Un risanamento possibile dell’Università di Siena

Scrivevo sulla stampa locale nel lontano 2004 che «la grave situazione finanziaria esistente nell’Ateneo senese ha già imposto e imporrà pesanti manovre che ipotecheranno l’attività programmatoria dei prossimi tre rettori, proiettandone gli effetti fino al 2018-2020.» Sembravano denunce e previsioni azzardate, dal momento che i bilanci dell’università di Siena, fino al 2004, furono chiusi sempre in attivo. In realtà, si scoprirà in seguito che gli esercizi 2002, 2003 e 2004 avevano accumulato un deficit complessivo di circa 55 milioni d’euro. Toccò aspettare l’insediamento di Silvano Focardi per vedere formalmente inserito nel consuntivo 2005 – l’ultimo esercizio della gestione Tosi – il primo disavanzo finanziario (33,8 milioni d’euro). Non solo, ma nella riunione del CdA del 29 maggio 2006 furono inoltre quantificati debiti per 180 milioni d’euro nei confronti di Inpdap, Banca MpS, Cassa Depositi e Prestiti. Ma non era ancora finita! Infatti, nel settembre 2008, si materializzò una voragine nei conti di circa 250 milioni d’euro. Una commissione tecnica d’indagine amministrativa stabilì poi che, almeno a partire dal 2003 e su disposizione di rettori e direttore amministrativo, i bilanci erano stati “manipolati”, rielaborando sia la gestione di competenza che quella dei residui.

Nonostante l’esistenza dell’obbligo di adottare iniziative idonee al rientro dal disavanzo d’amministrazione, sono trascorsi 7 anni ed ancora non è stato predisposto un piano in grado di riportare in equilibrio la gestione finanziaria dell’ateneo, almeno in un arco temporale realistico di 5 o 6 anni. Al posto del piano di rientro, sono stati adottati solo pannicelli caldi e provvedimenti che hanno aggravato la situazione. Infatti, nel 2006 si rinegoziarono i vecchi mutui e se ne stipulò uno nuovo di 45 milioni d’euro, in palese violazione della legge che vieta l’indebitamento per coprire un disavanzo d’esercizio o per reperire risorse per la gestione corrente. Eppure, sebbene mancassero le risorse per le spese correnti, si dette via libera a più di 650 nuove assunzioni, senza alcuna programmazione e necessità ed in assenza del relativo budget. Da ricordare che l’esistenza della copertura finanziaria non è solo un atto propedeutico all’effettuazione delle spese, ma rappresenta un elemento fondamentale attorno al quale ruota la legittimità dei procedimenti di spesa. Solo dopo la scoperta della voragine fu presentato un piano di risanamento che, ottimisticamente, prevedeva al 2012 il superamento degli squilibri esistenti. Ben presto, però, fu sostituito da un altro piano che tendeva all’equilibrio nel 2014, recentemente sostituito da un terzo piano che si proietta ancora più in avanti, fino al 2015, senza però riuscire a realizzare l’equilibrio finanziario. È del tutto evidente che senza iniziative strategiche d’intervento che riducano la spesa corrente e l’indebitamento, la sola politica dei provvedimenti tampone – rinegoziazione di vecchi mutui, dismissioni immobiliari, anticipazioni di cassa, rinvio dei pagamenti, cessioni di credito – aggravano ulteriormente la situazione spostando agli esercizi di un futuro sempre più lontano la possibilità di riequilibrare la gestione finanziaria dell’ateneo. E senza un preventivo risanamento strutturale del bilancio ed un ridimensionamento dell’ateneo non ci sarà futuro per la nostra università.

A questo punto è doveroso chiedersi se oggi, dopo tutto questo tempo perso, sia ancora possibile un risanamento. La risposta è semplice: l’ateneo, purtroppo, non è più in grado di assicurare autonomamente il riequilibrio della gestione finanziaria. È necessario l’intervento congiunto di Comune, Provincia, Fondazione Mps, Regione toscana e Governo centrale per iniziare l’opera di risanamento. Ma non basta! Occorre un ridimensionamento dell’ateneo, attraverso una drastica riduzione dell’offerta formativa, che si accompagni ad un rilancio della didattica e della ricerca. Siccome il disavanzo strutturale, dipendente principalmente dalle spese fisse per il personale, si aggira sui 30 milioni d’euro l’anno, è indispensabile ridurlo senza compromettere o abbassare la qualità delle attività istituzionali. Per l’università di Siena non è più economicamente sostenibile – ammesso che lo sia mai stato – l’offerta formativa nelle sedi decentrate. La loro chiusura si può evitare in un solo modo: le comunità locali si facciano carico interamente dei relativi costi, compreso l’onere del personale docente e non docente. Logica e senso di responsabilità impongono che l’ateneo senese non continui a svendere il proprio patrimonio immobiliare ed a chiudere i corsi di laurea della sede centrale per tenere in piedi i poli sparsi sul territorio. Senza considerare che è ormai reale il rischio di chiusura della sede storica e, di conseguenza, di tutte le attività periferiche ad essa collegate. Una politica del genere applicata al solo Polo aretino dimezzerebbe il disavanzo strutturale, facendo risparmiare 15 milioni d’euro ogni anno. Infine, ad Arezzo l’ateneo senese dispone di un patrimonio immobiliare, l’ex ospedale psichiatrico “il Pionta”, valutato 25 milioni d’euro, da vendere o affittare agli enti locali aretini per ospitare la “loro università”.