Il perfido Suyodana (Zoom, 30 marzo 2011). Con un comunicato che usa generici slogan (“Qualità dei corsi di studio, attrattività per gli studenti, razionalizzazione delle risorse, diversificazione e riduzione delle ridondanze”) e una manciata di cifre incomprensibili per qualsiasi normale cittadino, il Rettore Riccaboni ed il delegato Frati spiegano in che modo l’Ateneo avrebbe rivisto l’offerta formativa: in sostanza, sono stati tagliati ulteriormente i corsi di laurea (il 23%). Cosa possiamo osservare in merito? Intanto che è la legge, la 240/2010, che impone una razionalizzazione dei corsi e non si vede quindi cosa ci sia da vantarsi nell’aver applicato una norma. Sappiamo inoltre che esiste una naturale flessione del numero delle immatricolazioni che non è certo dovuta all’affastellarsi di corsi di laurea, molti dei quali istituiti senza altro criterio che la moltiplicazione dei pani (le cattedre) e dei pesci (i docenti e il personale).
La moltiplicazione dei corsi di laurea ha prodotto sia una crescita vertiginosa dei costi che lo snaturamento della stessa Università. Spesso si tende, nell’opinione comune a credere che l’Università abbia il compito di sfornare premi Nobel, ma, in realtà, lo scopo, oltre che della ricerca, è di formare gli studenti per attività sociali e lavorative per le quali il titolo di studio della scuola media superiore è ritenuto insufficiente dallo Stato. Dover tagliare l’offerta formativa, nel caso dell’Ateneo senese, ha quindi un solo significato, ben diverso da quelli che vengono indicati (innalzamento della qualità, attrattività ecc. ecc.). Tra il 1993 e il 2007, l’Ateneo di Siena, come altre istituzioni cittadine, era divenuto un carrozzone dove far salire centinaia di docenti e impiegati, senza un rapporto con criteri di programmazione e di oculatezza gestionale e Riccaboni, presidente del Nucleo di Valutazione prima, Preside poi, sa di cosa si sta parlando. Ora il carrozzone non regge più il carico e va alleggerito, ma purtroppo a pesare sono delle persone e non dei corsi di laurea il cui taglio dà ben pochi benefici. Ma un vero risanamento che sia credibile agli occhi del Ministero ancora non si è visto a quattro mesi dalla nomina del nuovo rettore, il quale ha forse addirittura peggiorato la situazione muovendosi come un elefante in un negozio di cristalleria ed inimicandosi tutti salvo i suoi fedelissimi.
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L’avete letta la modifica al regolamento per il prepensionamento? Chi La Ama, La Lascia… oppure Chi La Ama, La Lasci
Altro che settore marketing!! Moral suasion… irresistibile!
«…si smezzano i docenti del settore di storia contemporanea che hanno impestato l’Ateneo fra Lettere I, Lettere II e Scienze Politiche e si fa a cambio con un altro professore di anatomia.»
Cesare Mori
…non so quanti siano gli storici contemporaneisti, né se siano costoro la comunità più perniciosa, o se sia quella dei notomisti la categoria più tartassata; faccio però notare a codesti uffici che se fosse possibile tradurre un professore da un ateneo a un altro, allora non saremmo in Italia, dove persino la chiusura di una sede distaccata per manifesta insostenibilità diviene un affare di stato. La teoria dell’ “autonomia universitaria”, l’indipendenza ed universalità dell’istituzione universitaria (“Universa universis patavina libertas” ecc.) qui si compendiano d’altro canto nelle parole -parafrasate fedelmente- del sindaco aretino Fanfani jr.: “o mi date un doppione dell’università di Siena, o io non vi dò il termovalorizzatore”. Ribatte la Lega padanica, sentenziando, a commento del meritato rinvio a giudizio degli indagati per il dissesto finanziario dell’ateneo… che il Ceccuzzi è inadatto a fare il sindaco: capisco il significato politico-simbolico, ma che per caso è professore di qualche cosa anche il Ceccuzzi?
Anche la locale opposizione (che per inciso, spesso si dimentica volentieri che a livello nazionale è il governo) non mi pare in effetti avere le idee molto chiare sul futuro dell’ateneo senese; cosicché indulge ad ogni sorta di facile demagogia populista, anche a costo di contraddirsi platealmente: per la Lega tendenzialmente ci sono troppi studenti, mentre un manifesto del partito del Cavaliere titola in modo allarmistico: “l’Università ha perso 2000 studenti!”; certo, a forza di chiudere corsi di laurea e riassemblarli in modo cinobalanico (trad. it. a cazzo di cane) non potete immaginare che gli studenti – che non sempre fa rima con “dementi” – aumentino; se d’altro canto vi compiacete del fatto che gli studenti calino, faccio notare che ridurre l’Ateneo alle dimensioni che aveva prima dell’avvento “del Sultano di Stigliano e del Faraone di Pescia”, cioè un ateneuzzo formato contrada attorno ai diecimila studenti, non lo salverebbe certo dal declino, ma accelererebbe la dissoluzione, giacché comporterebbe la sua classificazione come “piccolo ateneo inutile”: per tali diseconomiche strutture lillipuziane di scala nanotecnologica, nel futuro è prevista inesorabilmente la soppressione.
