Prosegue la polemica sulla paventata chiusura di uno dei 2 corsi di laurea in Lettere. Oggi il “Corriere Fiorentino” pubblica la lettera di Francesco Stella in risposta all’intervento di Tomaso Montanari, pubblicato il 24 febbraio. Seguono entrambi i contributi ed una precisazione di Montanari a Stella.
Gli atenei col campanile(dal: “Corriere Fiorentino” 24 febbraio 2011)
Tomaso Montanari. I toscani che ieri si sono sintonizzati sul Tg3 regionale probabilmente avranno fatto un sobbalzo sulla sedia a metà dell’intervista con il sindaco di Arezzo: con aria grave, Giuseppe Fanfani diceva di non poter rispondere delle reazioni della città qualora «il ministro prendesse decisioni senza consultare» la città stessa. Ma cos’era che spingeva il sindaco ad evocare scenari estremi, quasi si parlasse della rivolta di Reggio Calabria? Si trattava della paventata chiusura del corso di laurea in Lettere della Facoltà di Lettere e Filosofia dislocata ad Arezzo dall’Università di Siena. E già qui il telespettatore si rilassava: per giungere poi fino ad un sorriso distensivo quando il sindaco concludeva di esser pronto a iscriversi lui stesso a Lettere, qualora il corso rischiasse di chiudere a causa del fatto che le iscrizioni sono sotto di un’unità rispetto alla soglia minima prevista. Ci potrebbe essere una prova più evidente di quanto la riforma Gelmini colpisca nel segno quando mira a ridimensionare le sedi distaccate degli atenei italiani? Una miope politica di campanile, un irresponsabile espansionismo accademico e una strategia clientelare perfettamente bipartisan hanno steso sul nostro territorio una rete insostenibile di sedi universitarie, in barba ad ogni considerazione culturale, educativa o logistica. Il risultato è che l’esperienza universitaria era di gran lunga più formativa e arricchente nella mobilissima Italia medievale che non nella stasi attuale, quando si pretende di passare dalla scuola primaria a una Facoltà senza uscire dall’isolato.
Uno studente che nel 2011 decide di iscriversi a Lettere deve essere animato dalla cruda consapevolezza di non aver scelto un percorso immediatamente professionalizzante. Nonostante tutte le pie panzane contenute nei capitoli sugli «sbocchi» delle guide per gli studenti, non si fa Lettere avendo in mente una professione (come potrebbe avvenire per Legge, Medicina o Ingegneria): si fa Lettere, innanzitutto, per acquisire strumenti critici di lettura della realtà, che altrove non si trovano. Il lavoro che verrà sarà tanto migliore quanto più rigorosa e completa sarà stata quella gratuita formazione. Ora, che senso ha rivendicare come un diritto acquisito un’opzione tanto ardua e necessariamente minoritaria? Quasi che Arezzo dovesse avere Lettere come deve avere una stazione o una questura. E la cosa ha tanto meno senso quando si rammenti che, nel percorso morale e intellettuale della formazione umanistica, una temporanea distanza – geografica ed esistenziale – dalle proprie radici provinciali gioca un ruolo non secondario. La conoscenza di un’altra, più grande città e la possibilità di frequentare biblioteche adeguate, teatri e cinema fanno parte integrante di questa esperienza. E se gli aspiranti umanisti aretini sceglieranno di non andare a studiare a Siena (come si anticipava con tono minaccioso), ma magari nelle vicinissime Firenze o Roma, che male ci sarà? Le Facoltà di Lettere soffrono di una colossale ipertrofia di sedi e di iscritti (una gran parte dei quali assai poco motivata), di un rilassamento evidente della selettività e di un progressivo abbassamento della qualità degli insegnamenti.
