BREVI CONSIDERAZIONI SUL SISTEMA UNIVERSITARIO
Ruàh. Non è semplice parlare d’Università in generale e di qualche Ateneo in particolare, dopo che sono stati scritti centinaia di saggi, dopo le tavole rotonde, gli incontri, i convegni ecc. che si sono susseguiti in questi ultimi tempi. La maggior parte delle analisi svolte sono caratterizzate dal taglio accademico dei ragionamenti, essendo gli interlocutori quasi esclusivamente docenti universitari o politici che provengono dal mondo scientifico. Proviamo a discutere d’università avendo come destinatari “quivis de populo”, tentando di usare un linguaggio ed una logica non da iniziati, limitando i riferimenti normativo-formali e con l’angolo visuale amministrativo-gestionale.
L’istituto monocattedra. Per decenni e forse per secoli il sistema universitario italiano ruotava intorno al “professore”, titolare di cattedra che rappresentava spesso una scuola di pensiero che, a sua volta, aggregava altri docenti e allievi per sviluppare programmi scientifici, didattici e ricerche connesse. Le risorse umane e strumentali che costituivano la ”scuola” si organizzavano nell’Istituto monocattedra, vero centro dell’attività accademica. Tutti ricordiamo la famosa scuola di fisica di Via Panisperna a Roma diretta da Corbino prima e da Enrico Fermi poi, che rappresentò una formidabile concentrazione di autentici “geni” della fisica con alcuni riconoscimenti a livello di premi Nobel. Come non ricordare le scuole di medicina e chirurgia di Valdoni e Stefanini di Roma, l’oculistica di Siena dei professori Bencini e Frezzotti, le scuole giuridiche di Napoli e Milano e così via. Tale sistema, se vediamo bene, si riallaccia alle origini delle Università che, com’è noto, nacquero come organizzazione di studenti finalizzate ad apprendere la scienza di famosi Maestri in specifiche discipline. Per secoli questi “clerici vagantes” si spostavano da una città all’altra attratti dalla fama di insegnanti famosi. Basti ricordare le scuole giuridiche di Irnerio, Bartolo da Sassoferrato, Cino da Pistoia, i canonisti, i glossatari, i commentatori; le scuole di Medicina di Salerno, di Filosofia di Parigi, ecc..
Fino agli anni 60 i Professori Ordinari, titolari di cattedre che spesso coincidevano con gli Istituti, costituivano i Consigli di Facoltà che, a loro volta, formavano la struttura portante degli Atenei. In sostanza ogni Facoltà era gestita da un collegio formato dai soli Professori di ruolo, spesso Direttori di Istituti che costituivano una sottoarticolazione della Facoltà stessa. In quei consigli si decidevano i programmi didattici, si indirizzavano le attività di ricerca e soprattutto si chiedevano i concorsi per la copertura di insegnamenti vacanti o per attivare nuove discipline con le “chiamate” o i trasferimenti da altre sedi. A livello di Ateneo, i Presidi di ogni Facoltà, eletti dai rispettivi Consigli, costituivano il Senato Accademico, mentre tutti i professori di ruolo periodicamente si riunivano nel c.d. Corpo accademico che eleggeva il Rettore pro-tempore. Lo stesso oltre ad essere rappresentante legale dell’Ateneo presiedeva il Senato Accademico cui competeva il coordinamento della didattica e della ricerca scientifica ed il Consiglio di Amministrazione, altro organo collegiale, preposto alla gestione finanziaria e patrimoniale dell’Università. Naturalmente ogni professore ordinario aveva i suoi collaboratori a diverso titolo, quali assistenti di ruolo, professori incaricati, volontari vari, oltre ad un supporto tecnico ed amministrativo.