«Ora il carrozzone non regge più il carico e va alleggerito, ma purtroppo a pesare sono delle persone e non dei corsi di laurea il cui taglio dà ben pochi benefici.» Il perfido Suyodana
Però va chiarita la contraddizione per cui da un lato si dice che i docenti “sono troppi” (media OCSE uno ogni quindici studenti, media italiana uno ogni venti, media senese, una via di mezzo, prima però che iniziasse la ridda dei pensionamenti), mentre dall’altro i corsi chiudono a causa del venir meno dei requisiti minimi di docenza. L’unica soluzione efficace sarebbe trasferire in blocco altrove i settori che non si possono più sostenere, “polarizzare” a livello regionale le specializzazioni, permettendo ed incentivando la mobilità dei docenti verso altri atenei: le declaratorie della nuova legge lo prevedono, se mai questa diventerà operativa, nel paese dove il concetto di “mobilità” è stato abolito dal vocabolario universitario, così come sono state cancellate intelligenza e prudenza dal catalogo delle virtù. Un riformatore autentico, davanti a situazioni gravemente patologiche come quella senese, avrebbe almeno il coraggio di chiudere e dichiarare fallimento, trasferendo altrove baracca e burattini; come ripeto, un salvacondotto per andarsene sarebbe la cosa più onesta che l’ateneo e il ministero potrebbero concedere a chi ancora ha voglia di lavorare, anziché attendere mestamente la pensione. Per quanto riguarda questi uffici, non avrei alcuna obiezione a levarmi dai cabbasisi, se solo una simile prospettiva prendesse corpo. Ma qui non si riesce nemmeno ad affrontare seriamente il problema delle sedi distaccate. Evitiamo dunque, per favore, gli “opposti estremismi”: sia le medie trilussiane per cui “tutti” hanno mangiato un pollo, sia il non vedere certe operazioni scandalose, ossia che per tutelare equilibri tutt’altro che trasparenti, ci aggingiamo ad esempio a varare doppioni esatti di facoltà, pur non avendo “i piccioli” e i professori nemmeno per tenerne ritta una sola copia.
Il taglio dei corsi di laurea, come giustamente rilevi, non è stato effettuato in vista dei benefici, ma solo in ottemperanza alle ferree norme ministeriali mussiano-gelminiane che impongono un certo numero esatto di docenti per ogni anno di corso e una loro precisa miscela (requisiti che diverse facoltà non sono più in grado di soddisfare): l’esito inevitabile sono gli “accorpamenti”, che oramai si succedono al ritmo di uno all’anno generando solo caos e sconcerto, per dar luogo a corsi di laurea dal nome e dall’indirizzo incomprensibile, ossia “le nozze coi fichi secchi”, il trionfo degli insegnamenti generici che con molta riluttanza chiamerei “universitari”, in una cornice che ormai da anni vede il totale ribaltamento della naturale gerarchia fra ciò che è “fondamentale” e ciò che è “complementare”. In verità, poi, nessuno si è fatto avanti con piglio decisionista e in nome del buon senso battendo la scarpa sul tavolo ha detto: “qui bisogna chiudere questo o quello e mandare chi ci lavora di qui e di qua”. No, anzi: se a livello nazionale si procede a sòn di sterili dispacci, laconici comunicati, asettici format, cabalistiche tabelle, a livello locale si risponde con meste dichiarazioni di impotenza e interminabili scaricamenti di barile, onde per cui “riformare”, un po’ per necessità, un po’ per scelta deliberata, è finito per voler dire tenere in piedi gusci oramai vuoti, simulacri, fantasmi di corsi deceduti.