Una strategia di risanamento e rilancio della formazione umanistica dovrebbe enfatizzare le storiche analogie con la facoltà di Scienze, mirando a raggiungere analoghe quantità e qualità di iscritti. In altre parole, Lettere non dovrebbe ambire ad aumentare, ma a diminuire e a selezionare le proprie sedi e i propri studenti. E a quel punto sarà legittimo anche pretendere una vera politica sociale di sostegno economico agli studi fuori sede. Se – quasi incredibilmente – un ministro e un rettore imboccano una volta tanto la strada della responsabilità, l’ultima cosa che dobbiamo augurarci sono le barricate demagogiche della politica locale.
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Le Università e i Campanili (dal: “Corriere Fiorentino” 26 febbraio 2011)
Francesco Stella. Caro direttore, vorrei fornire un’integrazione informativa, anche se inevitabilmente sommaria, all’articolo di Tomaso Montanari, pubblicato giovedi 24 febbraio sul Corriere Fiorentino, dal titolo «Gli atenei col campanile», che critica l’appello del sindaco di Arezzo in favore del mantenimento del corso di laurea in Lettere nella sua città, qualificandolo come «atto di miope politica di campanile».
Per meglio giudicare la questione credo utile far presenti alcuni dati. Stiamo parlando di quella che, nelle classifiche annuali del Censis, è classificata insieme a Lettere di Siena come la migliore facoltà d’Italia del settore, una facoltà dove insegnano docenti di fama internazionale che hanno rinunciato alla Sapienza di Roma e all’università di Oxford per restare in quella sede, una struttura dove numerose università americane (Rochester, Oklahoma, Oberlin, Syracuse e altre) fanno a gara nel proporre programmi di collaborszione, dove si offrono Master come quello pionieristico in edizione digitale al quale proprio il suo giornale qualche giorno fa ha dedicato un’intera pagina, Si tratta di una facoltà che fino all’anno scorso raccoglieva quasi 2.000 iscrizioni l’anno, creando anche per la città un indotto non solo culturale e professionale ma anche economico assai rilevante. «Che male ci sarà», chiede candidamente Montanari, se queste migliaia di studenti, per un cavillo burocratico sorto da problemi di politica universitaria, non potessero più studiare ad Arezzo e dovessero prendere la strada di Firenze o Roma? La risposta a queste domande la può fornire qualunque famiglia media italiana, che oggi non è in grado di sopportare i costi di uno studente fuori sede: il male sarà la rinuncia di migliaia di giovani del territorio aretino (quello che ha dato i natali a Guittone, Petrarca, Piero della Francesca, Michelangelo, Vasari, Redi e Cesalpino) a concludere la propria formazione con un titolo universitario, con la conseguenza inevitabile di una perdita di qualità sociale, un degrado non solo culturale ma, come sempre capita in questi casi, anche civile ed economico. Tutto questa per aderire a proclami demagogici che non comportano alcun risparmio reale proporzionato al danno che la chiusura anche solo di un corso di laurea comporterebbe.
Tomaso Montanari. Se una vocazione agli impervi studi umanistici è tanto debole da non resistere alla prova di due ore di treno al giorno (pane quotidiano per i coetanei londinesi o parigini), dubito che potrebbe in ogni caso alimentare la nobile tradizione culturale della terra d’Arezzo. Il problema di una vera attuazione del diritto di studio è, invece, urgente e grave: ma sono state proprio la politica e l’accademia a risolverlo nel peggiore dei modi, cioè non con strutture adeguate, premi al merito, o con una seria politica degli alloggi, ma invece con uno spezzatino di sedi servito porta a porta. Difficilmente il degrado civile ed economico troverà: un argine nella demagogica decisione di fondare facoltà di Lettere in città prive, per esempio, di biblioteche adeguate. Quanto alla qualità degli studiosi che insegnano ad Arezzo, chi l’ha mai messa in dubbio? In una politica di virtuoso coordinamento regionale, essi non potrebbero contribuire ad alimentare ottimamente le altre tre facoltà di Lettere toscane?
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