L’Università dei “baroni” e la contestazione studentesca. In sostanza tutto ruotava intorno alla “Cattedra” ed il sistema era articolato e funzionale all’attività di ricerca e didattica dell’Istituto monocattedra. Era insomma l‘Università dei “baroni”, fortemente selettiva. Basti ricordare che solo gli studenti provenienti dal Liceo classico avevano l’accesso a tutte le Facoltà e Corsi di laurea, mentre i diplomati in altri istituti potevano iscriversi solo ad alcuni corsi (diplomati degli Istituti tecnici solo ad Economia e Commercio, quelli provenienti dal Liceo scientifico a Scienze politiche, dalle Magistrali a Lettere moderne, Pedagogia, ecc.). Ricordo che il mio preside di Legge, professore di Diritto romano, rimase talmente scandalizzato quando si aprirono le iscrizioni a Giurisprudenza anche ai diplomati del Liceo scientifico che introdusse nel programma d’esame della sua disciplina anche alcuni brani dei Basilichi, che sono scritti in greco antico, lingua non in programma allo Scientifico. A livello nazionale la corporazione dei professori ordinari era molto influente potendo far valere un “potere” che gli derivava dalla cultura e dalla conoscenza che gli permetteva d’essere presente nei gangli vitali della società. Infatti, professori erano molti parlamentari, i componenti di magistrature superiori (Corte dei conti, Consiglio superiore della Magistratura ecc.), membri di organismi economici, Direttori di cliniche e di ospedali convenzionati o a gestione diretta, consulenti di ministri, capitani di imprese, banche ecc..
Spesso però il “potere” si esercitava in funzione della scuola, nel senso che, a volte, si favorivano i propri allievi o seguaci più per riaffermare la validità della propria linea scientifica e culturale che per meri interessi personali. Insomma, si trattava di gente altamente qualificata, a volte arrogante e dura, ma affidabile. Ricordo che con certi docenti non avevi bisogno di scrivere gli impegni presi, bastava il loro “si”. Ma anche il loro “no” era definitivo. Tale sistema era controbilanciato dalla forte presenza del “superiore Ministero”. Infatti la Direzione generale dell’istruzione universitaria aveva la gestione di due leve fondamentali. L’attribuzione delle risorse finanziarie assegnate su capitoli predefiniti quali edilizia, ricerca, progetti scientifici, missioni, ecc. e la gestione delle “Piante organiche nazionali”, con conseguente assegnazione di cattedre, posti di ruolo di assistenti, tecnici, amministrativi ecc.. Il tutto era ulteriormente completato da un sistema di vigilanza (attività ispettiva) e soprattutto dall’intervento della magistratura contabile (Corte dei Conti) che svolgeva attività di controllo sui singoli atti adottati dal Ministero e da ciascuna Amministrazione universitaria. In sostanza, i provvedimenti sia del Ministro che dei Rettori non producevano effetti se non avevano preventivamente il visto e conseguente registrazione della Corte dei Conti. Come si vede, si trattava di un sistema equilibrato di contrappesi che sostanzialmente ha tenuto per decenni fino alla contestazione studentesca (il famoso 68) che nacque proprio nelle università (iniziò a Berckeley in California, si diffuse rapidamente in tutto il mondo, basti ricordare il Maggio francese, Valle Giulia a Roma fino alla primavera di Praga). Prima della degenerazione in terrorismo, il movimento studentesco contestò fortemente il modello selettivo delle Università dei “Baroni”, le limitazioni all’eccesso, i programmi ministeriali, ecc..
Dalla legge Misasi agli anni della “micidiale imbecillità”. Il primo scossone al sistema avvenne con la legge Misasi (L. 910/69), che consentì l’iscrizione a tutte le facoltà per chiunque fosse in possesso di un diploma di scuola media superiore di durata quinquennale. In pochi anni piccole Università con poche migliaia di iscritti moltiplicarono per sei, otto, dieci volte il numero degli studenti, le medie Università diventarono grandi e le grandi divennero “mega atenei”. Non sto qui a ricordare le conseguenze in termini di edilizia, sdoppiamento delle cattedre, problemi di inserimento degli studenti “fuori sede”, la speculazione degli affitti, ecc.. Interessa solo ricordare le problematiche interne di carattere amministrativo e gestionale delle strutture. Infatti, l’onda sessantottina si ripercosse su un sistema universitario fortemente centralizzato che digeriva lentamente le novità, mentre i problemi quotidiani di gestione si scaricarono sulle singole sedi. In particolare a fronte di una organizzazione del personale basata su “piante organiche” ministeriali si dovevano fronteggiare esigenze lavorative presso gli atenei che vedevano annualmente aumentare in modo alluvionale iscritti, docenti, personale e servizi da istituire.
