Non contano le pubblicazioni ma le abilità didattiche (da: “Italia Oggi”, 16 marzo 2011)
Ettore Bianchi. Troppo laboratorio non fa bene all’università. In Australia, almeno, dove l’ateneo di Sydney ha deciso di dare una svolta all’attività didattica: meno laboratorio, più insegnamento e rapporto stretto con gli studenti. L’orientamento emerge con chiarezza dal percorso di Erica Sainsbury, docente di farmacia. Da studentessa si divideva tra la presenza in laboratorio e le lezioni teoriche in aula. Ora che è salita in cattedra, invece, ha deciso di abbandonare la parte pratica per trascorrere gran parte del suo tempo ad assistere gli studenti, ad aggiornare le lezioni e le ricerche, a lavorare con i tutor e a partecipare alle discussioni via internet. Sainsbury, 51 anni, appartiene a una cerchia, per ora ristretta ma in espansione, che segue il nuovo corso: poca o nessuna ricerca. Gli atenei non disdegnano, sottolineando che in questo modo è possibile concentrarsi sul miglioramento dell’insegnamento e dell’apprendimento: due elementi che finora non sono stati abbastanza premiati. La ricerca è sempre stata considerata il compito più prestigioso per gli accademici in molte università. Al punto che un sindacato dei docenti ha osservato che bisogna fare attenzione al fatto che chi si dedica alla nuova impostazione non venga relegato al ruolo di professore di seconda categoria. Mentre in paesi come Stati Uniti e Germania queste figure esistono da tempo, per l’Australia si tratta di una novità che, come tale, dovrà essere assimilata con il tempo. Anthony Welch, docente di educazione a Sydney, sostiene che negli ultimi decenni ci si aspettava chiaramente che un docente facesse ricerca. Anzi, molti atenei avevano posizioni di sola ricerca, soprattutto in ambito scientifico, e questo serviva agli atenei per scalare migliori strutture. Ora, però, arrivano sempre meno fondi governativi e gli studenti sono aumentati: ciò richiede una maggiore attenzione nei loro confronti. All’università di Melbourne si sta valutando l’ipotesi di creare carriere ad hoc per gli specialisti dell’insegnamento, ma il sostegno finanziario è importante per lanciare la nuova impostazione didattica. Finora i docenti puri, se così si possono definire, erano per lo più docenti di secondo piano, con un inquadramento meno stabile sul versante contrattuale. Adesso sono gli stessi atenei a reclamare una svolta e a pretendere che a far carriera non sia soltanto chi pubblica risultati di grido grazie a esperimenti condotti in laboratorio. Anche perché, come succede anche fuori dall’Australia, non è detto che un genio della fisica o della chimica sia in grado di insegnare altrettanto bene.
Filed under: La voce degli studenti, Per riflettere |
«Non è detto che un ottimo ricercatore sia in grado di insegnare altrettanto bene…»
Ma va? Tutto sta a sapere cos’è un “ricercatore”. Mi raccomando, una volta proceduto ai pensionamenti e prepensionamenti di quella classe di ordinari che ha creato ‘sto popò di casino, adesso assassinate anche i pochi docenti non ancora affetti da gotta, cataratte, ateriosclerosi e altre malattie senili: voglio proprio vedere chi resterà ad insegnare in questa università.
@ Rabbi: «… voglio proprio vedere chi resterà ad insegnare in questa università.»
La risposta nei titoli di questi due vecchi post:
1) L’Università di Siena secondo la Cgil: docenti in pensione ed amministrativi in cattedra (26 novembre 2008).
2) Riuscirà la nuova dirigenza dell’ateneo senese ad evitare il fenomeno dei docenti in pensione e degli amministrativi “in cattedra”? (8 settembre 2010).
Segnalo anche altri articoli collegati al tema della didattica:
1) Università: con il decreto-legge 180 si disincentiva l’impegno nell’attività didattica ed istituzionale (6 dicembre 2008).
2) Valorizzare anche la didattica nella selezione e valutazione dei professori universitari (18 dicembre 2008).
