Rabbi Jaqov Jizchaq. Dice Riccaboni: «Dentro l’università non c’è ingerenza politica!» È vero: dentro l’università non c’è la politica, c’è la …partitica. Non si vede, in effetti, all’opera alcuna lungimirante politica per l’università, ma si è visto nel corso degli anni un mercimonio squallido di posti di lavoro e di carriere prettamente partitiche, nel campo della docenza come in quello tecnico e amministrativo. I pesantissimi squilibri e i paradossi coi quali ci misuriamo (da un lato c’è troppo personale, dall’altro molti corsi e servizi cessano per mancanza di personale) rivelano meglio di qualsiasi altra cosa quale sia stato il ruolo della “partitica” all’interno dell’università, in assenza di una vera politica.
Personalmente continuo a ritenere intollerabile il fatto che il dibattito politico attorno all’università prescinda paradossalmente dall’essenziale: quando la FIOM o i giornali parlano della FIAT, si occupano eccome di impianti, stabilimenti, linee produttive, modelli, competenze tecniche, ingegneri, maestranze, progetti, competitività, produttività, motori, bielle e pistoni. Perché questo è ovviamente essenziale nella vita di una fabbrica; anzi, questo è ciò che tiene in vita la fabbrica; spesso quando un politico parla di università, pare che stia parlando dell’ennesimo ente pubblico da depredare, fatto esclusivamente di generici “posti” e “uffici”, dove alberga pigramente il ragionier Fantozzi e altri impiegati perfettamente intercambiabili. Un oggetto immobile e sempre uguale a sé stesso, non un corpo amputato e non una fabbrica anch’essa, che sta giorno dopo giorno perdendo impianti, professionalità, prodotti, competitività. L’ottica da cui guardare le cose non può essere quella rassegnata, ma, tutto sommato, comoda di chi va in pensione al culmine della carriera fra tre o quattro anni, ma quella di chi deve restare ancora per molti anni.
Assodato che di soldi non ne verranno, che il paese perde 480 posti di lavoro il giorno, mentre chiudono migliaia d’imprese, anziché aspettare Godot si dovrebbe puntare alla riorganizzazione complessiva del sistema universitario, e questo è un problema che travalica i confini cittadini. Più tempo passa, più la situazione sarà difficile da recuperare; non è veramente tempo di autarchia e di particolarismi feudali, di soluzioni abborracciate o minimaliste; mettere delle pezze non basta più (“peso el tapòn del buso”), ma purtroppo direttive lungimiranti e coraggiose dall’alto, ove ci si compiace, oramai esausti ma appagati (“il settimo si riposò”) di aver disegnato una riforma “epocale”, non ne vengono. La splendida trovata di trasformare le facoltà in dipartimenti dagli acronimi bizzarri, non mi pare proprio di per sé sufficiente a fronteggiare problemi delle dimensioni di quelli predetti. Di sicuro c’è solo che implacabilmente ci attendono altri tagli, senza che sia chiaro qual è al fondo la “pars construens” di questa non-politica.
L’università di oggi appare padronescamente tiranneggiata da un’insensata e meccanica burocrazia di genere sovietico: anche le “valutazioni” meritocratiche si riducono alla fine in enormi pasticci burocratici; nulla, che abbia a che fare con i contenuti e col senso delle cose, pare avere più diritto di cittadinanza. Sembra che la compulsiva emanazione di “circolari” e promulgazione di “decreti” e divieti, di complicatissime tabelle che quantificano il nulla (strumenti di tortura coi quali si infierisce sadicamente su un corpo malato), basti di per sé a coprire l’assenza di un orizzonte di senso in una macchina che in larga misura gira a vuoto.
Il buco senese è stato “scoperto” oramai da cinque anni, se non sbaglio. Sono stati messi in vendita storici edifici che nessuno comprerà e l’unico esito sarà quello di rendere ancora più spettrale il centro storico di una città già semivuota di residenti. Leggo nel sito MIUR che al 2007 a Siena risultavano 1050 docenti di ruolo; al 2012 risultavano scesi a 811. IL dato nazionale è che si è perso in pochi anni il 22% del corpo docente. Il trend non mi pare destinato a invertirsi. Il che vuol dire, con le leggi attuali, e in forza del solo dato anagrafico, che hanno chiuso e chiuderanno nei prossimi anni molti altri insegnamenti e corsi di laurea non esattamente “inutili”. In questa cornice, grandi idee per far fronte alla gravità del momento non se ne vedono; come ho già scritto, a mio modestissimo avviso il problema oramai non si risolve “intra moenia”, attraverso una sorta di ripiegamento provincialistico (“piccolo è bello”), ma solo in chiave “federalista”, cioè attraverso una fattiva e robusta interazione a livello dei maggiori atenei della regione.
