La risposta di Vincenzo Zeno-Zencovich a Massimo Ragnedda
Vincenzo Zeno-Zencovich. Egregio dottor Ragnedda avrei voluto risponderle sul sito di Tiscali ma richiede un account Facebook che non ho (né voglio avere). Saprà lei se e come veicolare questo testo.
1. La ringrazio per l’attenzione e le ragionate argomentazioni dissenzienti (lo dico perché ho anche ricevuto un messaggio che auspicava la mia condanna ai lavori forzati!). Sono ben consapevole di esprimere una posizione da molti non condivisa, ma si vede che ho una radicata tendenza minoritaria. Se sulla formazione della nazionale italiana ci sono milioni di commissari tecnici, sui criteri del reclutamento universitario le opinioni sono quasi quanti i docenti universitari. Personalmente – e lo dico da giurista – sono scettico sulle regolette giuridiche: sono entrato in ruolo con delle regole (che erano diverse da quelle di 10 anni prima, di 20 anni prima, di 30 anni prima), che nel frattempo sono cambiate almeno 4 volte. Dietro le regole ci sono delle persone e delle prassi sociali, che il diritto (e il tintinnio di manette, da tanti auspicato) non cambia.
2. Il metodo della cooptazione – per quanto ho visto io in giro per il mondo universitario – esiste da sempre, e credo sia appropriato, purché ovviamente non ci sia un solo luogo dove tale cooptazione viene effettuata. Altrimenti è un meccanismo di omologazione degli uguali.
3. Non ho affatto una straordinaria opinione del meccanismo di reclutamento italiano. Alla fine (spannometricamente) c’è un terzo di persone straordinarie; un terzo di persone competenti; un terzo di menti sottratte ai passatempi enigmistici. Nel mio ottimismo panglossiano guardo ai due terzi positivi, e penso che per ottenere questo risultato dobbiamo tutti pagare un prezzo. Devo però dire – sempre dalla mia esperienza in giro per il mondo – che non è che negli atenei stranieri ci siano solo le eccellenze, e una procedura formalmente ineccepibile non trasforma gli asini in cavalli di razza.
4. Non vorrei dire un’altra cosa politicamente scorretta, ma francamente penso che la retorica sulla “fuga dei cervelli” (o ‘brain drain’ come la chiamano gli inglesi) sia priva di senso. I cervelli devono fuggire dove sono attratti da stimoli ed incentivi. Non penso che un ricercatore universitario sia equiparabile a un bracciante siciliano del ‘900 o ai tanti sventurati che cercano di raggiungere Lampedusa. Dobbiamo invece rallegrarci del fatto che l’università italiana produca tantissimi studiosi che sono apprezzati all’estero dove portano le loro capacità e da dove arricchiranno il dibattito scientifico, anche italiano, di una comunità che è ormai globale.
5. Se lei – o qualcun altro – fosse interessato ad un discorso più organico (anche se ovviamente è solo la mia opinione) sull’università mi permetto di rinviare ad uno scritto “Ci vuole poco per fare una università migliore” scaricabile in creative commons. Con i migliori saluti ed auguri di buon lavoro.
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Faccio solo una osservazione semplice. Negli altri Paesi che sia a mia conoscenza nessuno è cooptato a vita cioè a tempo indeterminato e questo per l’Italia rappresenta una innegabile anomalia.
Inoltre curiosamente questa capacità attrattiva che ha l’estero per i nostri migliori cervelli in fuga dalla bracciantitudine italiana è solo e soltanto a senso unico: nessun cervello fugge dalla Inghilterra, Germania e Francia o Giappone per venire a lavorare nelle nostre Università, almeno nessuno a che mi consti su larghi numeri (poi ci sarà sempre la lodevole eccezione ma il dato di fatto credo sia questo)
Perché??? Forse perché sono più cervelli di noi???
Sai che mi disse nel 1987 un Professore della Mount Sinai School of Medicine quando volevo anche io diventare un cervelletto in fuga per andare a lavorare nella ricerca in USA: “but, in Italy you have Rome, Venice and Florence… che ci vieni a fare qui”?