Si verificarono spesso contraddizioni e disservizi. Per esempio, le necessità di personale tecnico e amministrativo che incombevano su una struttura, dovevano essere segnalate al ministero che assegnava i ruoli in base alla disponibilità degli organici nazionali che, allora, erano istituiti e potevano essere modificati solo con legge. Accadeva spesso che a fronte di una richiesta di professionalità specifiche (per es. segreteria, tecnici di laboratorio o bibliotecari) il ministero assegnava altre professionalità (per es. archivisti, custodi, ostetriche ecc.). Avveniva pertanto che per far funzionare un servizio indispensabile si utilizzava un posto di un certo livello per svolgere lavori diversi (per es. si usava un ruolo di ostetriche per attività di segreteria). Dopo qualche anno si verificò che quasi tutto il personale di un ateneo era “fuori posto”. Tale anomalia determinò fortissime rivendicazioni sindacali dirette ad ottenere il riconoscimento di mansioni coerenti con il lavoro svolto, spesso di livello superiore. Dopo anni di vertenze nelle università erano sparite le categorie ausiliarie, si era ridotto il numero degli esecutivi con conseguente aumento dei quadri intermedi e dei funzionari. Il livellamento verso l’alto rese inevitabile disciplinare a parte la dirigenza. Per i docenti, invece, a fronte di poche cattedre disponibili, gli insegnamenti dei vari corsi, nel frattempo proliferati, erano coperti da “professori incaricati” a vario titolo secondo una normativa generale ed una gestione sostanzialmente ministeriale.
Siamo agli anni 70 caratterizzati da diffuse convinzioni egualitarie. È l’epoca dei collettivi, del voto politico, delle gestioni assembleari, dell’occupazione di sedi ecc.. Era talmente diffusa la convinzione collettivista che ricordo di un episodio limite, rivelatore anche di un chiaro sentimento goliardico, fortunatamente sempre presente nel mondo universitario. Un giorno una gentile signora collaboratrice nella struttura da me diretta venne a lamentarsi delle continue avance da parte di un collega d’ufficio. Dopo averla ascoltata convocai “l’accusato” per invitarlo ad un contegno più consono al ruolo che svolgeva. La risposta fu sorprendente in quanto lo stesso sosteneva, con convinzione, di essere discriminato poiché la signora accettava disinvoltamente la “corte” di un altro collega e non la sua, violando i principi collettivisti e rendendosi responsabile di una sostanziale ingiustizia.
Contemporaneamente era forte la presenza ed il prestigio del “superiore ministero” che operava attraverso la direzione generale, allora coperta da “Don Mimì Fazio”, uomo di grande temperamento e preparazione tecnica e gestionale che era il vero Ministro dell’Università. Tutto (cattedre, posti di ruolo, incarichi d’insegnamento, direttori amministrativi, finanziamenti per l’edilizia, la ricerca, i servizi ecc.) veniva disposto a viale Trastevere. Ricordo che un giorno mi recai a Roma, accompagnato da un collaboratore del Sud per esaminare, tra le altre cose, anche la sua pratica di trasferimento ad altra università più vicina al suo paese d’origine. Quando entrammo nell’enorme palazzo Umbertino di viale Trastevere, i custodi all’ingresso ci indicarono la stanza 475 o giù di lì, ove poter conferire con il capo del personale. Dopo aver percorso almeno un Km di corridoi giungemmo all’ufficio indicato ed il mio accompagnatore con fare deferente bussò alla porta chiedendo di entrare. Gli rispose una voce proveniente dagli scaffali ricolmi di pratiche: «non c’è nessuno!». Al che l’interessato non seppe rispondere se non un imbranato «ah! Meno male che non sono venuto.»
Insomma erano anni caratterizzati da demagogia, luoghi comuni e dalla “micidiale imbecillità” (definizione di Leonardo Sciascia) degli slogan dei terroristi e loro simpatizzanti, ma erano anche i tempi di una autentica creatività scientifica, basti pensare, per l’Università di Siena, all’eccellenza della facoltà di Economia e banca, alla vivacità dell’archeologia, agli storici dell’arte, oltre che al prestigio di alcuni istituti di medicina e di scienze. In sostanza l’Università pareva un laboratorio sperimentale anche in campo amministrativo e gestionale, che si scontrava con un sistema ancora legato ad indirizzi centralizzati che, al massimo, consentivano elementi di decentramento senza trasmettere agli atenei vere forme di autonomia.
