Università come fattore di sviluppo che costruisce le proprie eccellenze traendo spunto dalle vocazioni del territorio ed incentiva nuove realtà imprenditoriali

Associazione Culturale “Nuove Prospettive” Siena. Al convegno Università, Istituzioni e territorio, organizzato per mettere a confronto i programmi dei tre candidati alla guida dell’Ateneo Senese, si è persa l’occasione di approfondire il dibattito tra comunità universitaria e istituzioni locali. Poche le idee concrete, e tra quelle qualcuna già superata. Nessun accenno a come rimettere al centro dell’interesse qualità, professionalità e soprattutto di come non essere facili prede della politica locale. Purtroppo il confronto si è limitato ad un blando scambio di battute, senza troppo infierire, neanche quando si è cercato di parlare di responsabilità e di questione morale, anche se sull’argomento, per chiunque voglia operare un vero risanamento, sarebbe indispensabile mettere dei punti fermi. La città ha bisogno di un Ateneo capace di attirare studenti, di preparare le generazioni future e, così come è stato auspicato dal presidente della Camera di Commercio, di realizzare una più importante e diretta collaborazione con le imprese, grandi e piccole, del territorio. La ricerca oggi non può limitarsi alla pura accademia, ma deve anche misurarsi con il territorio, di cui deve sapere cogliere cambiamenti e specificità e nei confronti del quale deve porsi come motore di sviluppo perché da questa sinergia possa realizzarsi il salto di qualità indispensabile alla competizione sul mercato.

Un legame rinnovato e più diretto tra istituzioni e comunità accademica potrebbe far nascere quel rapporto virtuoso che parte dalla peculiarità del territorio per consentire al nostro Ateneo di offrire di nuovo insegnamenti e ricerca di eccellenza. Eccellenza che in passato è stata attraente e punto di forza di un Ateneo che oggi, per continuare ad avere un senso, deve sapere costruire nuove eccellenze e dimostrare la propria capacità a gestire ed indirizzare il cambiamento. Peculiarità del territorio che potrebbero favorire la costituzione di poli di eccellenza nell’ambito delle scienze farmaceutiche, biologiche ed ambientali, nonché in quelle agrarie e dell’enologia, nonché infine in una scuola di restauro con diploma universitario, che utilizzi la città di Siena, il suo sapere ed il territorio circostante come laboratorio permanente. L’Università insomma come fattore di sviluppo, che costruisce le proprie eccellenze traendo spunto dalle vocazioni del territorio e che incentiva nuove realtà imprenditoriali.

Quello che si chiede ai candidati che si propongono alla guida dell’Ateneo nei prossimi quattro anni è di fare quello scatto di qualità che purtroppo non è emerso nel corso del confronto sui programmi. La scarsa presenza di docenti al convegno la dice lunga sulla loro consapevolezza della gravità della situazione, quasi che la crisi prima o poi si possa aggiustare da sola, magari con qualche escamotage di tipo finanziario come la vendita del Policlinico Le Scotte alla Regione Toscana. Certamente c’è bisogno di razionalizzare le strutture, di aprirsi all’esterno e magari anche di nuovi rapporti con le istituzioni senesi, ma c’è soprattutto bisogno di aprirsi al cambiamento, alle nuove domande e alle nuove dinamiche, con progetti strategici che possano finalmente coinvolgere istituzioni, territorio, giovani e nuove forme di imprenditorialità. Su questi argomenti, a nostro avviso ineludibili, interroghiamo nuovamente i tre candidati perché, per citare un professore aggregato del nostro ateneo, non è più tempo della ”elencazione di buoni propositi e di non sentire mai una analisi lucida della realtà, che possa fare pensare alla introduzione di criteri di managerialità ormai indispensabili nella gestione dell’ateneo, pena il suo declino irreversibile.”