Cordialità
Francesco Russo
[…] «I cervelli devono fuggire dove sono attratti da stimoli e incentivi» […]
«Ho presentato al Senato la lettera della CRUI indirizzata al presidente del consiglio Letta e al ministro Carrozza per segnalare l’allarme delle università italiane per il drammatico taglio dei fondi agli atenei previsti per il 2013. In pochi anni abbiamo assistito ad una riduzione pari a un miliardo di euro, ovvero il 15% del FFO nazionale. Questa diminuzione sta causando pesanti problemi in molti Atenei, aggravati dal fatto che le minori somme sono assegnate con notevole ritardo.» Il Rettore Riccaboni
Lo sguardo del prof. Zeno-Zencovich ci scruta severo. Il suo criterio, ancorché spannometrico, mi pare delineare un’analisi piuttosto precisa, che si adatta a tutti i gangli della pubblica amministrazione, non solo all’università, e anche all’impresa privata. Le prime pagine dei giornali di oggi Domenica 1 Dicembre sono invase da articolesse sulla corruzione nella Pubblica Amministrazione: dunque non è solo un problema dell’università, ma dell’inesistente etica pubblica di questo paese. Osserva giudiziosamente il prof. Z. Z. che una procedura formalmente ineccepibile non trasforma gli asini in cavalli di razza: alla fine la coscienza (di Zeno), più che le procedure, assurge a garante dell’obiettività della scelta. Ma queste, per noi, qui ed ora, sono divagazioni filosofiche, giacché nonostante una procedura formale non sia garanzia di obiettività, difficilmente può esserlo (nonostante il vecchio adagio “chi non fa non sbaglia”) l’assenza totale di occasioni per mettere alla prova ogni sorta di “procedure”: assenza che però è in sé stessa, di fatto, una “procedura”, non dissimile, in linea di principio, rispetto a quella che altri attuarono a mezzo della Endlösung.
L’ex ministra Gelmini, mercoledì 27 Novembre, da Vespa, ha condensato il senso della sua riforma dicendo con voce tonitruante che bisogna chiudere i piccoli atenei, sic et simpliciter. Non so se Siena rientri nella sua visione oramai fra questi piccoli atenei da sopprimere, ma potrei anche essere d’accordo con l’ex ministra, purché ci spiegasse con maggiore accuratezza cosa significa questa espressione: “chiudere i piccoli atenei”, che così, è solo uno slogan tipo “meno tasse per tutti”, e come intenderebbe effettuare l’amputazione, visto che è stata a lungo ministra (ampiamente appoggiata dalla CRUI) e tutt’oggi, con ministri che operano nel solco della sua riforma, non si riesce neppure a razionalizzare o chiudere le sedi distaccate: chi dovrebbe occuparsi di una razionalizzazione delle sedi, chi può imporla, se non il ministero? Inoltre, anche per essere impiccati occorre andare da un bravo carnefice: una cosa è chiudere un ateneo o una sede distaccata, con tutte le procedure del caso (mobilità, ridefinizione dei contorni degli atenei nel territorio), altra cosa è lasciar languire l’intero sistema in una inutile, insensata ed assai dispendiosa agonia, mitigata con l’analgesico di una vana promessa di “risanamento”.
D’autunno cadono le foglie, i requisiti minimi e la sostenibilità dei corsi, dei quali continuerà la falcidia. Vorrei capire come si concilia la tendenza centrifuga innescata dalla crisi, dal blocco estenuante del turn over, dalla dissoluzione delle vecchie strutture, dalla soppressione con modalità cinobalaniche di metà dei corsi di laurea (e quindi di molti settori disciplinari) con i pressanti richiami che giungono da varie parti ad impegnarsi in progetti avanzati, sotto la spada di Damocle delle valutazioni, individuali e collettive, da parte dell’ANVUR. Attraverso quale strana alchimia cioè la disorganizzazione, la polverizzazione, il pessimo utilizzo delle risorse umane, l’impossibilità di dare una prospettiva alle “giovani leve” (che intanto invecchiano), la insopportabile conflittualità innescata dalla carestia di risorse, la dispersione, o l’assenza di una “massa critica” di operatori necessaria a dar luogo a robusti gruppi di ricerca, possano indurre una… maggiore produttività scientifica.
Ad ogni scrollone, ad ogni stormir di fronda, volano via come foglie sempre più membri delle fasce meno tutelate, o vengono marginalizzati, senza che alcuno se ne strafotta della tanto sbandierata “meritocrazia”; così aumenta la gente che svolazza nell’atmosfera, oramai staccata dal ramo di un preciso orientamento, di una chiara prospettiva, se non quella di una interminabile conflittualità con l’Amministrazione per la riscossione di quattro palanche. Si sta come d’autunno/sugli alberi le foglie: vorrei capire, in queste condizioni, qual è il progetto, la strategia di uscita dalla crisi, se non quella che ho additato nei precedenti messaggi, i quali, però, sembra, hanno stufato l’uditorio, che evidentemente possiede la formula magica per risolvere altrimenti il busillis.
P.S. Non dite a mia madre che faccio il ricercatore: lei mi crede pianista di successo in un bordello.