Il DPR 382/80. Nel 1980 un vecchio barone universitario prof. Valitutti, divenuto Ministro, si rese conto che qualsiasi legge che tentasse una modifica sostanziale al sistema universitario avrebbe provocato reazioni di categoria, sindacali, occupazioni di sedi, interventi parlamentari che inevitabilmente avrebbero bloccato l’approvazione. E, pertanto, fece ricorso allo strumento della legge delega, allora poco usato, che limitando la discussione parlamentare ai soli principi ed indirizzi, rinviava ad un successivo decreto legislativo gli aspetti operativi e procedurali delle disposizioni. Nacque così il DPR 382/80 che incise sostanzialmente sul sistema. Infatti, tale normativa modificò l’assetto della docenza, istituì i ruoli dei professori associati e dei ricercatori, previde una sperimentazione organizzativa e didattica con l’istituzione dei dipartimenti e dei corsi di laurea e d’indirizzo, disciplinò meglio le competenze degli organi accademici ecc.. Visto con il senno di poi, possiamo dire che tale intervento aveva un vizio di fondo, frutto di un compromesso, che si rivelerà importante per quello che avverrà successivamente. Infatti, la prima stesura della normativa attribuiva l’attività didattica ai corsi di laurea e l’attività scientifica e di ricerca ai Dipartimenti, rendendo inutile la funzione della Facoltà che così veniva soppressa insieme agli istituti che ne costituivano una sottoarticolazione. Per effetto delle varie pressioni, forse di carattere politico, accademico o d’altro genere, gli istituti furono soppressi mentre le Facoltà rimasero in piedi. Non solo, ma per riempire di competenze tali organismi, fu affievolita l’importanza sia dei corsi di laurea che dei dipartimenti che, pur conservando una certa autonomia scientifica ed amministrativa, non avevano alcun potere decisionale sulla gestione delle cattedre (richiesta di ruoli, chiamate dei vincitori, formazioni di commissioni, ecc.). In sostanza, il Consiglio di Facoltà limitato nell’attività di coordinamento della didattica e privato d’ogni prerogativa riguardo alla ricerca, divenne un puro centro di potere in virtù della sua competenza a gestire le cattedre di professore ordinario, professore associato ed i ruoli di ricercatore tendenzialmente svincolate da ogni riferimento didattico e scientifico. Intorno ai Consigli di Facoltà costituiti inizialmente dai soli professori di ruolo, si sviluppò successivamente l’attuale sistema di potere universitario. Infatti, i Consigli di Facoltà eleggono il Preside; i presidi di tutte le facoltà costituiscono il Senato accademico, mentre tutti i professori delle Facoltà eleggono il Rettore che a sua volta presiede il Senato accademico che diventa così una specie di “Concilium principis” (infatti quasi mai si vota in S.A. poiché le decisioni sono sempre all’unanimità), i Rettori di tutti gli atenei, a loro volta costituiscono la “Conferenza permanente dei rettori” che ha influenzato ed influenza fortemente la politica universitaria.
Il “Progetto quadrifoglio” e la nascita dell’autonomia dell’impunità. Infatti, basti ricordare che fino al 1989 l’università, come già detto, era gestita a livello centrale da una Direzione generale del Ministero della Pubblica Istruzione. In quell’anno, forse in reazione allo strapotere dei direttori generali, fu istituito un ministero autonomo dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica ed il primo ministro di tale dicastero fu il Rettore dell’Università di Roma, Prof. A. Ruberti. Occorre forse precisare che per raggiungere tale finalità si fece ricorso ad un artificio legislativo. Infatti, poiché per istituire un nuovo ministero occorreva un iter parlamentare complesso e difficile in quanto incideva su delicati equilibri politici, si adottò una legge ordinaria (L. 168/89) che riempì di contenuti un dicastero senza portafoglio (Ministero della Ricerca scientifica) già esistente ed il cui titolare era appunto il prof. Ruberti.