@ Rabbi
Innanzitutto calma e gesso. Cominciamo dalla frase in esergo, che ha poco senso; non c’è rapporto, se non ipotetico, tra le pubblicazioni e l’abilità didattica, mentre invece ce n’è, e come, tra le conoscenze e la medesima abilità. Le pubblicazioni hanno origine e da necessità burocratiche di mostrare il risultato del proprio lavoro di ricerca ad una commissione, e da quella di accumulare titoli per una docenza, senza trascurare l’altra, più profonda e connaturata ad uno studioso, di partecipare ad altri i frutti delle proprie indagini e tendere a creare una rete di rapporti scientifici con altri studiosi, anche stranieri, della medesima materia.
In teoria quindi il possesso di un numero anche imponente di pubblicazioni, magari in un campo di indagine molto settoriale, non garantisce alcuna abilità didattica. Al contrario, un’ampia conoscenza della materia ne è, se non altro, il presupposto. Bisogna poi intendersi sul termine di ricercatore. Nella nostra legislazione questa figura era stata creata appunto per la ricerca, sappiamo tutti poi com’è andata a finire e quali situazioni abbia, questa deviazione dalla legge istitutiva, creato. Siamo sicuri che la bella fanciulla australiana qui ritratta stia parlando della medesima figura, o non piuttosto di una diversa ripartizione dell’impegno degli studenti tra laboratori e lezioni teoriche? Personalmente ho conosciuto fior di studiosi (non sto a fare nomi, ma se me li chiedete ve li faccio) i cui libri erano eccellenti e formativi, ma che in cattedra facevano letteralmente pietà. Se ne deduce che neppure le conoscenze sono una garanzia di abilità didattica (in parte frutto di qualità naturali, in parte di mestiere), ma ne costituiscono l’indispensabile presupposto.
Elì Elì lamma sabactani!
…ma se i ricercatori e i proffe ingessati producevano solo culturame e robaccia patinata-quella seria, dice qualche stronzo. Non si fuoriusciva dal dettato di partito. Uno venne a un concorso con l’Unità, il Manifesto e altro nelle tasche. Han reso rancida l’università, e del resto è solo stata trampolino di lancio per gli sfaccendati del partito. Poi i vari Tronti son stati premiati e messi in osservatori statuali. Napolitano, del resto, interpreta come gli pare la Costituzione-vedi sulla guerra. E poi tutti a cantare il brutto inno del Novaro (musicato da questo prievite).
P.S. Ma ormai si potrebbe ricantare anche “Tripoli bel suol d’amore”… dove orecchiavo che Tripoli sarà romana e sarà italiana… poi venne Faccetta Nera e i gas del duce sui villaggi e gli ospedali e le chiese africane (Graziani e Badoglio). 1911, anche il grande intellettuale, come diceva il sinistro Luperini, Pascoli, si dichiarò ora e sempre colonialista e inneggiò alla Grande Proletaria che se magnava Tripoli……..
Sarebbe facile… metà stipendio per la didattica e metà per la ricerca. Fai solo didattica… prendi metà; idem se vuoi fare solo ricerca.
…a me piacciono gli esempi pratici anche se possono sembrare personali.
Da un paio di anni o poco più, nell’università di Siena è attivo il Master (non mi ricordo di che livello) in “Medicina Integrata”, una sorta di indegno miscuglio tra medicina omeopatica e medicina allopatica (o convenzionale), inventato dal Principe Carlo di Inghilterra, sostenuto da una parte dell’Intellighenzia omeopatica britannica e addirittura osannato da un gruppo di pecoroni dell’omeopatia nazionale perché lo scopo, neanche tanto nascosto di questa “formula”, sarebbe quello di “sdoganare” la medicina omeopatica come una medicina “quasi ufficiale” la cui efficacia non ha bisogno di essere provata (questo in estrema sintesi).
Secondo l’ideatore di questo Master, io dovevo essere “di diritto” uno dei docenti in quanto unico ad aver pubblicato di omeopatia su riviste scientifiche della medicina ufficiale (o convenzionale)… e vi assicuro che si tratta di un’impresa titanica! …esempi di seguito:
1. The growth of a lie and the end of “conventional” medicine. Mastrangelo D, Loré C. Med Sci Monit. 2005 Dec; 11 (12): SR27-31. Epub 2005 Nov 24. Review.
2. Hormesis, epitaxy, the structure of liquid water, and the science of homeopathy. Mastrangelo D. Med Sci Monit. 2007 Jan; 13 (1): SR1-8. Epub 2006 Dec 18.
