Elezioni del rettore: quando il rigore è solo meteorologico conduce a una glaciazione pleistocenica delle coscienze e dei cervelli

Felice Petraglia - Alessandro Rossi - Francesco Frati

Felice Petraglia – Alessandro Rossi – Francesco Frati

Partita in anticipo, la corsa per il rettorato prosegue sottotraccia e in silenzio, non considerando le brevi interviste di un giornale locale ai tre candidati e il ritratto dell’Eretico di Siena a uno dei papabili. Tuttavia, non mancano le mistificazioni di docenti e gruppi (interni ed esterni all’Ateneo) che, nel segno della continuità con la gestione attuale o di un’inesistente discontinuità, cercano di chiudere, in modo definitivo e con il candidato giusto, il capitolo delle responsabilità del default economico-finanziario e istituzionale dell’Università di Siena, ormai avviate alla prescrizione.

Iniziò sei anni fa Riccaboni, eletto con l’aiuto di Tosi, cui deve tutto: la presidenza del Nucleo di valutazione d’Ateneo, il Cresco, la presidenza di Facoltà, l’incarico di prorettore ad Arezzo. E difatti, negli stessi giorni del suo insediamento a rettore, Riccaboni ricevette una telefonata da Tosi (10 novembre 2010): «Non incontriamoci al Rettorato! È meglio vederci al solito posto!» E così nella squadra di Riccaboni si ritrovarono gran parte dei tosiani. E Francesco Frati, per quasi sei anni prorettore vicario, è oggi candidato a rettore nel segno della piena continuità con il mandato di Riccaboni e con il sostegno di una parte dei fedelissimi di Tosi. Perciò tosiano anche Frati, per affiliazione simbolica. L’altro candidato, Felice Petraglia (che intende aprire un dialogo «trasversale e senza rotture con il passato con tutte le componenti dell’ateneo»), è tosiano d’acciaio da sempre ed è sostenuto dal gruppo più numeroso dei seguaci di Tosi. Quindi Frati e Petraglia, due volti della stessa medaglia e seguaci del grande timoniere Tosi. C’è però, il terzo candidato, Alessandro Rossi, che alla domanda (continuità o discontinuità?) così risponde: «l’oggi nasce sul passato, ma per avere futuro occorre la svolta.» Sì! Va bene! È tosiano anche lui? Rispondiamo con i fatti. Ha deposto in aula contro Tosi nel corso di un processo; si può considerare tosiano?

Ripeto sempre che la crisi dell’Università di Siena, cominciata nella seconda metà degli anni ’80, è stata ed è, prima di tutto, crisi culturale e morale. Ebbene, sfogliando le newsletter dell’ateneo, si scopre che il 19 ottobre 1998, Alessandro Rossi (a quel tempo professore associato) aveva già colto questi elementi. Infatti, scriveva: «L’Università è quindi oggi chiamata a riedificare un proprio ethos dal quale recuperare la propria identità e il proprio ruolo trainante nei confronti della società civile e con essi recuperare il senso d’identificazione che il cittadino deve avere nei confronti di quest’istituzione. (…) È improbabile un suo riscatto culturale e scientifico senza un’adeguata premessa etica. L’Università edificata su terreni rivelatisi instabili (l’ingresso in Europa sta accentuando il rischio sismico), non potrà sostenersi aggiungendo pur robusti contrafforti (leggi riforme) se parallelamente non sono abbattute quelle parti sorrette dalle precarie trabeazioni dell’etica dell’arbitrio. Quest’ultima trova ancora oggi uno dei propri sostegni nell’irrisolto conflitto di matrice novecentesca tra persuasione e retorica. La mancanza di una reale persuasione (in primo luogo del corpo docente) sulla funzione culturale e morale trainante dell’Università all’interno della società lascia, infatti, ampi spazi alla retorica e quindi al mito riformista. (…) Più in generale, nessun’ingegneria normativa di per sé potrà risolvere problemi che sono in primo luogo di natura morale e culturale. Ciò non significa che la strada delle riforme non debba essere percorsa, a condizione però che a esse si chieda solo ciò che possono offrire: un’architettura organizzativa con espliciti confini dei comportamenti legittimi. Esiste attualmente una distanza, non solo dialettica, tra etica e legittimità, tra “il sé” e “l’io”, che deve essere colmata per evitare il rischio che il generale e purtroppo spesso generico appello al rigore assuma solo un significato meteorologico sino a condurre ad una glaciazione pleistocenica delle coscienze e dei cervelli.»