Il nuovo ministro, persona molto abile e dotata di forte personalità e competenza si rese subito conto che il sistema universitario andava disciplinato e tentò di creare un nuovo modello accademico che mettesse ordine in una situazione tendenzialmente centrifuga ed a volte anarcoide. Nacque così il “progetto quadrifoglio”, cioè un’iniziativa legislativa consistente in quattro disegni di legge riguardanti l’organizzazione del Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica, la riforma degli ordinamenti didattici, le norme sul diritto allo studio, ed infine la disciplina dell’autonomia universitaria. Mentre i primi tre disegni di legge furono approvati dal Parlamento e divennero leggi dello Stato, il quarto incontrò problemi ed ostacoli d’ogni genere. Il ministro Ruberti ed il governo dell’epoca prevedendo la resistenza verso qualsiasi disciplina sull’autonomia universitaria, inserirono nella legge che attribuiva le competenze al ministero una norma di salvaguardia. Infatti in quella legge (L. 168/89) dopo aver sancito il principio che le Università sono dotate di personalità giuridica ed hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, si aggiungeva che le stesse possono dotarsi di statuti e regolamenti autonomi nel rispetto dei principi costituzionali specificati dalla legge sull’autonomia.
La stessa normativa, ad ulteriore salvaguardia, sanciva che, qualora la legge sull’autonomia per l’attuazione dei principi costituzionali non fosse approvata entro un anno, i rettori potevano comunque emanare gli statuti nel rispetto di alcuni criteri elencati nella legge stessa e di carattere sostanzialmente formale (ad es. composizione degli organi o elettività del Rettore) o generici (p.e. ”criteri organizzativi per l’individuazione di responsabilità ed efficienza” “compatibilità tra soluzioni organizzative e responsabilità finanziarie”, ecc.) In sostanza si pensava di creare un’autonomia di fatto senza entrare nel merito della vera disciplina, che invece veniva rinviata alla legge organica sull’autonomia medesima.
Pertanto, poiché la legge sull’autonomia non fu mai approvata e nel frattempo, per legge, erano state trasferite agli atenei quasi tutte le competenze del Ministero, i controlli della Corte dei Conti, sempre per legge, erano stati aboliti e persino il potere legislativo del Parlamento veniva praticamente limitato (la legge 168 stabilisce che le università sono disciplinate esclusivamente da leggi che vi operino espresso riferimento ed è esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare), i Rettori furono messi in condizione di disciplinare la vita degli atenei adottando statuti e regolamenti nella massima discrezionalità senza controlli e limiti. Basti pensare per es. alla disciplina per l’elezione del Rettore che ha prodotto le più svariate variabili. Infatti ogni statuto poteva prevedere la durata del mandato di tre, quattro, cinque anni rinnovabili per una o più volte. Inoltre fermo restando l’elettorato passivo (possono essere eletti solo i prof. di I fascia), l’elettorato attivo può essere composto in modo diverso, o con i professori di I e II fascia o anche con ricercatori, con il personale tecnico ed amministrativo o una sua rappresentanza come anche una rappresentanza studentesca. Se consideriamo che l’eletto è portatore delle istanze dei suoi elettori si può verificare che alcuni Rettori sono portatori di istanze dell’accademia (se eletti dai soli professori) o di categoria (se eletti da tutti i docenti) o politico-sindacali (se eletti anche dal personale tecnico e amministrativo) o solo politico-demagogico (se eletti da tutta la comunità universitaria comprese le rappresentanze degli studenti che peraltro cambiano anno per anno). Se infine si tiene conto anche della variabilità della durata del mandato e che lo stesso sistema si replica negli altri organi di governo ne è venuto fuori un qualcosa che un tradizionalista definirebbe con il diminutivo di “casotto”.