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P.S. Per far capire meglio cosa intendo e su cosa vorrei richiamare l’attenzione dei lettori di questo blog, riporto un brano riguardante l’accreditamento dei corsi universitari (by the way è uscito giorni or sono un altro decreto, che però non ho ancora letto: ciò non cambia la sostanza del discorso); sarebbe simpatico se autorità e forze politiche si esprimessero su questa tematica:
«Secondo quanto previsto dall’art. 5, comma 1, del D.M. n. 270/2004, “a ogni credito corrispondono 25 ore di impegno complessivo per studente” e, secondo quanto previsto, da ultimo, dai decreti sulle classi (v. art. 5, comma 2, dei DD.MM. 16 marzo 2007), l’organizzazione delle attività didattiche deve prevedere che almeno la metà di tale impegno sia destinato allo studio autonomo […] Su tali basi, il CNVSU ha ipotizzato che non meno di 8 ore per credito siano impegnate dallo studente per attività di lezione e che i 5/6 dei crediti complessivi riguardino il superamento di esami di profitto relativi ad attività formative di insegnamento 42.”»
«”Sotto le predette due ipotesi, per conseguire un titolo di primo livello, ciascuno studente dovrebbe seguire almeno 1200 ore di lezione. Dato che si è ipotizzato che ciascun docente di ruolo impegna 100 ore di attività per i corsi di 1° e 2° livello, qualora tali ore fossero impegnate esclusivamente nelle attività relative a un solo corso di studi, sarebbero necessari dodici docenti di ruolo per sostenere l’attività didattica di un corso di primo livello, otto docenti per i corsi di secondo livello, 20 e 24 per i corsi a ciclo unico di durata, rispettivamente, quinquennale e sessennale”.»
(A. Siddi, L’accreditamento dei corsi di studio universitari in Italia, reperibile su internet)
È evidente qual è l’effetto dell’uscita di ruolo a Siena di circa 250 docenti a turn-over fermo: la chiusura di corsi di laurea un po’ a casaccio, in maniera gaddianamente cinobalanica e al contempo l’ “esubero” dei docenti rimanenti (perché se ci vogliono venti docenti per un ciclo intero e sette ti sono andati in pensione, tu dimmi che ci fai con gli altri tredici). La fase degli accorpamenti interni ai singoli atenei, temo che si sia pressoché esaurita, con certi bei capolavori di corsi di studio prodromici alla disoccupazione più nera, dove si assaggia di tutto un po’ a mo’ di happy hours, ma non si sa in cosa ci si laurea e non si approfondisce nessuna materia, essendo la didattica costretta in un ambito implacabilmente propedeutico. Di “riserve”, per rimpiazzare numericamente i buchi lasciati dai pensionati e dai pensionandi, oramai non ve ne sono più. Quante uscite sono previste nei prossimi anni? Molte. E quante entrate? Quasi punte. I numeri sono sempre più piccoli e gradualmente si estinguono; inutile fruzzicare con piccoli espedienti ed arrabattarsi per tenere in piedi finzioni di corsi di laurea ricorrendo all’analisi infinitesimale unita ad espedienti burocratici giustificati con acrobazie dialettiche per far tornare i conti: sono soluzioni di breve momento e tanto si sa che puntualmente vengono stigmatizzate e punite dai Competenti Uffici. I quali uffici però, sono tanto bravi a dire ciò che non si deve fare, quanto recalcitranti nel chiarire cosa si dovrebbe fare. Pertanto è inutile e pericoloso tergiversare ulteriormente: occorre urgentemente predisporre un piano regionale per salvare i comparti della ricerca a rischio estinzione e garantire un’offerta formativa all’altezza delle tradizioni scientifiche di questa regione, attraverso una fattiva collaborazione tra gli atenei, che appartengono allo Stato italiano, non ai partiti o alle baronie locali.