Pubblicato anche da: Il Cittadino online (6 aprile 2016) con il titolo «Elezioni del Rettore: in cerca di rigore. E di un risveglio delle coscienze. (Giovanni Grasso passa in rassegna i candidati al ruolo. Tra continuità e discontinuità)».

«Renzi: il disneyficatore che banalizza tutto ciò che tocca riducendolo a evento mediatico privo di contenuti»

La statua di John Harvard

La statua di John Harvard

Perché stamattina non andrò ad ascoltare Renzi a Harvard (da: La Voce di New York, 31 marzo 2016)

Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

Francesco Erspamer. Questa mattina Matteo Renzi parlerà a Harvard. Penso che abbia voluto venirci, oltre che per promuovere se stesso, per promuovere in Italia la sua riforma dell’università. Il premier italiano lo disse chiaramente, alcuni mesi fa: bisogna imitare il modello americano. E ora è venuto per far vedere ai suoi connazionali ed elettori che lui quel modello lo conosce. Harvard è la più prestigiosa università del mondo e questo gli basta: non si domanda con quali criteri e scopi siano stilate le classifiche di eccellenza o quali siano le condizioni e implicazioni di una simile preminenza (per esempio che Harvard sia una corporation con un capitale di più di 36 miliardi di dollari che ammette lo 0,04% degli studenti che ogni anno vanno al college) o tanto meno quale sia il livello delle altre 4139 università americane: no, lui tornerà tutto contento in patria e proclamerà che l’università italiana, la più antica del mondo, deve diventare come quella americana, convinto che se lo diventasse non sarebbe una scopiazzatura fuori contesto e fuori tempo (l’America sta cominciando a guardare all’Europa per rimediare ai disastrosi scompensi del suo sistema educativo) ma una sua grande innovazione. Un po’ come se gli riuscisse di aprire uno Starbucks in Piazza della Signoria a Firenze; o ancor meglio in Piazza della Repubblica a Rignano sull’Arno.

renziharvard-713x910Ma non è per questo che stamattina non andrò a sentirlo. E neppure per via del mio radicale dissenso con il suo progetto di reaganizzare l’Italia (e per di più in ritardo, quando gli altri paesi stanno cercando rimedi): non andrò a sentirlo perché è venuto a Harvard con lo stesso spirito con cui sarebbe andato a inaugurare un centro commerciale o ad aprire il nuovo anno alla Borsa di Milano. Tutte cose che un primo ministro deve fare: ma accorgendosi che sono differenti e rispettando le loro differenze. Per Renzi invece sono la stessa cosa: occasioni di visibilità, interamente prive di contenuti.

Significativamente, non parlerà alla Kennedy School of Government, dove avrebbe avuto senso per il ruolo istituzionale che ricopre. E neppure a economia, in riconoscimento delle sue riforme liberiste. Parlerà in un museo, all’Harvard Museum. Scelto, immagino, per confermare l’immagine che dell’Italia hanno gli americani: il paese della cultura e della bellezza. Forse chi lo ha invitato ricordava la sua foto insieme a Angela Merkel sotto il David, al meeting di un anno fa alla Galleria dell’Accademia: senza accorgersi (o peggio: senza curarsi) di quanto non autentica fosse quella cornice: ambienti carichi di storia abusati per promuovere politiche globaliste, volte a distruggere proprio quell’identità culturale.

