Per il pensionamento dei docenti e per le scelte strategicamente sbagliate l’offerta didattica all’università di Siena peggiora a vista d’occhio

Rabbi Jaqov Jizchaq. I politici si riempiono la bocca di paroloni per impressionare le comari: ma quale “polo d’alta formazione” d’Egitto? Quante sono le sofisticate specialità locali che dovrebbero attrarre studenti da tutto il mondo? Ma per favore, guardatevi attorno: ad un tiro di schioppo c’è Firenze e c’è Pisa e per quanto non navighino nell’oro, al loro cospetto, Siena sta scivolando verso la dimensione di un modesto “college” di serie B, come quelli della remota provincia americana, “humus” naturale per il proliferare di tuttologi e di pressappochisti: di quel genere di animalini a cavatappo, insomma, che ci ammorbano da anni con le loro esilaranti imprese. La distanza fra parole e cose è veramente siderale, considerato che di fatto e anche per necessità, diverse facoltà si ristrutturano con l’obiettivo antistorico e minimalista, di non competere nazionalmente o internazionalmente, ma solo di racimolare studenti nel territorio, ossia nell’orto di casa, in provincia. Vorrei capire come si concilia tutto questo con le velleità di ricevere l’attestato di capitale europea della cultura, constatato che anche il “dibattito culturale” ad opera dell’intellighenzia politica locale è abbastanza deprimente, improntato al più vieto, accidioso, soffocante e cupo provincialismo, piagnone e narcisisticamente autocommiseratorio. Anche le chiacchiere intorno alla collaborazione fra i tre atenei toscani in vista di una migliore e più organica offerta didattica e di più solidi programmi di ricerca, ho il sospetto che pure chiacchiere, per lo più, siano destinate a rimanere; ciò era ampiamente prevedibile, non solo perché a questo “sposalizio” d’affari, Siena porta in dote soprattutto i debiti, ma anche perché le parole d’ordine che hanno accompagnato il varo della riforma, se non affermate in modo convinto e adeguatamente supportate, sia a livello legislativo, sia a livello finanziario (“liquore egual non v’è!”), si infrangono implacabilmente contro lo scoglio dell’inossidabile struttura di potere politico-accademico la cui virtù più preclara è l’inerzia.
 Di tale inossidabilità, abbiamo avuto una prova eloquente, tutta interna, con il piccolo golpe aretino: questo “pactum sceleris” (come direbbe Berlusconi), progetto velleitario subdolamente e illusoriamente mirante a trasferire in val di Chiana buona parte del comparto umanistico (a fare icché?), farà precipitare irreversibilmente la crisi di una facoltà da quasi tremila iscritti, che è dunque la più grossa o una delle più grosse facoltà dell’ateneo: un’operazione però paradigmatica di come si finga di risolvere i problemi, in realtà aggravandoli, a causa della quale, nel mio piccolo, credo di poter prevedere che Siena pagherà un conto piuttosto salato nei prossimi anni, in termini di perdita di iscritti.
Inutile raccontare frottole: questo è il grado di lungimiranza dei nostri risanatori; dall’Europa poi, l’università senese ed italiana, studenti non ne hanno mai richiamati; semmai si sta vistosamente accentuando la tendenza opposta, ossia quella per cui gli studenti italiani più motivati fuggono a gambe levate dall’Italia, attratti da chiare ed allettanti proposte didattiche in altri paesi, supportate anche da generose borse di studio. Ciò oramai avviene, non più dopo la laurea, per svolgere un dottorato e guardando a una carriera professionale o di ricerca, ma semplicemente per concludere con una laurea magistrale e oramai addirittura per iniziare il proprio normale percorso universitario. A fortiori scappano da Siena perché oramai l’offerta didattica di anno in anno (per la crisi finanziaria locale e generale, l’impossibilità di rimpiazzare le cattedre lasciate vuote dai pensionamenti e per scelte strategicamente sbagliate, ieri come oggi), si sta deteriorando e sta peggiorando a vista d’occhio, scadendo irriconoscibilmente sempre più in basso verso guazzabugli di infimo profilo.