Lettera aperta al Prof. Zeno-Zencovich sulla corruzione accademica in Italia
Massimo Ragnedda. Illustre professor Zeno-Zencovich, ho avuto modo di vedere l’intervista che ha rilasciato a Il Fatto Quotidiano circa i concorsi universitari in Italia e mi sento in dovere di ringraziarla. In realtà non ha detto niente di nuovo, tutti conosciamo l’inutilità dei concorsi universitari italiani, il sistema antidemocratico della cooptazione e la farsa concorsuale. Ciò nonostante, e lo dico senza ironia, mi sento comunque di ringraziarla per avermi fatto capire, una volta di più, che la mia dolorosa decisione di abbandondare il torbido mondo accademico italiano sia stata, per me, la scelta giusta. L’ho capito, in realtà non ve ne era bisogno, sentendo le sue parole e il suo modo baronale di ragionare. Non parlo della sua lettera ironica, che a tratti ho trovato anche divertente e intelligente, ma della sua intervista. Mi permetta, poiché sono parte in causa, solo alcune precisioni.
Ho partecipato a decine di concorsi universitari in Italia e, come dire, ho una certa conoscenza della materia: un’esperienza, se permette, acquisita sul campo. Ho sempre saputo con larghissimo anticipo il nome del vincitore. Sapevo, pertanto, che si trattava di una perdita di tempo, sapevo che era uno stress e un notevole dispendio economico (soprattutto per un precario), sapevo che era umiliante presentarsi a concorsi dove i commissari neanche ti ascoltano: il loro compito non è selezionare il più bravo, ma scrivere nero su bianco che il “prescelto” è il più bravo. I concorsi sono una farsa, una presa in giro, un modo per umiliare gli altri candidati che non hanno santi in paradiso. Sapevo tutto questo, eppure Professore, da ingenuo e testardo sognatore, non volevo arrendermi alla realtà. Realtà che lei ha egregiamente sottolineato. Mi è addirittura capitato di partecipare ad un concorso il cui colloquio si è tenuto nello studio di una delle candidate, studio che condivideva con uno dei commissari. Lascio a lei immaginare chi ha vinto.
Il merito è l’ultimo dei criteri che viene preso in considerazione. D’altronde, si chiede, cosa è il merito. Un libro è come un vino, un film e pertanto può piacere o no. È il barone, ovvero il docente che si sente padrone del proprio territorio (il proprio Settore Scientifico Disciplinare), che deve decidere. Voi baroni, con quell’atteggiamento padronale, avete potere di vita e di morte (vitae necisque potestas) sui candidati, decidete chi deve andare avanti e chi no. E non sempre, perlomeno parlo dei casi che conosco, queste scelte si basano sul merito. Si tratta di accordi tra le diverse baronie (io piazzo il mio cavallo da te e tra qualche anno tu puoi piazzare il tuo da me), di familismo, di parentele, di amanti o di semplici lecchini che hanno conquistato, con varie tecniche, il “cuore” del barone. Ho già denunciato l’ultimo concorso farsa al quale ho partecipato. Criteri così specifici (cosa che cozza con i “principi enunciati dalla Carta Europea dei Ricercatori”) che mancava solo il nome del vincitore. Facile vincere così. Un po’ come tirare un rigore a porta vuota, e magari si esulta anche credendo di aver fatto un bel goal: c’è proprio da esserne orgogliosi. È il barone che sceglie sulla base di suoi personalissimi criteri che niente hanno a che fare con una selezione pubblica per titoli e colloquio.