Più che un rottamatore Renzi è in effetti un disneyficatore: che banalizza tutto ciò che tocca riducendolo a evento mediatico, dunque equivalente a qualsiasi altro che attiri l’attenzione dei giornali e dei network televisivi, senza gerarchie, distinzioni, senza valori di riferimento. La sua dimensione è quella della pubblicità e dei reality, in cui si fa finta di essere veri ma facendo in modo di non essere davvero creduti, in cui ci si maschera ma mantenendo una distanza ironica che impedisca equivoci, guardandosi bene dal correre il rischio che possa diventare un’esperienza autentica e dunque cambiare qualcosa. In ciò Renzi è integralmente liberista, impegnato nella sistematica deregulation dei princìpi e specificamente dell’autenticità: contro la quale impiega collaudate tecniche come la cazzata, che toglie di significato (scrisse il filosofo Harry Frankfurt in un celebre saggio) all’opposizione verità-menzogna e realtà-virtualità.

Non so di cosa parlerà a Harvard. Gli annunci del suo intervento non aiutano: “A keynote address”, “un discorso ufficiale”, senza ulteriori specificazioni, a confermare che non è venuto perché avesse qualcosa da dire. C’è venuto per far sapere che c’è stato. Presumo che abbia messo qualcosa insieme all’ultimo momento, cercando su Google qualche aneddoto su Harvard; come fece poco più di un mese fa in un’altra università, quella di Buenos Aires, dove al termine di un discorso confuso e infarcito di perle da Baci Perugina (“Non c’è parola più grande dell’amicizia per descrivere la storia di popoli diversi”: qualcuno mi spieghi cosa significa) citò in spagnolo dei versi di Borges. Solo che non era una poesia di Borges, subito notò El País, bensì un falso che compare su internet quando si inserisca la coppia di parole borges-amicizia.

Qualcuno ricorderà il concetto rinascimentale di sprezzatura, teorizzato nel Cortegiano, uno dei libri italiani che più influenzarono la civiltà europea. Castiglione pretendeva dalla classe dominante, in cambio dei suoi privilegi, capacità e stile senza ostentazione: bisognava sapere tutto e saper fare tutto però come se fosse una cosa naturale. Ma quella era una società fortemente regolamentata. Nell’età della deregulation i vincenti alla Renzi seguono un precetto opposto: ostentazione senza capacità né stile. Per questo stamattina non andrò a Harvard ad ascoltarlo. Perché a differenza di Berlusconi e di tanti altri politici, Renzi non si limita a ignorare la cultura o magari disprezzarla. La cultura può sopravvivere all’ignoranza e al disprezzo. No, Renzi la svuota. Con la sua programmatica trivialità svilisce la ragione e il linguaggio, riduce la comunicazione, ossia la facoltà più propriamente umana e sociale, a rumore. La chiarezza e il rigore costringono a una certa misura di coerenza; le improprietà deresponsabilizzano, rendono tutto indifferente, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, le qualità e i difetti, i profittatori e le loro vittime. E quando il vuoto diventa uno stile e un programma, la fine della democrazia è pericolosamente prossima.

P.S. È giusto precisare che ad accorgersi della gaffe di Renzi non furono gli argentini e neppure El País bensì Miru e Sten sul canale YouTube “Mia sorella”. Solo dopo la loro segnalazione i giornali di tutto il mondo diedero risalto alla superficialità del premier italiano.

Un altro guastato: «chi guida l’Università di Siena ha una forte reputazione ed è attore a livello nazionale e internazionale su molti tavoli»

Angelo Riccaboni

Angelo Riccaboni

La folla dei guastati d’Italia: il Paese con il riflusso condizionato (la Repubblica, 1 aprile 2016)

Francesco Merlo. È il Paese con il “riflusso condizionato”, quello degli italiani guastati dall’acido: da Marino alla Carrà, da Emiliano alla Marcuzzi …, con D’Alema nel ruolo di guastato guastatore e Angelo Guglielmi che, in nome di quell’orrore ideologico che fu Tele Kabul, in poche righe ha bocciato Moravia, Pasolini, Pratolini, Cassola, Strehler e insomma (quasi) tutta la letteratura italiana, facendo – diceva Sciascia – “come quelli che pur di passare alla storia imbrattano i monumenti”.