«Spesso si tende, nell’opinione comune a credere che l’Università abbia il compito di sfornare premi Nobel, ma, in realtà, lo scopo, oltre che della ricerca, è di formare gli studenti per attività sociali e lavorative per le quali il titolo di studio della scuola media superiore è ritenuto insufficiente dallo Stato.» Il perfido Suyodana
Beh, questa mi pare una inattesa lancia spezzata a favore di certi personaggi da te messi alla berlina (di quelli che da vertiginose altitudini intellettuali proclamano la necessità di abbassare il livello per avere più studenti): a che serve in fondo la geometria differenziale? Il contesto generale, è peraltro quello in cui le riforme di fatto non le scrive un Gentile, con respiro culturale mitteleuropeo, ma l’oscuro burocrate, il Bartleby lo scrivano di turno, a sòn di algidi comunicati dai quali non ci si attende nessun respiro (se non l’ultimo, che l’università italiana si accinge ad esalare). Ciò che lascia sgomenti, a mio avviso, in questa gara al ribasso fra riformatori nazionali e riformatori locali per la svendita della cultura, è la rozzezza e il provincialismo del dibattito scientifico e culturale intorno all’università e la superficialità con cui si affronta il tema della ricerca, che pare appannaggio di esuli navigatori solitari, scaruffati scienziati pazzi e di meditabondi metafisci appollaiati in cima a qualche colonna, e non di comunità che interagiscono (o dovrebbero) su precisi programmi di ricerca, standard ed obiettivi ben delineati, oramai inesorabilmente a livello internazionale. È evidente che qui la ricerca non è una priorità: né evidentemente è per tutti la stessa cosa, essendo per alcuni, in effetti, solo un modo di dire. Ma stai ben attento, che non è palesemente una priorità, nemmeno la buona didattica, visto che con le metodiche suddette, l’università accentua il suo carattere di inutile diplomificio dove non si impara sostanzialmente a fare niente. Del resto il CEPU di massa e la graduale soppressione dell’università pubblica, è ciò che chiedono anche da “Roma ladrona” ed è al CEPU che il nostro caro premier ha inaugurato l’anno accademico (giorni fa, per inciso, è scoppiato uno scandalo in una università telematica, che io credevo fosse già uno scandalo in quanto tale); quindi prevedo che operazioni scervellate di ulteriore appiattimento della didattica, ricevano il beneplacito e la benedizione bipartisan del ministero e del’autorità locale. I proclami intorno all’eccellenza appaiono a tutti gli effetti solo chiacchiere. A questo andazzo dovrebbe opporsi in un sussulto di orgoglio dell’opinione pubblica cittadina, e invece paradossalmente, mentre con notevole megalomania la città si candida a capitale europea della cultura, supinamente si accetta persino che qui rimanga solo un lacerto della ex facoltà di Lettere e Filosofia, oggetto (in passato come oggi) di strani mercanteggiamenti e baratti, benché in genere non mi pare vi sia un gran commercio d’opere d’inchiostro al di fuori dell’università. A proposito della interessante proposta di trasferire la facoltà di Lettere al Laterino: se continuano a smantellare corsi di laurea ed insegnamenti fondamentali per mantenere in piedi sedi distaccate (a spese di Siena!), nonché le notevoli “scienze del gatto” (insomma, le bojate), ho il sospetto che da qui a un paio d’anni, con la fuga di studenti ed il pensionamento dei docenti, del Laterino basterà un solo loculo per ospitarla.
«La moltiplicazione dei corsi di laurea ha prodotto, sia una crescita vertiginosa dei costi che lo snaturamento della stessa Università.»</em Il perfido Suyodana
Direi semmai che è lo snaturamento dell'università, che ha prodotto il proliferare di corsi inutili. Proprio in questa luce, per non accentuare cioè questa tendenza patologica, non credo poi sia una idea lungimirante quella di separare del tutto ricerca e didattica (anche perché, realisticamente, poi non è chiaro in questo momento chi dovrebbe occuparsi dell'una o dell'altra). In più, qui non abbiamo niente di paragonabile alle germaniche "Fachhochschulen", cioè la ricerca applicata legata al tessuto produttivo del territorio. Il Nobel non c'entra, ma disfare una cattedra, azzerare un gruppo di ricerca, lasciare a zonzo i ricercatori senza ricerca, senza più nemmeno una cattedra o un progetto di ricerca (vero) di riferimento e assassinare pressoché tutti i precari, insomma tutti coloro non ancora candidabili ad un posto in Campansi, per quanto dettata dalla necessità, non mi pare possa configurarsi come una politica che possa condurre al perseguimento di quel "risanamento", che è condizione necessaria per ricevere la pecunia dallo stato e attirare gli studenti. L'opinione pubblica però, preferisce attardarsi in dibattiti fiacchi, abbastanza fuori dal mondo e sostanzialmente ipocriti tipo: "pole il ricercatore insegnare bene? No", additando gente titolata che insegna da quindici anni, fatta fuori la quale, la trasformazione in necropoli dell'università di Siena sarebbe pressoché compiuta. Suggerirei di soprassedere al rozzo rigurgito baronale immemore del fatto che molti ricercatori (che non sono tali per necessità ontologica o costituzione genetica) sono rimasti oramai gli unici strutturati a tener in piedi settori disciplinari importanti. Ho trovato semmai un po' sterile e autolesionistico tutto il dibattito sul carico di ore di didattica assegnato ai ricercatori, specie in quelle facoltà dove non ci sono laboratori da tenere aperti: il punto vero non è questo, bensì se la didattica ha qualche legame con la ricerca che loro sono tenuti per contratto a portare avanti, ovvero con la loro stessa disciplina, oppure se (come di fatto sta accadendo) vengono spesso usati a mo' di tappabuchi, mossi come pedine nello scacchiere dei corsi di laurea sempre più stravaganti irrefrenabilemente varati ormai con ritmo annuale, col meccanismo degli accorpamenti. Credo che quel 50% di ricercatori che ha deciso di astenersi dalla didattica, dovrebbe casomai, più plausibilmente, rifiutare di insegnare in settori diversi dal proprio. Premi Nobel, poi, questo ateneo non ne ha mai sfornati (pochi anche l’università italiana in genere). Molto più modestamente vorrei andare a vedere quanti laureati senesi passano le selezioni per l’insegnamento nelle scuole.
