Rabbi Jaqov Jizchaq. Leggo su “La Nazione Pisa”: «Sono due gli atenei italiani, entrambi toscani, tra i primi cento nella nuova classifica europea delle migliori duecento università in Europa. Nella ristretta lista dei top 100, secondo la graduatoria dell’inglese “The Times Higher Education” ci sono la Scuola Normale Superiore e la Scuola Superiore Sant’Anna, tutte e due con sede a Pisa, che si piazzano rispettivamente in 50a e in 90a posizione. …L’università di Firenze si attesta tra il 170° e il 180° posto.”
Qualcuno di voi conosce il romanzo “Epepe” dello scrittore ungherese Ferenc Karinthy? C’è un tizio che all’aeroporto di Budapest sbaglia a prendere l’aereo e finisce in un paese sconosciuto dove parlano una lingua incomprensibile (e non ne parlano altre). Un misterioso paese dell’Est. Una situazione giustappunto kafkiana. Mi pare di riviverla quando cerco di interloquire con qualcuno sui temi oggetto dei miei interventi in questo blog.
Insomma, a proposito di trasparenza, io non sono tanto preoccupato della partecipazione del Rettore a un dibattito del PD, quanto di quello che non si dirà, a quello come ad altri dibattiti di altri partiti. Dell’assoluta opacità, cioè, delle proposte politiche riguardo al futuro di questo ateneo. Quale sarà il posto di Siena, ateneo già pesantemente ridimensionato, dove molte aree scientifiche oramai sono ridotte a simulacro, nel sistema degli atenei toscani? Cosa si studierà in terra di Siena? Cosa non si studierà più? Parlano de “l’università” ai dibattiti, ma che dicono? Dovrebbero specificare quale sia l’ubi consistam, l’oggetto di questo parlare. Il modo in cui si affrettano a sottolineare che “abbiamo salvato le strutture” appare talvolta una sorta di excusatio non petita.
L’opinione condivisa, in questi dibattiti, è che tutto stia oramai gradualmente tornando come prima del diluvio. Parola d’ordine; normalizzazione, e tuttavia, non solo non esistono più le facoltà e la plausibilità della configurazione che ne è conseguita meriterebbe lunghe discussioni, ma non è chiaro come qualche avanzamento di carriera e l’arrivo eventuale di un ricercatore a tempo determinato per ogni dipartimento, o il futuro bando di una mezza dozzina di concorsi possano compensare la fuoriuscita di ben cinquecento professori di ruolo, cioè il dimezzamento dell’ateneo, e per di più a casaccio. Quindi, niente è tornato, né tornerà come prima.
“No! Il dibattito no!”. È una celebre esclamazione dal morettiano “Io sono un autarchico”. Anche riguardo a quello che accade ed è accaduto all’università pare regnare nel pubblico il medesimo orrore per il dibattito. Al più ci si limita ad imprecare (gli uni) contro gli autori del buco, oppure (gli altri) a vantarsi di averlo ricoperto, dando la colpa del medesimo agli extraterrestri. Ma riguardo a quello che è avvenuto dopo la raccapricciante scoperta, regna una sorta di fatalismo: eppure non è che tutto sia riconducibile all’accanimento di un destino cinico e baro, o alla necessità di applicare regole in modo deterministico per ristabilire comportamenti finanziari virtuosi.
Volenti o no, le decisioni che per esempio hanno condotto all’assetto attuale dell’ateneo senese, o che riguardano il suo assetto futuro, hanno una valenza culturale (o politico-culturale) precisa, sottendono una precisa visione del destino dell’istruzione superiore, che non può essere dissimulata appellandosi all’ineluttabile e al potere soverchiante di quell’apparato tecno-burocratico-ministeriale aduso a tiranneggiare con le scartoffie. Così come mi pare che non possano essere elusi gli interrogativi di cui ai precedenti messaggi. I quali evidentemente non interessano a nessuno. Politici di tutte le razze sono sostanzialmente d’accordo e sono solo pochi idioti che s’interrogano su quale sia “l’orizzonte di senso” di tutto ciò.
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