L’eroe catodico di Guglielmi si chiama, ça va sans dire, Piero Chiambretti, guastato per la verità anche lui e non solo perché ha ridotto la tv dello sberleffo intrigante a tv della mostruosità volgare. Ma perché propone oggi un baraccone di fattucchiere, ircocervi sessuali che gareggiano a chi ce l’ha più corto, e ballerine a tre gambe, ma con il birignao pretenzioso e acido della “televisione dopo la televisione”. E Chiambretti evoca il “post moderno” che da Don DeLillo e Tondelli è ormai precipitato nella sottocultura diventando un tic linguistico tipicamente italiano paragonabile ai vecchi “senza se e senza ma”, “a prescindere”, “nella misura in cui”, “la spiegazione è a monte”, “la colpa è della società”.

La folla dei guastati d’Italia potrebbe da sola riempire un’ala degli Uffizi, il corridoio del vittimismo aggressivo parallelo a quello vasariano. In faccia a Federico da Montefeltro potremmo mettere per esempio il busto rifatto di Flavio Briatore, il guastato plastico che, condannato per evasione fiscale, saprebbe lui come raddrizzare le gambe di questa Italia che non lo capisce e non lo merita: “ve lo dico io cosa ci vuole: una dittatura a tempo”. E intanto garantisce sull’assoluta democraticità di Donald Trump perché “a me capita di andare a passeggio con lui” e “non con i politicanti di Roma”, puah.

Guastarsi è più che puzzare. È non digerire e dunque ragionare per rigurgiti e conati. È corrompersi ma nell’accezione che piace a Marco Pannella il quale, al contrario del “guastato” non ha mai maneggiato rancori se non per rovesciarli con la pietas radicale: “L’Italia non è mai stata così corrotta, non parlo del reato, ma del ‘cum rumpere’: disfare, decomporre, guastarsi”. Ci si guasta appunto per rancore, per incapacità di accettare la sconfitta, per troppo amore di sé, per non perdere la scena. E pur di sfuggire all’ombra ci si rifugia nella grotta illuminata dei semivip, l’orrenda categoria antropologica dei presenzialisti, gli eroi televisivi del pomeriggio, le retrovie Rai e Mediaset, quelli degli aperitivi autorevoli, il covo dell’acido italiano, più corrosivo degli schizzi di Alex e Alessandra, la guastata coppia di Milano. Ha scritto Umberto eco: ”Nel mondo del futuro non ci sarà più differenza tra la fama del grande immunologo e quella del giovanotto che è riuscito ad ammazzare la mamma a colpi di scure”.

Dunque i guastati, pur di restare famosi si degradano a chiacchierati. Perché, ovviamente, i loro schizzi di bile nera piacciono ai giornali che li vestono di prosopopea sociale, soprattutto la domenica, che è la giornata del mal di vivere italiano e dunque via con le interviste che infettano l’aria e abbassano il Ph del Paese.

Ignazio Marino ha fatto la più importante delle tante presentazione del suo libro guastatissimo alla Stampa Estera perché – spiegò quand’era sindaco – ”a San Francisco mi sostengono, ‘abroad’ mi applaudono mentre a Roma fatico a farmi capire”. Fateci caso: il guastato è sempre di ritorno dall’estero, il suo rancore ha bisogno dell’esotismo e non c’è niente di più provinciale dell’antiprovincialismo ostentato. Ascoltate D’Alema che, magari ingiustamente, è sospettato di attirare gli altri guastati, organizzarli e dirigerli: “Sono appena sbarcato all’alba a Fiumicino dall’Iran, dove Vodafone non prende. Non avevo né telefono né Internet”. E questo un attimo prima di dire che Renzi è stalinista, di spiegare perché il Pd è destinato a perdere, e di indicarci per chi votare a Roma. Ecco: quando D’Alema premette “io sono un signore che non si occupa più di cose italiane” tutti capiscono che sta per buttare l’acido di casa.