«Tra il 1993 e il 2007, l’Ateneo di Siena, come altre istituzioni cittadine, era divenuto un carrozzone dove far salire centinaia di docenti e impiegati, senza un rapporto con criteri di programmazione e di oculatezza gestionale e Riccaboni, presidente del Nucleo di Valutazione prima, Preside poi, sa di cosa si sta parlando.» Il perfido Suyodana
…salivano tutti su certe carrozze: quelle carrozze che, appunto, per uno scherzo del destino (cinico e baro) sopravvivono oggi alla falcidia dei “requisiti minimi”, proprio in forza delle legioni di docenti accumulate in passato. È vero, non nascondiamoci dietro a un dito: il legame politica-università e il “familismo amorale”, qui, nel piccolo universo chiuso della provincia, sono semplicemente asfissianti, e la politica politicante non risolve i problemi dell’ateneo, anzi, semmai li aggrava. Dopo quello che è successo a Siena credevo che molti venissero tormentati da quella cosa che certe persone chiamano “coscienza” – un buco, ricorda Musil, che taluni riempiono con idealità e morale. Invece no: se non si definirà esplicitamente una precisa scala di valori, l’ateneo è destinato a un inarrestabile declino, giacché gli studenti non sono utili idioti e -tranne un certo numero di perdigiorno- se vengono a Siena dal paesello a cinquecento chilometri da qui, reclamano di trovare ciò che era stato loro promesso: a fortiori se decidono di studiare una certa materia per pura passione, senza riflettere troppo sulle cupe prospettive occupazionali; si rendono conto ben presto se sono scivolati in una palude provincialoide, dopo essere stati attratti dall’antica fama e dallo specchietto delle allodole di statistiche oramai inattuali dei varii CENSIS. Al Perfido Sudoyana, “je risulta” per caso che stiano abolendo i “corsi inutili”? A me proprio no: a ben guardare chiudono soprattutto i bischeri, quelli più lontani dal potere politico. Stanno abolendo semplicemente diversi corsi, dichiarati inutili “post mortem”, com’è inutile un cadavere, dai sopravvissuti a scapito loro. Mi pare infatti, come ho già detto, che l’unica attività “riformatrice”, in questa fase, ammonti alla contemplazione della putrefazione negli stadi dopo la morte, come raffigurato negli affreschi del Camposanto pisano: quando qualcuno se ne va, si chiude il sarcofago: una prece per il caro estinto e amen. Gli uffici di Cesare Mori hanno ragione, rilevando che la distribuzione dei professori era già assai squilibrata prima: ora lo è anche di più e ritengo che anche qui urga un aggiornamento dello stato dell’arte, dopo che i pensionamenti hanno ampiamente falcidiato interi settori un poco a cacchio. Noto, per inciso, che anche la vis polemica del Bardo si appunta su personaggi che, a quanto mi risulta, se sono ancora vivi, si godono l’agognata pensione lontano da Siena, taluni già da oltre un decennio.
Per restare nel mio hortus conclusus, che vale una Facoltà di Lettere dove non c’è neppure uno scritto, né di italiano, né tanto meno di latino e greco? E per scritto intendo non una tesina preparata con un mese di anticipo copiandola su internet, ma delle belle prove date ex abrupto, affrontate col solo ausilio del vocabolario, del tipo: Parafrasi, analisi stilistica e commento di “Alla primavera o delle favole antiche”, De Horati carminibus cum Lucili saturis comparantes disserite, da stendere ovviamente in latino, o una quarantina di righe da Tucidide da tradurre in buon italiano.
Dunque requisiti di dOcenza o di dEcenza?