http://shamael.noblogs.org/?p=6873
P.S. – Oggi il Corriere della Sera riporta, tra gli altri, il dato allarmante secondo cui il corpo docente italiano è il più anziano d’Europa: un quarto circa dei docenti italiani ha più di sessant’anni (contro il 5,2% del Regno Unito, il 6,9% della Spagna, l’8,2% della Francia e il 10,2 della Germania). In Germania il 31,6% dei docenti ha meno di trentaquattro anni; mentre in Italia siamo al 4,7%: a quell’età, da noi, si fa i precari. Già se n’è andato in pensione il 22% del corpo docente e riferite a Siena, queste considerazioni, data la peculiare situazione in cui versa l’ateneo, dovrebbero moltiplicare l’allarme: resteranno in vita solo i settori che dispongono di più personale e di età meno avanzata; non è chiaro cosa intendano fare dei settori entrati in crisi e del personale “in esubero” proveniente da questi settori, ma la cretinata che ho udito, secondo cui si tratta di un “costo sociale” accettabile (ma “accettabile” per chi?), meriterebbe una botta in testa con la chiave giratubo, a scopo pedagogico. Sarebbe utile, se il prof. Grasso sa dove reperire i dati, una proiezione da qui a cinque anni per sapere quanti professori resteranno in servizio (700? 600?) e cosa ci si fa, compatibilmente con gli implacabili “requisiti minimi di docenza” con un tale ammontare. Il presidente del CRUI, interpellato sulla vicenda, non trova altro di meglio da fare, se non ripetere come un automa che ci vorrebbero più soldi e più autonomia da parte degli atenei: ma autonomia per fare “icché”? E i quattrini, nella drammatica recessione che stiamo vivendo, dove si trovano? Possibile che le baronie manchino totalmente di lungimiranza e pensino sempre e solo alla difesa dell’orticello, anche se questo oramai è ridotto ad un fazzoletto di terra sterile? Nella situazione in cui siamo, data la acclarata impossibilità da parte degli atenei “generalisti” di sostenere molte aree della loro tradizionale offerta didattica, e il rischio di dissoluzione di interi comparti scientifici, occorrerebbe al contrario meno autonomia e maggior collaborazione – un’impostazione che si direbbe “federalista” – Vedi miei precedenti messaggi.
Quando mai un edificio si restaura cominciando dal tetto! Qualsiasi riforma universitaria che non preveda una vera e propria rivoluzione copernicana della scuola media inferiore e superiore non potrà che abortire. Del resto le richieste dei rettori si sostanziano in un aumento dei fondi e in una maggiore autonomia onde, non contenti di quella che hanno già, poter sperperare altro danaro pubblico nei modi e nelle forme a loro ben note e in altre che la loro fervida immaginazione potrà suggerire.
La realtà è che la scuola media inferiore è una pura perdita di tempo, non ci si impara nulla e non c’è la benché minima selezione: todos caballeros. La media superiore soffre del medesimo male e licenzia il 99% dei maturandi con voti stratosferici e livelli di preparazione ipogei (particolarmente nella Calabria Saudita e regioni circonvicine. Tra l’altro sarei curioso di sapere come sono quei quattro gatti che bocciano), da qui il gonfiarsi e il proliferare delle università, e quindi delle docenze, necessari ad accogliere la massa dei diplomati, l’assalto alle ormai famose facoltà del bue muschiato e il conseguente adeguarsi delle singole materie all’infima qualità della preparazione di base (tengo famiglia), associato ai risibili conati di corsetti propedeutici che dovrebbero sostituire in dieci lezioni da cinque a otto anni di studio. Poi la bolla speculativa è scoppiata: da una parte la dissennatezza degli amministratori che ha disastrato le finanze universitarie (dove più, dove meno, ma sempre disastri sono), dall’altra l’amara scoperta da parte dei laureati in scienze del bue muschiato et similia di essere stati fregati, di non essere stati il fine, ma il mezzo della macchina educativa e di aver fatto strame a tutta l’organizzazione didattica nazionale, di essere stati, in buona sostanza, il carburante che quell’enorme macchina ha bruciato per sostenersi.
…scusate, a scanso di equivoci, vorrei precisare che non sto parlando di situazioni ipotetiche “del terzo tipo”, ovvero dell’irrealtà, delle quali si può amabilmente discettare davanti ad una tazza di tè; non sono ragionamenti controfattuali o valutazioni generiche o futuristiche: “hypotheses non fingo”, la situazione cui alludo è reale e presente, qui e ora. Le decisioni andrebbero prese oggi (o meglio ieri). Cosa vogliamo fare?
P.S. – Outis, quello che dici è senz’altro vero, ma rischia di essere superato dai fatti: il “gonfiarsi” delle università è un tenero ricordo del passato; abbiamo perso in questi anni il 22% dei docenti e un quarto di quelli che restano ha più di sessant’anni: il che vuol dire che in capo a cinque anni non ci saranno più neanche loro. Seguendo questo “trend” a Siena passeremo da poco più di 1000 docenti a poco più di 650 (nell’era post-atomica successiva alla scoperta del “buho”, siamo già passati da 1050 a 811). Senza dire che non tutti i settori sono ugualmente colpiti e che il fatto che lo siano o meno non ha nulla a che fare con la loro importanza scientifica e strategica.