5 Risposte

  1. Che rispondano alla prima pagina di ZOOM e poi si può andare a votare!

  2. «La città ha bisogno di un Ateneo capace di attirare studenti, di preparare le generazioni future e, così come è stato auspicato dal presidente della Camera di Commercio, di realizzare una più importante e diretta collaborazione con le imprese, grandi e piccole, del territorio.» Nuove Prospettive

    Scusate, ma non so se è chiara “la fase”, che dall’esterno non appare forse nella sua paradossale gravità: chiusura di decine di corsi di laurea, annacquamenti ed accorpamenti, perdita di specificità e dunque di attrattiva, quattrocento ricercatori in gran parte in cerca d’autore, espulsione massiccia dei più giovani e porte sbarrate per chi non è già stabilmente dentro. Ripeto: se qui non c’è più ciccia per gatti, se è diventato impossibile lavorare bene e coscienziosamente, l’unico provvedimento degno sarebbe un lasciapassare per andarsene altrove da consegnare a chi, non essendo prossimo alla pensione, vede evaporare attorno a sé le stesse ragion d’essere della propria presenza.

    «La ricerca oggi non può limitarsi alla pura accademia, ma deve anche misurarsi con il territorio, di cui deve sapere cogliere cambiamenti e specificità e nei confronti del quale deve porsi come motore di sviluppo perché da questa sinergia possa realizzarsi il salto di qualità indispensabile alla competizione sul mercato.» Nuove Prospettive

    Ma perché, qui c’è mai stata tanta di quella ricerca pura, da esserne sazi e sentire oggi l’esigenza di limitarla? Nelle varie bozze di statuto, peraltro, la ricerca pura era quasi scomparsa: trasformare l’università in Politecnico (o Fachhochschule) può anche essere una prospettiva, ma per far questo non basta abbandonare la ricerca di base… e poi attenzione, che la retorica del “territorio” ha prodotto le sedi distaccate, che ora tutti vogliono chiudere; non trascurando che “il territorio” in sé, non mostra una vivacità economica tale da richiedere una gran messe di ricerca applicata, finalizzata all’innovazione tecnologica. Al sottoscritto comunque, pur con enorme rispetto per il sapere ingegneristico, da Francesco di Giorgio e Mariano di Iacopo, detto il Taccola in su, pare un po’ balzana l’idea di un ateneo senza ricerca: “I pensieri senza contenuto sono vuoti… le intuizioni senza concetti sono cieche”. In ogni caso una università che contempla ancora lacerti di ricerca di base, dovrebbe prima di tutto misurarsi con gli standard internazionale della ricerca stessa: pena l’inarrestabile declino e la fuga di studenti. Ma per acquisire consapevolezza degli effetti della globalizzazione, forse, ci vorrebbe un “lodo Marchionne”, più qui che a Pomigliano.

  3. Ma questi dove stanno? Che territorio vedono? Io vedo negozietti… wine shops e poco più… provate a fargli sganciare 2 lire per la ricerca…
    Facilissimo criticare… molto meno costruire ed impegnarsi…

  4. “… sul problema si apre un dibattito. Dibattito è ogni discorso, scritto o parlato, intorno a un certo argomento (cioè a un certo problema) in cui intervengono due o più persone. Il dibattito, oltre che concreto, e più spesso che concreto, è ampio e profondo, anzi, approfondito e quasi sempre si propone un’analisi (approfondita anch’essa) della situazione. la giustezza della nostra analisi sarà poi confermata, invariabilmente, dagli avvenimenti…” così quarantasei anni fa Luciano Bianciardi. Le battaglie, una volta cominciate, vanno come vuole il caso; così, due secoli fa, Kutuzov.