Lei dice: “il processo di cooptazione esiste in tutto il mondo”. Vede Professore è troppo intelligente da non capire la differenza tra il sistema di reclutamento nelle Università anglosassoni e quello feudale italiano. La cooptazione italiana rappresenta uno strumento di perpetuazione del ristretto gruppo dominante che segue regole non democratiche. Vede Professore, io non so quale sia la sua esperienza all’estero ma le posso parlare della mia, che poi è simile a quella di tanti troppi docenti fuggiti dall’Italia. Io ho vinto un concorso pubblico, aperto a tutti, in una Università nella quale non conoscevo nessuno: non conoscevo il direttore del Dipartimento (che nel frattempo è cambiato) né conoscevo quelli che oggi sono diventati i miei colleghi. Ho vinto quel concorso dopo essere stato selezionato, solo sulla base del curriculum, per il colloquio e dopo aver superato ben quattro prove: lezione di fronte agli studenti (anche loro esprimono un giudizio), lezione di fronte ai futuri colleghi, intervista con i responsabili della ricerca e colloquio con gli executives. La lettera di referenza (reference letter), cosa ben diversa dalla raccomandazione italica, è solo l’ultimo passaggio e ti viene chiesta solo se vieni selezionato. Non prima. Io stesso ho fatto parte di alcune commissioni giudicatrici e non ho mai ricevuto telefonate che potessero influenzare la mia valutazione e nell’esprimere il mio giudizio mi sono basato solo sul curriculum che avevo davanti a me e sulla performance del candidato/a. Posso aver sbagliato nel giudicare (siamo essere umani) ma io ho scelto senza dover ascoltare il “consiglio”/raccomandazione di qualcuno. Ho scelto, nel bene e nel male, da uomo libero.
Mi permetta, infine, di soffermarmi su altri due passaggi nella sua intervista che mi fanno riflettere. Lei dice: “tutti hanno un professore di riferimento”. Quel professore di riferimento è il “padrino accademico”, il “barone” capace di farti vincere il concorso, capace di negoziare e ottenere un posto per te, presiedere la commissione e dire agli altri membri: questa è casa mia e qui comando io. Ha ragione, in Italia hai bisogno di un “padrino” per vincere, all’estero no. Io non ho padrini, io non ho professori di riferimento (cosa diversa sono i docenti che stimi per la ricerca e con i quali ti confronti sui contenuti), io non ho baroni verso i quali mostrare eterna riconoscenza. E qui arriviamo all’ultimo passaggio della sua intervista, l’aspetto che a me più di tutti ha colpito: “quando sono stato sotto concorso – lei dice – devo ringraziare chi ha espresso giudizi nei miei confronti”. Ovvero, mi permetto di interpretare così le sue parole, deve ringraziare chi l’ha fatta vincere. Io, invece, non devo ringraziare nessuno, ma non perché sono ingrato, ma perché devo la mia vittoria ad una sola persona: me.
Ed è per questo che mi sento di ringraziarla per l’intervista che ha rilasciato. Perché, sentendola, ho capito che per uno come me, in Italia non c’è posto. Io non voglio dipendere “da lei” o da un suo collega, io non voglio sentirmi riconoscente a vita per i progressi o la promozione di carriera. In altri termini, io non voglio dipendere da nessuno che non sia il merito. Voglio lavorare duro, dare il massimo e non pensare a come “ingraziarmi” il beneplacito di vossignoria. Voglio che la mia carriera dipenda sempre e solo da me, dal mio lavoro, dal mio merito e dal mio impegno. In Italia è molto più importante chi conosci che cosa conosci. Vede Professore io non mi sento in debito verso nessuno e non mi umilierò mai a fare l’anticamera dell’ufficio del barone di turno per chiedere di vincere un concorso. Ecco perché la ringrazio della sua intervista, perché per quanto mi manchi la mia terra (figuriamoci, sono sardo), i miei affetti, non mi manca affatto questo modello feudale di reclutamento. L’Italia non è un paese per ricercatori/docenti liberi e io, caro Professore, ci tengo troppo alla mia libertà per negoziarla con un posto all’Università.
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Condivisibile la risposta del giovane cervello in fuga anche se è stata onesta ed interessante l’autodenuncia del Professore.
La mia risposta è una sola, come del resto succede anche all’estero (USA ed UK per esempio) siccome trattasi di cooptazione a tutti gli effetti, tale cooptazione non può avere il connotato predeterminato di un “concorso pubblico per titoli ed esami” ma a mio giudizio – onestà intellettuale dovrebbe spingerci a chiedere che sia cooptazione solo e soltanto a tempo.
In altre parole posso farti entrare perché ti conosco e so quanto sei bravo ma se si viola il principio cardine del concorso pubblico che è l’anonimato, ciò dovrebbe essere fatto solo a tempo determinato e non a vita. Anche per ritornare ad un minimo di dignità e non farci continuare a ridere appresso dalla Comunità internazionale.
