Rabbi Jaqov Jizchaq. Finalmente sono uscite alcune candidature a rettore, condite naturalmente di un sovrappiù di retorica come si confà ai manifesti elettoralistici. Adesso, non è per fare il bastian contrario, ma l’università (anche se non lo è più da tempo) dovrebbe essere un luogo dove si discute, e dunque spero di non essere considerato menogramo e disfattista se interpongo qualche nota grave nel coretto dei sovracuti.
Resto intanto in attesa di sapere come il candidato prof. Petraglia intenda realizzare il suo proposito di «Creare innovazione [che] permetterà di cogliere e sfruttare le opportunità locali ed internazionali», così come, alla luce dei freddi dati numerici più volte esibiti in questo blog, attendo chiarimenti da parte del candidato prof. Rossi riguardo al vasto programma di «liberare le energie presenti nel nostro Ateneo, investire con generosità su chi merita… valorizzare le differenze in ogni ambito, rifuggendo dalla tentazione dell’uniformità». Ma come si sa, in politica il programma vero, con la medicina amara, si squaderna solo dopo l’elezione. Prima dell’elezione, meno tasse, più pane e prosciutti per tutti!
L’autocandidatura più articolata, ça va sans dire, è quella del prof. Frati. Sostiene il candidato, con soverchio ottimismo, che «possiamo legittimamente ritenere concluso il percorso di risanamento». Sostiene altresì, con notevole esagerazione, che l’università di Siena «ha mantenuto intatta la propria attrattività nei confronti degli studenti». Ma com’è possibile, se il risanamento è avvenuto mandando in pensione il 50% dei docenti (circa 480-500), bloccando il turnover per dieci anni (in pratica, Unisi è un gerontocomio) e chiudendo la metà dei corsi? Voglio dire, è vero che l’uomo della strada (non ancora travolto dal tram) gode quando legge che hanno fatto fuori un po’ di culturame, ma sono andati via metà dei giocatori e tu hai certo risparmiato, non pagando più i relativi stipendi (così sono capaci tutti, non solo i bocconiani!): però non hai più una squadra, o ce l’hai pesantemente ridimensionata, e con essa devi affrontare il campionato. Dunque, non credo si possa affermare con nonchalance che le strutture sono rimaste intatte.
A meno di non dichiarare a posteriori inutile ciò che non si è riusciti a salvaguardare, sarebbe più corretto riconoscere che l’offerta si è di molto contratta e concentrata su alcuni settori. E allora attendono risposta varie “unanswered questions” su cui ha battuto ripetutamente questo blog. In primo luogo, la sorte di quelle aree scientifiche di base pesantemente colpite dai pensionamenti e il destino di chi ancora ci sta dentro (vedi la metafora di Simeone lo Stilita); in secondo luogo, e di conseguenza, il rapporto con gli altri atenei toscani, che si avviano ad avere una massa considerevole, rispetto a Siena, con almeno il triplo di docenti e di studenti. Non credo sia riproponibile la teoria del “piccolo è bello”. Correva, infatti, l’anno 1687, quando Sir Isaac Newton si rese conto che il Sole, dotato di una massa molto grande, costringe i pianeti a ruotargli intorno (o per dirla altrimenti col Manzoni, «Il nostro Abbondio … s’era dunque accorto… d’essere, in quella società come un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro»).
Sostiene il candidato che «i Dipartimenti devono diventare sempre più il fulcro delle attività di formazione, ricerca e trasferimento tecnologico»; visto che lo dice la legge, per forza dovrà essere così: ma quanti degli attuali dipartimenti sono sostenibili nel tempo? Qual è stato il guadagno dello scioglimento delle Facoltà a favore di dipartimenti dai nomi talvolta incomprensibili? Ne ha guadagnato la ricerca? E la didattica (anche se oramai non conta più nulla)? Scommetterei una cifra che da qui a poco torneremo a un assetto simile alle vecchie Facoltà. Nel frattempo si saranno cancellate aree scientifiche e distrutte le vite di molti “giovani” in irriferibili faide.
Mi rendo conto che su alcune di queste questioni la risposta sarà “ignoramus et ignorabimus”, e che il destino dell’università pubblica è forse da considerarsi uno dei grandi enigmi dell’universo. Su tutto aleggia inoltre un problema di fondo di questa città (e non solo) ed è la mancanza di una forte coesione: la politica è così poco autorevole e decaduta, che molta opinione pubblica guarda oramai alle formazioni politiche e ai loro programmi con diffidenza e con rassegnato disincanto. È pertanto difficile realizzare una qualche unità d’intenti capace di sostenere sforzi erculei come quello necessario per risollevarsi dai vari recenti cataclismi.
«Là dove fanno il deserto gli danno il nome di pace.» Tacito
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