La percentuale di ricercatori in Italia rispetto all’intera forza lavoro è del 3,8%, rispetto al 6,3% della media europea e al 9,2% statunitense, sicché è difficile dire che “siamo troppi”: peggio di noi, se non erro, fa solo il Portogallo. Ciò nonostante, io non credo valga la pena di disperarsi reclamando “risorse” che tanto non arriveranno: abbiamo il debito pubblico e la deindustrializzane del paese non lascia sperare in contributi significativi alla ricerca applicata da parte dell’impresa. Occorrerebbe organizzarsi al meglio per salvare il salvabile, a mio avviso secondo le linee predette. Altrimenti rassegnarci definitivamente alla “disfatta della macchina educativa”, ipotesi alla quale si rassegna volentieri chi ha le natiche al caldo. Abbiamo la più bassa percentuale di laureati e la riforma del 3+2, tesa a spacciare diplomi facili (i livelli magistrali, come ho già scritto, in realtà non sono mai partiti, se non come mere ripetizioni dei livelli triennali, a loro volta caratterizzati da vaghezza e relativismo insopportabile dei contenuti) è fallita miseramente: difatti siamo passati dai 380.000 laureati circa del 1992, ai 280.000 di oggi
Caro Rabbi,
io parlavo anche del “proliferare” delle università; ogni campanile, ogni ras hanno voluto la propria, con i criteri, o scriteri se vogliamo, che sono sotto gli occhi di tutti: Facoltà elefantiache, doppie o triple prima, accorpamenti a pene di segugio dopo. Certo che, considerando l’hic e il nunc, hai ragione, ma non è mettendo pezze che si rimedierà a una simile catastrofe. Si potrà tirare avanti alla meglio, ma arriverà il momento in cui l’ora si incrina e tutto divelge in un buffo.
Caro Outis,
a proposito del proliferare delle università, a Siena ne abbiamo ben due. Più una sede distaccata che è quasi una terza. Quello che suggerisco è l’esatto contrario del “mettere le pezze”; ammonta ad invertire la tendenza che tu denunci e a dire il vero mi pare l’unica soluzione a disposizione per smettere di rappezzare e salvare il salvabile. Su indicazione del Maestro James leggo ad esempio questa singolare dichiarazione: «Siena ha le idee chiare :-(. Il piano di risanamento si sta attivando con costi alti, a partire dalla riduzione del numero di docenti.» (Maria Grazia Carrozza).
Ora, a prescindere che non so se puntare sulla riduzione ad oltranza e del tutto casuale (la mera età anagrafica: una roulette russa) del personale docente voglia dire avere le idee chiarissime, stanti gli squilibri ingiustificati tra settore e settore, per numerosità e fasce d’età che conosciamo e come se si parlasse di mandrie di bestie vaccine, anziché di specifiche competenze difficilmente rimpiazzabili. Non credo che ci sia più spazio neppure per continuare a pensare protervamente a voluttuosi accorpamenti interdisciplinari fra dantisti e dentisti (non vi sono più risorse umane neanche per questi troiai, oramai); ma francamente che dal partito che si accinge a governare a livello nazionale e che localmente governa ed è responsabile della situazione in cui versano l’ateneo e la città, venga un’analisi così superficiale, è a dir poco stupefacente; atteso che la realtà è quella descritta dalla prof.ssa Carrozza: «il fondo di finanziamento è diminuito drasticamente e c’è stato il blocco del turnover», non capisco come proprio da parte di coloro che partorirono i succitati “requisiti” mussiani di docenza (cioè il numero di docenti necessari per tenere aperti i corsi e la loro miscela) si possa ritenere che l’uscita di ruolo senza possibilità di rimpiazzo all’incirca di un quarto dei professori negli ultimissimi anni, mentre una uguale percentuale si avvia ora ad andarsene (una cifra che verosimilmente oscilla fra un terzo e la metà quasi dell’intero corpo docente presente al momento dello scoppio del “buho” – sarebbe utile un dato esatto), non produca alcun risultato, a parte un leggero dimagrimento nel girovita (che fa bene alla salute) e come si faccia a non trarre le ovvie conseguenze, le naturali conclusioni di questo ragionamento, che mi sono sforzato umilmente di sottolineare nei messaggi precedenti.
