunno del 1997: l’articolo apparve, col titolo, redazionale, La controriforma dell’Università, sulla rivista “Critica liberale” del gennaio 1998).
    Le voci che non stavano a questo giuoco non mancarono. Ricordo sul “Corriere della sera” del 25-11-1999, l’articolo di Angelo Panebianco, Una riforma che toglie l’autonomia. Se l’Università perde la ricerca, contro il decreto legge sullo stato giuridico dei professori universitari predisposto dal successivo ministro; l’appello, promosso congiuntamente da Panebianco e Luciano Canfora all’entrata in vigore della nuova normativa degli studi universitari, pubblicato sullo stesso giornale il 6-3-2001 col titolo Riformiamo la riforma (appello cui aderii); fino al polemico addio di Claudio Magris a una università che “tra quote, crediti e riunioni muore di aziendalismo” come recitava il sottotitolo di un suo articolo sul “Corriere” del 16-3-2004; e interventi, articoli, libri recenti. Ma sono rimaste, a giudicare dai risultati, voci senza efficacia sui decisori politici, quali che fossero, e sui loro consulenti burocratico-pedagogici; e sono sembrate voci isolate, in un coro, se non di consenso, di condiscendenza o passività. Da tale passività è possibile scuotersi in extremis? Questa la domanda, e l’invito, che mi pare venga dagli ultimi interventi. Anche semplici testimonianze possono servire, per il bene dell’istituzione o almeno, che anche questo importa, per difendere la propria dignità.
    Michele Maggi
    Professore ordinario di Storia della filosofia politica, Università di Firenze

  2. Tutto vero e condivisibile, ma l’università deve recitare il mea culpa e battersi il petto, magari con un mattone: non è stata la burocrazia ad aprire università sul monte Capanne e succursali a Montorsaio, a inventare discipline assurde, a imbarcare cani e porci, a mangiarsi il vitello in corpo alla vacca, l’università non ha subito la violenza legislativa della scuola superiore, che si è trovata immersa nei più svariati consigli, piani, debiti e crediti e altre amenità, senza che gli operatori avessero neanche la possibilità di alzare la voce, ma ha fatto tutto da sé. Ora ne paga le conseguenze, in parte ingiuste e foriere di altri, diversi danni, ma chi è cagion del suo mal, pianga se stesso.

  3. L’amarezza di outis è condivisibile. Un Paese che ha tale università è in condizioni disperate. Da parte della “Banda” non un solo mea culpa! È inaudito; e pensare che certi baroni passavano pure da democratici e persone intelligenti. Ahimé, ci avete solennemente ingannato. Pensavamo di dare “lustro” a noi stessi e al Paese, con la via della cultura ad ampio raggio, della ricerca… Non si tratta utopicamete di tornare alle libere università medievali né a quelle della Grecia antica ove i peripatetici e i medici erano totalmente al servizio della Polis e dei discenti in un libero giuoco dialogico. Ma morire di aziendalismo il colmo!

  4. «… l’università non ha subito la violenza legislativa della scuola superiore, che si è trovata immersa nei più svariati consigli, piani, debiti e crediti e altre amenità, senza che gli operatori avessero neanche la possibilità di alzare la voce, ma ha fatto tutto da sé.» Outis
    ……………..
    Ahimè, quanto a tasso di vacua ed insensata burocrazia, oramai l’università ha raggiunto e superato la scuola media, al punto che mi domando che senso abbia seguitare a parlare di “autonomia” (da che? Di fare che cosa?): si è innescata una gara al ribasso in cui le liturgie burocratiche, il rigore dogmatico delle griglie, delle tabelle, dei crediti, dei “format”, assieme ai perentori e pressoché quotidiani telegrafici dispacci di questa o quella autorità che ne fornisce la aggiornata esegesi, esorcizzano il vuoto di contenuto e di obiettivi.

  5. Approvo al 100 per 100 quel che dice l’amico sig. Stavrogin! Si tratta proprio di dire pane al pane ecc.. Ho trovato un sindacalista e mi ha detto che il governo ora fa quel che vuole perché non ha opposizione (farlo cadere sui gossip, il Berlusca, è utopia risibile). Hai mai sentito qualcosa – mi ha detto – sulla riforma universitaria, meglio controriforma – che vuol fare Calderoli, quello delle “porcate” legislative…!!?? Pare che ormai si potrà laureare solo chi ha quattrini. Pòra Italy!
    Bardus

  6. L’autonomia è stata data, usata al modo in cui tutti hanno potuto vedere, poi sono arrivate le griglie, le tabelle, i format e forse per qualcuno arriveranno anche le manette. Forse.

  7. «L’autonomia è stata data, usata al modo in cui tutti hanno potuto vedere, poi sono arrivate le griglie, le tabelle, i format e forse per qualcuno arriveranno anche le manette. Forse.» outis
    ———————-
    Sicuramente, almeno per loro fortunati, arriverà la pensione, come d’altronde sempre è arrivato lo stipendio.

    P.S. Ricevo e trasmetto questo interessante articolo:

    Va detto comunque che con i nuovi ordinamenti (e le casse vuote) il ruolo dei contratti viene fortemente ridimensionato; ma quello che andrebbe del tutto cancellato come vergogna nazionale, sono le attuali tipologie di contratto e magari sostituite con qualcosa di meno farsesco. Purtroppo in questa particolare congiuntura vengono “ridimensionati” anche molti disgraziati che dopo anni di lavoro si vedono pagati con un calcio nel didietro e questa sarebbe tutta la “valutazione”.

  8. L’autonomia è una cosa importantissima. Un esempio fulgido è quello dell’Università di Siena che è stata capace di utilizzarla per produrre un debito da 250 milioni di euro, ditemi voi se non è stata usata bene. E difficilmente produrrà le manette auspicate (sacrosantamente) da Outis, il quale – per ragioni che mi sfuggono – utilizza un linguaggio ed un modo di trattare gli argomenti assai simili a quelli dell’attuale Direttore Amministrativo.
    Va detto che sulla scorta di quanto pubblicato da Giovanni di recente, mi sono letto tutto d’un fiato il libro di Raffaele Ascheri: se tutto quello che c’è scritto è vero (e non c’è motivo di dubitarne, anche solo per la nutritissima documentazione) si può tranquillamente affermare che anche certi enti locali hanno fatto un meraviglioso uso dell’autonomia quasi pari in eccellenza a quello dell’Università.
    Un sarcastico Favi di Montarrenti

  9. Autonomia? Si è inaugurato, con Mancini e tutto il Gotha miliardario del Comune e della Banca, il restauro dei Rinnovati. Io che avevo prodotto la nota storica sul foyer, naturalmente… sono stato invitato!
    Un Bardo

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