  5. …lasciando perdere le cialtronate di Doubtful e Cel, vengo alle domande serie, che per me, ribadisco ancora una volta, concernono la ristrutturazione dell’ateneo, la sopravvivenza della ricerca, il futuro dei più giovani, ossia di coloro che avrebbero dovuto ricevere il testimone della tradizione, dovendo garantirne la continuità, e invece si ritrovano solo delle cambiali da pagare: la sapete la storiella di quello che andò a Lourdes perché aveva un braccio paralizzato, chiedendo alla Madonna di ritornare ad avere tutte e due le braccia uguali e tornò a casa con due braccia paralizzate? Ho il sospetto che il medesimo genere di equivoci aleggi ogni volta che si parla delle ipotetiche operazioni di ingegneria istituzionale che dovrebbero portare alla chiusura di altre sedi, dipartimenti, corsi di laurea ecc. Ho già scritto che sarei favorevole alla tanto sbandierata regionalizzazione, se ciò significasse accorpamento sensato di specializzazioni, polarizzazione di competenze, in modo che topologi andassero con topologi e gattologi con gattologi. En passant, subodoro che le cose non andranno esattamente così: vi sarà chi punterà i piedi e gli altri dovranno adeguarsi alle sue bizze. Capisco che in fase elettorale nessuno si sbilanci più di tanto, ma dopo, certe scelte risulteranno ineludibili. Non voglio passare per l’apocalittico del forum, ma entro il 2012 (data prevista dal calendario Azteco per la fine del mondo, o in diverse facoltà anche prima, se non rientra lo sciopero bianco dei ricercatori) metà di quello che oggi vediamo in termini di corsi di laurea sparirà. Però qui, cancellando interi settori, c’è gente che si ritroverà senza un insegnamento, una cattedra, un corso di laurea, un dipartimento cui far riferimento, se non in modo del tutto pretestuoso e opportunistico per far quadrare i conti. Ai ricercatori, in particolare, si è chiesto dapprima di insegnare quanto o più degli ordinari e lo hanno fatto bene: spero che ora, nella ristrutturazione che avverrà, non si chiederà loro di abbandonare addirittura del tutto la ricerca per andare a coprire buchi negli organici di qua o di là al di fuori di ogni contesto e nesso razionale con le proprie discipline, ma surrealisticamente con l’obbligo di svolgere pure della ricerca (e senza riconoscere loro manco lo status di docente). Se ciò avvenisse, credo che sarebbe comprensibile, se costoro si rivolgessero al Tribunale del Lavoro, perché com’è noto “ogni limite ha una pazienza” e non esiste in nessun posto del mondo che un ricercatore sia così poco indipendente, da non poter nemmeno coltivare la propria materia. Odo che in un prossimo futuro verranno giustamente applicati criteri più draconiani e tayloristici per valutare la produttività degli addetti alla ricerca: cosa valuteranno coloro che dovranno valutare l’operato degli interessati, se a questi qua non verrà consentito di operare in un ambiente consono (gruppi di ricerca, strutture, programmi di ricerca)? Se si tratta di ricercatori, mi dite che “ricercatori” sarebbero, in tal caso? Non si può ragionare come se si avesse a che fare con manovalanza generica, da spostare di qui o di là come membri della “confederazione generale dei soprammobili” (direbbe Gadda), senza tener conto delle specifiche competenze. Taluni autoctoni si sentono pateticamente esiliati, se mandati a lavorare a Follonica: al contrario, personalmente, anziché oppormi alla mobilità, tenderei a reclamarla, qualora malauguratamente si verificassero le condizioni predette; naturalmente per fare un mestiere più o meno attinente alla disciplina sulla quale sono incardinato, in un contesto dove ciò sia richiesto, apprezzato o almeno consentito, e non a fare il mero numero per fornire i requisiti minimi ad imprese altrimenti deficitarie, percependo uno stipendio come lavoratore “socialmente utile” a mo’ dei netturbini napoletani, con la prospettiva di non occuparmi mai più di ricerca e oltretutto dover anche rispondere di ciò a qualche inquisitore. Credo che di gente disposta ad andarsene altrove, pur di continuare a fare il proprio lavoro, ve ne sia parecchia: sebbene ciò contrasti con questa presa per i fondelli che è l’autonomia universitaria, si ragioni in termini veramente manageriali e federali, decidendo, senza furbate, quali settori scientifici tenere qui e quali altri mandare altrove, consentendo a coloro che a seguito di tali decisioni risultassero in esubero, di spostarsi con forme reali di mobilità, interna ed esterna, in modo da avere ancora negli atenei toscani gruppi forti e coesi, non volgo disperso a coprire gli organici di corsi di laurea sempre più opachi, non carne da macello immolata sull’altare dei giochi di potere.

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