Rabbi Jaqov Jizchaq. …O Wort, du Wort, das mir fehlt… veramente non so più come spiegarmi: a parte il nonsense di andare in Procura per parlare dei “problemi” (una volta si andava in confessionale, in sezione, dal medico, dallo psicologo, dall’amante, all’osteria… ma perché in Procura?), leggo sul Sole 24 ore: «Con otto università, più di 180mila studenti (di cui 17mila stranieri) e numerosi centri di ricerca pubblici e privati, Milano è a pieno titolo un hub della conoscenza». Renzi addirittura parlò di soli “cinque hub della ricerca“.
Il proliferare ingiustificato di sedi locali, di Facoltà e corsi, si dice, ha provocato una vera e propria esplosione di parassitismi, clientelismi, baronie, corruttele. Ebbene, quanto a corsi, qui ci siamo andati pesanti, amputando anche organi vitali. Quanto a sedi distaccate non mi pare che anche a Siena si siano risolti gli snodi fondamentali (sapete a cosa mi riferisco), mentre l’intero ateneo corre il rischio di diventare esso stesso sede distaccata. Perché questo pare essere l’ulteriore passo che il sistema si accinge a compiere: lo sfoltimento degli atenei. Lo si condivida o no, questo processo non può essere rimosso e ignorato. Insomma, volenti o no, la cornice in cui si inserisce il discorso senese è questa: sopravvivenza di poche corazzate ed una flottiglia assai sfoltita di gozzi, canotti e trabaccoli al loro seguito e mi chiedo quale destino, se non quello del piccolo naviglio, può essere riservato ad un ateneo che sta perdendo molti settori di base.
Ebbene, sarà mai possibile che in Italia tutti i giornali di tutte le tendenze discutano di questo processo e a Siena, che è stata e forse è ancora nell’occhio del ciclone ci si abbandoni volentieri ad un trionfalismo assai prematuro e un po’ fuor di luogo, proponendo la falsa rappresentazione per cui tutto è rimasto come prima e dopo un prolungato letargo, ora l’orso si è svegliato (tutto intero) e si è rimesso in moto? Il Rettore dice che si è chiusa una pagina buia delle vicende finanziarie e che l’ateneo riparte; Grasso è Piccini avanzano pesanti e motivate riserve su ciò e francamente non capisco perché mai dovrebbero essere “attenzionati” da un pubblico ministero per questo. Ma anche ammettendo, senza concedere, che siamo al giro di boa e che l’ateneo sia in procinto di “ripartire”, quale “ateneo” ripartirà, cosa “ripartirà”, in quale contesto, dopo i radicali cambiamenti intervenuti e che interverranno? Di cosa si parla quando ci si riferisce a “l’ateneo”? Si può parlare di un’identità perdurante attraverso il tempo in un organismo così pesantemente amputato e modificato? E di certo la ripartenza di quello che “ripartirà” avverrà con l’accelerazione di una lumaca, mentre i processi sui quali mi sono soffermato, i pensionamenti e quelli che sintetizzo nuovamente qui sotto con le parole di vari editorialisti di varie tendenze politiche, approvando o disapprovando, corrono come le valanghe e rischiano di travolgerci.
Alessandro Cannavale. «…il nostro sistema universitario sta creando un solco tra atenei di serie A e di serie B. I primi sarebbero ubicati in un piccolo lembo di territorio nazionale compreso tra Milano, Bologna e Venezia.»
A. Virga. «La proposta è di agire in due direzioni. Da una parte, ridurre di numero le università, limitandosi a pochi poli d’eccellenza distanziati sul territorio e comprensivi di tutte le strutture d’istruzione superiore ivi presenti, consentirà di snellire la burocrazia e limitare gli sprechi, dal momento che tutte le strutture in un’area geografica sarebbero coordinate da un unico centro e che le risorse sarebbero concentrate su pochi punti ma in maggior numero. Queste università raccoglierebbero tutte le loro strutture in una o due città vicine, consentendo una maggior integrazione tra le facoltà e gli studenti e senza creare differenze tra sedi staccate che spesso, a parità di dignità nominale, finiscono per fornire servizi di qualità inferiore.»
Ernesto Galli Della Loggia. «…la scelta politica di cui dicevo è consistita nel decidere di distribuire i fondi statali ai vari atenei in misura differenziata, premiando quelli che adempivano meglio a una serie di condizioni. Specificare in dettaglio è in questa sede impossibile. Basterà dire che di fatto tali condizioni (livello delle tasse richieste agli studenti, quantità e qualità della produzione scientifica dei docenti, livello delle attrezzature, livello di internazionalizzazione) sembrano studiate apposta per premiare gli atenei che sono già ai primi posti e ricacciare così ancora più indietro quelli che sono agli ultimi. Ciò che infatti da anni, come si è visto, sta regolarmente avvenendo, a danno soprattutto delle sedi meridionali. Ma paradossalmente ciò sta avvenendo senza che nessuno lo abbia discusso veramente. Senza che nessuno abbia discusso la questione cruciale. Vale a dire: che cosa si deve fare del sistema universitario italiano? Come deve essere? Puntare su poche sedi già oggi in buona posizione per cercare di farne dei veri centri di eccellenza di livello europeo può essere giusto, ma che fare allora delle altre e quali caratteristiche queste debbono avere?»
Giuseppe Cacciatore. «…Ormai si è ben capito che dietro il paravento dei parametri oggettivi di valutazione e dietro i numeri sta passando un disegno ben preciso: ridurre il numero delle università statali per favorire sempre più quelle private, continuare a penalizzare quelle al di sotto di Roma, così da poter creare un divario tra università di serie A e di serie B. Ma quel che è più grave è lo spreco di capitale umano nel paese, come ha denunciato il Rettore della “Federico II” Gaetano Manfredi.»