3. Sceptical views on homeopathy: Do we really need “sceptical” homeopaths? Mastrangelo D. Homeopathy. 2010 Oct; 99 (4): 289; author reply 289
Nonostante le suddette pubblicazioni e il diploma di omeopata (conseguito dopo regolare corso triennale), non risultando simpatico a personaggi non appartenenti al nostro ateneo, ma fortemente coinvolti nel “business” della medicina integrata (che vede anche la prossima apertura di un ospedale “integrato” a Pitigliano), non sono entrato a far parte del corpo docente di questo master, nonostante nella vicenda io abbia coinvolto l’ex preside della facoltà di Medicina, l’ex rettore nonchè il Prof. Alessandro Rossi, docente del master.
Forse che qualcuno ha giudicato che io non sono in grado di insegnare? Non lo escludo in assoluto, ma le motivazioni che mi hanno visto escluso dalla “rosa” dei docenti, non sembrano avere nulla a che fare con le mie più o meno presunte capacità di “docere”.
…se l’esempio non fosse stato chiaro, sintetizziamolo così: a me pare sempre lo stesso schifo, la stessa logica baronale, corrotta e criminale che ci ha portato e ancora ci tiene sull’orlo del baratro!!!
Cal: «Fai solo didattica… prendi metà; idem se vuoi fare solo ricerca.»
E perché mai uno che fa solo ricerca o solo didattica a tempo pieno dovrebbe essere pagato la metà di uno che lavora per lo stesso tempo dividendosi fra le due attività? Non sarebbe meglio che ognuno fosse pagato Sia pagato secondo la qualità e quantità del suo lavoro, qualsiasi esso sia, purché sia utile?
E comunque queste figure specializzate per fare solo didattica ma non ricerca mi sembrerebbero un passo avanti rispetto a quelli che non sanno fare decentemente né l’una né l’altra cosa.
Sesto Empirico,
scettico
Bando alle chiacchiere, qui il problema sta in questi termini:
«…il pensionamento previsto per il prossimo quinquennio porterà fuori dal sistema universitario il 50% dei professori ordinari e il 25% di associati e ricercatori: la metà non sarà reintegrata e ogni anno l’università italiana assisterà alla fuoriuscita di 600 professori ordinari mentre l’ingresso dei mille associati annunciati sarà frenato dal fatto che il 50% degli atenei non potrà fare assunzioni. Il taglio ai corsi di studio eccessivi e bizzarri, così voluto dal ministro Gelmini, si realizzerà naturalmente per la moria degli insegnanti.» (la Repubblica)
…premesso che “la Repubblica” non è il Vangelo (né la Torah!), mi pare che l’argomento all’ordine del giorno fosse la dicotomia tra insegnamento e ricerca, che non devono necessariamente andare “a braccetto”!
Il mio pensiero è che l’insegnamento è certo una vocazione, ma richiede cultura e studio (la “didattica” è quella parte della Pedagogia che ha per oggetto di studio i metodi di insegnamento: da Sabatini – Colletti: Dizionario della lingua utaliana); dunque, insegnanti non ci si improvvisa!
In secondo luogo non vedo cosa un docente universitario possa insegnare al di fuori della ricerca senza poi finire col “fare il verso” all’insegnamento della scuola dell’obbligo. L’insegnamento universitario deve, a mio modestissimo parere, distinguersi proprio per la qualità dell’offerta formativa; qualità che può essere garantita soltanto dalla combinazione tra ricerca e didattica.
Il problema, caso mai, in questa ottica, è di capire dov’è ‘sta gran ricerca che si fà in questo Paese… forse proprio per questo l’idea di insegnanti non ricercatori (ma almeno facciamogli fare un po’ di didattica!) sembra quasi originale! A me sembra un non senso totale… viva la Ricerca (in Italia, purtroppo, ancora un’utopia, almeno in medicina)!