Dicono: “facciamo così: man mano che i professori vanno in pensione, chiudiamo i corsi” e questa sarebbe tutta la politica, senza pensare (A) alla sorte di quelli che non vanno in pensione, cioè i più “giovani”, ritenuti evidentemente dalla gerontocrazia destinati per naturale vocazione a prenderla in quel posto sempre e comunque, visto che al momento non si è pensato nemmeno alla possibilità di trasferirli in altra sede universitaria e (B) ai settori che in tal modo vengono smantellati o messi in crisi, alla qualità dell’insegnamento e della ricerca in siffatti contesti destrutturati, senza alcuna riflessione intorno al valore scientifico e strategico di ciò che ci si accinge a cancellare.
Non si pensa cioè, data la predetta situazione e le considerazioni fatte, ad essere conseguenti con quello che si afferma e a creare dunque poli scientifici a livello regionale ove concentrare, fisicamente o amministrativamente i corsi ed i ricercatori afferenti alle varie specialità che i singoli atenei, da soli, non possono più sostenere; ad attivare forme di collaborazione, che atenei più dinamici hanno già avviato (giacché curare un morto è fatica sprecata). Vivaddio, “eppur si muove”, non stiamo parlando di utopia, ma delle indicazioni esplicite della riforma Gelmini, checché se ne pensi; ma qui evidentemente, in questo piccolo cosmo tolemaico, la cifra politica è quella dell’immobilismo catalettico:
Siglato un accordo di federazione tra gli Atenei sardi http://www.unica.it/pub/7/show.jsp?id=18574&iso=21&is=7
Nasce l’ateneo federato Trieste-Udine
L’annuncio dei due rettori dopo il taglio dei fondi da Stato e Regione: subito scuole di dottorato congiunte
http://ilpiccolo.gelocal.it/cronaca/2012/02/26/news/nasce-l-ateneo-federato-trieste-udine-1.3224333
Primo Senato congiunto della Federazione degli Atenei di Basilicata, Molise e Puglia http://www.linktaranto.it/new/news/novita/161-primo-senato-congiunto-della-federazione-degli-atenei-di-basilicata-molise-e-puglia
Università di Teramo, i docenti chiedono la federazione tra ateneiwww.notiziedabruzzo.it
L’Ateneo Federico II ha firmato un protocollo di intesa con gli altri atenei campani attraverso cui è stato possibile attivare un accordo con l’Ateneo di Salerno ed operare la mobilità di docenti della Facoltà di Medicina da Federico II verso la Facoltà di Medicina dell’Ateneo di Salerno. http://www.newsletter.unina.it/?p=205
ecc. ecc. se fate una piccola ricerca su Google, vengono su decine di esempi di corsi interateneo e di federazioni parziali, proprio per far fronte ai problemi suddetti.
“All’articolo 3 la legge [Gelmini http://www.camera.it/parlam/leggi/10240l.htm%5D prende in esame la possibilità di realizzare una Federazione e fusione di atenei e razionalizzazione dell’offerta formativa. L’intenzione del legislatore è stata quella di fornire uno strumento attraverso cui migliorare e razionalizzare l’offerta e l’efficienza didattica. La legge consente a due o più Atenei di federarsi, anche limitatamente ad alcuni settori di attività o strutture, ovvero fondersi. Tale accordo e/o fusione permette di affrontare, per esempio, problemi relativi alla sostenibilità dell’offerta didattica nei casi in cui essa non sia sostenibile da un singolo Ateneo. La legge prevede che tali fusioni o federazioni devono avvenire sulla base di un progetto che deve contenere le motivazioni, gli obiettivi, le compatibilità finanziarie e logistiche nonché le proposte di riallocazione dell’organico e delle strutture. I progetti di federazione devono essere sottoposti al Ministero per l’approvazione che, sentito l’ANVUR, si esprime entro tre mesi. Sulla base di questi accordi si possono attivare procedure di mobilità di professori nonché di personale tecnico-amministrativo. Di particolare interesse è la possibilità di applicare queste procedure anche a seguito di processi di revisione e razionalizzazione dell’offerta formativa. Lo scopo dell’articolo è quindi quello di favorire una integrazione a livello regionale dell’offerta formativa. Ad esempio si potrebbe ipotizzare di razionalizzare l’offerta didattica regionale lasciando in vita uno specifico corso di Laurea in un solo Ateneo della regione e concentrare le risorse (professori, ricercatori) in uno specifico Ateneo attuando la mobilità a norma del comma 5 dell’articolo 3.”