Ovviamente il guastato è sempre in agguato. Come il cattivo dei film di Sergio Leone controlla l’ora con il vecchio carillon, pronto a contrapporre l’austerità del tempo andato alla sfrontatezza del tempo nuovo, spacciando il proprio borbottio per saggezza da grande vecchio. Così Sergio Cofferati che grazie ai trucchi delle primarie di Genova camuffò il rancore di perdente marginale con il bisogno di regole e di trasparenza. E il rifiuto ideologico ed estremista di ogni moderna rivisitazione del rapporto tra impresa e lavoro divenne nostalgia dei valori e della pulizia del mondo antico della concertazione. È così l’acidità dell’ex: trucca il passato.

Ha invece rispettato il suo passato Antonio Bassolino che nell’acidità non è precipitato sottraendosi alla politica per dispetto. Ha fatto un passo indietro in nome della nobiltà della politica, della fedeltà alla sua storia, ha mostrato grandezza personale. Ed è entrato a far parte dell’aristocrazia dei perdenti – Martinazzoli, Segni, Pannella … – che è la sola realtà blasonata della politica italiana. “A volte mettersi da parte è la maniera più intelligente di salvare se stessi” mi aveva detto Bassolino qualche mese fa.

Ha sicuramente ragione Cesare Romiti a celebrare nell’avvocato Agnelli l’innamorato della libertà dei giornali, il grande editore davvero irripetibile, ma c’è l’acidità del guastato fuoriuscito nelle lezioni che a intermittenza impartisce all’editoria che non è stata certamente né il successo né la passione della sua vita professionale.

Michele Emiliano è invece il guastato “cozzalone” (direbbe Checco) perché con l’astio, con la politica corrotta dalla rabbia, con il forconismo come ideologia meridionale questo birbante governatore della Puglia sta occupando la scena e non uscendo di scena. Sa infatti che al Sud c’è sempre una plebe in cerca di autore e dunque il suo guasto è vaghezza di scienza politica. Emiliano cerca il consenso nel cattivo umore e perciò agita tutte le battaglie perdenti: contro le trivelle, contro il gasdotto del Salento, contro il decreto scuola, contro l’illuminismo degli scienziati d’Europa trattati come gli untori della Xylella, la “peste degli ulivi”. La cifra è l’eccesso, l’importante è fare il botto, che è politica andata a male, appunto guastata. Lo era quando nella trasmissione “L’aria che tira” Emiliano disse estasiato: “Renzi è il nostro Napoleone”. Lo è adesso che va ripetendo nelle tv locali: “Renzi è un venditore di pentole”.

Fanno invece malinconia, la stessa che ispira i suoi abiti di pelle nera (proprio il contrario delle Paillettes e dell’ombelico scoperto), le gaffes della Carrà che, con l’acida severità di chi non ha sbagliato mai un fagiolo e perciò ha la cattedra per dare lezioni di vita ai pivelli, si è persa prima nella geografia chiamando araba un signora dell’Iran, e poi si è persa nella teologia salutando con un esibito “Salaam aleikum” un esterrefatto concorrente filippino: “Ma come, voi filippini non siete mussulmani?”

Ci si può guastare anche di successo. È il caso della brava Alessia Marcuzzi che, pur governando il più maligno dei reality televisivi ha gridato al complotto della stampa cattiva quando un po’ di quella malignità le si è ritorta contro. Ecco, affidato a Instagram il suo sfogo, che pur esibendo molta più grazia, somiglia agli sfoghi di D’Alema, di Marino e di tutti gli altri guastati d’Italia: “Anche quando pilotate articoli contro di me per dare risalto a un vostro protetto. Anche quando fate inciuci per demolire la mia immagine chiedendo favori a qualche giornalista. Anche quando vi incontro e mi salutate con grande affetto pieni di denti. A me, nonostante i vostri attacchi mirati, ME PARECE TODO ESTUPENDO”. Come si vede è una prosa da complottarda ma ingenua, con un codice da scolaresca che rende Alessia Marcuzzi la più pasticciona e dunque la più simpatica dei guastati. Non c’è la schiuma di citrato che conforta il crescente mal di stomaco d’Italia, non c’è la collera che fa il successo della trasmissione-fenomeno “La zanzara”, il chiosco dove l’acidità diventa furia.