Cordialità
Francesco Russo
[…] La ringrazio per l’attenzione e le ragionate argomentazioni dissenzienti (lo dico perché ho anche ricevuto un messaggio che auspicava la mia condanna ai lavori forzati!). […]
Nelle due posizioni, quella dell’ordinario e quella del protestante in fuga, salta agli occhi che, con un procedimento, o con un altro, più o meno virtuoso, l’università è e si ritiene un hortus conclusus, un affare di famiglia, tutto si rimesta nel medesimo paiolo e se, per un’ipotesi assurda, dentro non ci fosse che brodaglia, non importa, quella si darà in pasto e nient’altro. Non si prende nemmeno lontanamente in considerazione che ci possano essere, al di fuori dell’università, studiosi degni, o più degni, dei locali, di farvi ingresso. Non mi si dica che tali eventuali studiosi dovrebbero farsi avanti inviando alle commissioni i propri lavori, dal momento che, a detta anche del prof. Ragnedda, le commissioni non guardano neppure quelli di dentro, figurarsi quelli di fuori. La verità è che la cooptazione (che la pratichino anche all’estero non è una garanzia) è come la Corazzata Cotiòmkin…
Caro presidente del consiglio, cercherò di scriverle una mail dai toni civili ma molto diretti.
Lei è consapevole di essere a capo di uno Stato in cui i concorsi ‘pubblici’ in ogni settore sono poco trasparenti per non dire palesemente truccati? Cosa farà per debellare questa piaga sociale?
Le delucido la mia situazione (ma è quella di una miriade di giovani): ho due lauree umanistiche, ho provato a fare diversi concorsi per entrare nel mondo della ricerca (accademica), ma ho subito notato stranezze per non dire palesi frodi nelle modalità di valutazione. Mi hanno detto di fare ricorso, ma francamente non credo più nella possibilità di poter combattere un’ingiustizia secondo le modalità di chi è causa dei problemi. Ho deciso di abbandonare l’Italia perché ho smesso di credervi. La cosa che non riesco a tollerare è il fatto che la maggior parte della gente dia assolutamente per scontate queste regole del gioco in modo tacito, compiacente o rassegnato.
Qualcuno ha avuto anche il coraggio di dire che le lauree umanistiche sono ‘troppe’ in questo Paese, dato palesemente falso e in contrasto con gli Stati più avanzati dell’Europa. La verità è che a noi il lavoro lo rubano i raccomandati piazzati dalla politica (sì, presidente, quella di cui lei è diretta emanazione; le cui modalità clientelari e da regime prima o poi faranno implodere il sistema se non si prenderanno le giuste decisioni) o da altri fattori, che chiamerei familiari o relazionali.
Io ho deciso -come tanti altri laureati- di lasciare questo Paese perché non credo più che voi possiate fare nulla; ma soprattutto perché questo luogo sta cacciando milioni di giovani. Le assicuro caro presidente che alla lunga sarà l’Italia a perdere, già lo fa da anni.
Siccome adesso lei ha davanti una splendida carriera si ricordi che ci sono tantissimi giovani cui questa carriera è stata preclusa, perché non hanno avuto (o non hanno voluto) gli agganci con la politica.
Spero inoltre che avrà la briga di leggere questa mail, ne guadagnerebbe in credibilità.
Io sto lasciando l’Italia perché il Paese mi ha cacciato. Spero che un giorno possa ritornare in una Patria di cui possa andare fiero.
Ascoltateci, e non lo chiedo per pietà, lo chiedo con la rabbia di chi andrà a fare cattiva pubblicità all’estero.
Mediti e faccia qualcosa caro presidente.
Caro Gabriele, sei insolitamente ottimista, se pensi che in Italia, dove abbiamo perso 12.000 ricercatori in quattro anni, per entrare basti ancora la raccomandazione: qui a Siena, poi (dove ci accingiamo invece a perdere circa 500 docenti su 1000 entro il 2020), il turn over è bloccato da circa sette anni, e nonostante le enfatiche dichiarazioni delle autorità accademiche, lo sarà ancora per un annetto o due: dopo, se lo spread e il DIPINT non ci tradiscono, riprenderà col contagocce (un paio di dozzine di posti in tutto l’ateneo?) e credo sia pressoché ovvio a chi vadano quei posti, se già adesso vi sono dei gradassi che vanno in giro dicendo di aver prenotato un posto. Due lustri di digiuno, dopo i quali, i “giovani ricercatori” saranno già incanutiti: qui non entri o non fai carriera neppure con la raccomandazione dell’Arcivescovo. Con la quale, tutt’al più, diventi Direttore Amministrativo ;-(