@ Nik: Ho preso i numeri dove li ho trovati, ma i numeri sono numeri ed hanno un loro ben preciso simbolismo, ancorché esoterico e un contenuto profetico. Come si faccia a parlare di didattica senza accennare al fatto che in Italia il 50% degli ordinari va in pensione, che a Siena la situazione del turn over è resa ancora più drammatica dalla situazione del debito e che pertanto i corsi di laurea vengono raffazzonati alla meno peggio, Dio solo lo sa. Se poi dobbiamo parlare delle forme di vita nelle lontane galassie e dell’insegnamento nel migliore dei colleges possibili… vabbè, chi si contenta gode. Sono però assolutamente concorde con quello che scrivi: la qualità dell’offerta formativa può essere garantita soltanto dalla combinazione tra ricerca e didattica e non si vede cosa un docente universitario possa insegnare al di fuori del suo campo e della sua ricerca. Perfetto: ma ti sembra che stiamo andando nella direzione da te auspicata? Oramai si parla apertamente e senza imbarazzo delle lauree triennali (eufemisticamente) come di “super-licei”, “ultra-licei”, degli “oltre-licei”, sebbene questo oltrepassamento assuma, nei discorsi ufficiali permeati di demagogia, quasi un sapore sinistro, come l’ “oltre” dei manifesti scamiciati di Bersani.
Non vedo come si possa evitare di constatare che si sta marciando nella direzione esattamente opposta a quella dichiarata, ossia (per usare il lessico del brano giornalistico citato), da un lato i corsi “eccessivi” talvolta non vengono smaltiti (vedasi l’affaire esemplare senese-aretino), e dall’altro lato, anche a causa di ciò, un po’ tutti i corsi risultano inevitabilmente affetti da “bizzarria”: le imprese inutili, le fuffologie varie vivono, in questa stagione, conseguenzialmente, la loro insperata apoteosi, giacché scomparendo i docenti più anziani, bloccando, emarginando o buttando fuori i docenti più giovani, appiattendo la didattica, spappolando l’organizzazione della ricerca, tagliando i rami più alti (specialistici) e “accorpando” in modo cinobalanico, alla lunga non possono che uscir fuori dei corsi di laurea claudicanti: è evidente che tutto ciò è fatto per non durare. In fondo però, questo è solo il compimento di quel “pensiero” che da molti anni imperversa in Italia e che ha visto un laboratorio di sperimentazione privilegiato proprio in questo ateneo, non un cambio di mentalità rispetto ad esso. La selezione basata sulla moria dei docenti equivale al puro fatalismo e non ha nulla in sé di “qualitativo”, giacché non vanno in pensione solo gli indesiderabili (se ve ne sono), allo stesso modo in cui, in natura, non crepano solo le carogne.
Caro Rabbi,
mi pare chiaro, da quanto scrivi, che di “docenza” ne mastichi e tanto mi basta per prendere per buona la tua analisi… eccetto che per un dato, che nel tuo dire sembra scontato, ma che scontato non mi pare affatto, almeno nell’ateneo senese: la qualità dei docenti.
Pensionati o “pensionabili”, giovani o meno giovani, per quanto accomunati da un medesimo ruolo, i docenti non sono tutti (qualitativamente) uguali e non credo che si possa affermare la valenza di un corso di studio piuttosto che un altro, a prescindere da chi vi insegna e da come e cosa vi si insegna.
Mi riferisco, qui, in particolare, alla “Universitas” delle origini, nella quale la cultura, la competenza e anche il carisma e la capacità di comunicare del “docente”, facevano davvero la differenza e la “Filologia Romanza” poteva risultare “attraente” tanto quanto la Medicina o la Giurisprudenza.
Oggi è ancora così? O sono solo i contenuti a fare la differenza e il docente non conta più nulla?
Se il “docente” e il modo di “docere” contano ancora qualcosa, allora urge una ridefinizione di quelli che tu chiami “indesiderabili” perché la storia personale che ho raccontato dichiara che io sono un “indesiderabile” e che, nel mio caso, il “sistema” ha funzionato egregiamente, tenendomi a debita distanza dalla docenza!
Più di un indizio mi dice, al contrario, che gli “indesiderabili” di cui parli tu sono i baroni:
– che ci hanno ridotto in questo stato;
– che hanno usato la docenza come affermazione di potere, privilegi e autorità;
– che se ne fottono degli studenti (molti trattandoli con sprezzo e senza alcun rispetto);
– che incentivano il culto della “aurea mediocritas”;
– che temono quelli bravi e li emarginano o li costringono a salpare per altri lidi.
Ho parlato di marziani e di galassie lontane o questi signori sono ancora e sempre tra noi? E allora che si fa, ce li teniamo e continuiamo a sperare che l’ateneo si salvi?
La ricerca? Quando l’esempio viene dall’alto:
Il vice presidente del Consiglio nazionale delle ricerche de Mattei ha paragonato su Radio Maria il terremoto in Giappone a una “voce della bontà di Dio”. … (Il Fatto)