Francesco Sinopoli e Alberto Campailla. «L’assunto da cui partono i difensori di queste politiche è noto: bisogna sostenere le eccellenze. Un approccio primitivo ai problemi del nostro sistema di istruzione e ricerca che nasconde la copertura di interessi concentrati in alcune aree geografiche ben localizzate. Soprattutto un approccio mistificante perché l’assegnazione dei punti organico prescinde ampiamente da qualunque valutazione sulla qualità della ricerca o della didattica ma si basa su parametri di carattere esclusivamente patrimoniale e finanziario peraltro premiando chi aumenta le tasse agli studenti sforando il tetto massimo previsto dalla legge.»
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L’Anvur concede 15 giorni in più alle università per inviare le pubblicazioni scientifiche (Sole 24 ore)
Tempo di VQR, ossia di valutazione della qualità della ricerca: ” un esercizio di valutazione del quale è sempre più difficile accettare anche solo come “male minore” modi, obiettivi e conseguenze” (http://www.roars.it/online/stop-vqr-tre-ragioni-per-una-firma/). Si obietta a coloro che dicono di rifiutare QUESTA valutazione, che, come Bertoldo, non trovano mai l’albero giusto a cui impiccarsi, ma v’è del vero nelle parole sopra citate e vi sono fondate ragioni nella protesta che sta montando in molti atenei, compreso il nostro. Non foss’altro perché i criteri adottati sono tutt’altro che chiari e il tutto è circonfuso di un velo esoterico.
Soprassedendo, nevvero, sulle questioni economiche http://clericetti.blogautore.repubblica.it/, che tanto qui si campa d’aria e come scrisse tempo addietro un famoso alcolomane, tutti i docenti universitari guadagnano diecimila euro al mese, rilevo difatti una schizofrenia nel sistema. Qual’è l’effetto delle recenti riforme e ristrutturazioni, in una condizione in cui il turn over è fermo da anni (oltre che gli stipendi) , col dimezzamento dei docenti? Non mi soffermerò oltre sui soliti aedi ubriachi e disinformati scrivono sulle gazzette locali che ci sono “cento nuovi professori” (sic).
Si punta, secondo il VQR, a premiare l’eccellenza nella ricerca, ma al contempo si assiste fatalmente allo smantellano aree scientifiche basilari, indi si accorpano voluttuosamente corsi di laurea e dipartimenti. Qual’è stata la prassi di questi ultimi anni? Per tirare a campà, con la moria di docenti, cioè per trovare i numeri necessari a non chiudere, si sputtanano i corsi di studio annacquandoli fino a renderli completamente insapori. Poi si tira fuori dal cilindro la distinzione fra università d’insegnamento e di ricerca (che nessuno sa, nell’attuale frangente, che cacchio voglia dire).
Per anni è sembrato che la ricerca fosse un optional. Coloro che reclamavano uno spazio maggiore per la ricerca pareva fossero marziani o potenziali perdigiorno che non volevano occuparsi del vero problema all’indomani dell’introduzione del 3+2 e successivamente con l’avvio dei massicci pensionamenti senza turn over, ossia coprire il fabbisogno nella didattica. Oggi si rigira la frittata eccedendo nella direzione opposta, e come è stato scritto, “Per chi aspira a “fare carriera” ogni ora trascorsa al servizio degli studenti appare come un’ora di tempo perso” http://ilmanifesto.info/universita-la-protesta-contro-la-valutazione-pubblica-e-uccidi/.
Così, per timore che dire “grazie” nuoccia all’aplomb di Lorsignori, si ringrazia con un metafisico pernacchione coloro che obtorto collo hanno profuso tanti sforzi tirando la carretta della didattica (magari per coprire assenteisti desaparecidos), incolpandoli di aver mancato ai propri doveri, dopo che li si è costretti a farlo. Inutile che il tapino si lamenti: “ma io l’avevo detto, che la ricerca è davvero importante, e voi non mi avete ascoltato”; è tempo di rivoluzioni (o di golpe), dobbiamo costruire l’uomo nuovo e non c’è tempo per recriminare e pensare a cosa farne di quello vecchio! Insomma, chi ha avuto, ha avuto, scurdammose ‘o passato.
D’improvviso infatti è spuntata l’ANVUR (“Uhhhhhh! Tremate!!!! Io sono ANVUR, figlio di MIUR!!” http://www.roars.it/online/io-sono-anvur-figlio-di-mi), il VQR e la SUA ed è la didattica a non contare più assolutamente niente. Senza dire che, con gli standard di produttività adottati, la valutazione del rendimento diventa tutta una cervellotica questione di mediane e di indici bibliometrici, “cravatte” e diagonali nei quali si subodora il fumus della presa per il didietro. Sembra che quanto detto sopra, ossia la polverizzazione di intere aree scientifiche causata dall’uscita di ruolo senza ricambio e dallo sbando che ne è conseguito, non abbia ad incidere sula “qualità della ricerca” (!). Ora valgono altri criteri, c’è un nuovo cielo, una nuova terra, e com’è d’uso in questo paese, le regole spesso si fanno dopo il gioco per accomodare i risultati della partita.
[…] da questo tema. “L’università riparte”, ma che vuol dire? Cosa si accinge a ripartire? Nella lotta per accaparrarsi il titolo di università eccellente onde primeggiare nelle classifiche internazionali, e non solo in quelle surreali del CENSIS, ti […]