Dubbia costituzionalità degli Statuti universitari. Prima di andare avanti forse è opportuno fare una piccola considerazione tecnica. Cerchiamo di capire cosa dice la Costituzione. La stessa all’art. 33 stabilisce che «le Università hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi stabiliti dalle leggi dello Stato». Ora c’è da chiedersi come può una norma (L. 168/89, art. 16) disporre che, qualora una legge dello Stato che attui il dettato costituzionale non venga adottata in un determinato periodo di tempo, le Università possono dotarsi di ordinamenti autonomi, anche senza una disciplina legislativa? In sostanza si è elaborato un artificio per eludere il principio costituzionale sopraindicato. Pertanto il dubbio sulla costituzionalità della disposizione forse potrebbe apparire legittimo e, se fosse confermato, tutto il sistema degli statuti e delle normative interne delle Università verrebbe travolto. Naturalmente occorrerebbe che qualcuno studiasse il problema e sollevasse la questione davanti agli organi competenti, cosa che fino ad ora nessuno si è guardato bene di fare.
Nascita della gestione “budgettaria”. Ora riprendiamo la nostra analisi e constatiamo che per raggiungere l’obiettivo di una completa “deregulation” agli atenei mancava solo la disponibilità delle risorse. Infatti, com’è noto, i finanziamenti pubblici venivano attribuiti alle università “etichettati” o per il funzionamento o per gli stipendi di varie categorie (docenti e non, lettori e personale non di ruolo) ecc.. Pertanto le relative spese dovevano essere disposte e documentate per le singole finalità, diversamente aleggiava il rischio della responsabilità amministrativa e contabile se non del peculato per distrazione. Tutto ciò venne modificato nel dicembre 1993 quando entrò in vigore la legge 537/93 che all’art. 5 introduceva importanti novità. In particolare la disposizione prevedeva, tra l’altro, che i finanziamenti statali venissero assegnati agli atenei senza alcun vincolo di destinazione, lasciando alle singole amministrazioni la facoltà di decidere l’utilizzo delle risorse (se assumere personale, investire in progetti di ricerca, aumentare i corsi di studio, ecc.). Le Università inoltre potevano modificare in più o in meno gli organici del personale ”secondo i propri ordinamenti” (c. 12), mentre le residue competenze del ministero in materia di personale docente e non, venivano trasferite agli Atenei (c. 9). Infine veniva abolito definitivamente il controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti sui provvedimenti di nomina, promozione e cessazione di tutto il personale universitario nonché il controllo successivo della stessa Corte sui conti consuntivi. La Magistratura contabile però poteva esercitare la facoltà di controllo ai soli fini di trasmettere una relazione al Parlamento dove tale documento veniva forse letto da qualcuno, quando non aveva nulla da fare. In sostanza, si realizzava un modello di autonomia forse sponsorizzato dai Rettori, espressione di una università senatocentrica che a sua volta si organizzava in una associazione (la conferenza dei Rettori) da dove spesso provenivano vari ministri pro tempore. Insomma era nata la gestione “budgettaria”. Successivamente il quadro venne completato dalla legge 127/97 c.d. Bassanini 2 dal nome dell’allora Ministro della funzione pubblica (docente universitario), che conferì ai Rettori anche la facoltà di scegliersi il Direttore Amministrativo trasformando tale figura da funzione statale a rapporto fiduciario.
A questo punto succede qualcosa di particolare nell’applicazione delle nuove disposizioni. L’ammministrazione centrale, che aveva in pratica conservato il solo “potere” di assegnare le risorse, non accettando il ruolo di semplice distributore di fondi, e forse temendo un proliferare della spesa da parte di singoli atenei, cercò di controllare il sistema universitario attraverso vari strumenti (fondi di riequilibrio, comitati di valutazione, qualche ispezione ecc.), ma soprattutto bloccando i finanziamenti alla c.d. “spesa storica”, calcolata all’entrata in vigore della legge del 1993. In pratica alle singole università venne assegnato un budget corrispondente alle somme erogate al 31 dicembre 93, punto e basta. Tale operazione venne fatta, non so quanto consapevolmente, ignorando l’obbligo, previsto dalla stessa legge, che agli atenei dovevano essere attribuite anche “le disponibilità finanziarie a copertura degli incrementi di retribuzione del personale docente”. Per capirci bene bisogna ricordare che i professori ed i ricercatori appartengono ad una di quelle categorie (insieme a diplomatici, magistrati, militari, ecc.) che beneficiano ancora degli aumenti stipendiali automatici, i cosiddetti scatti e classi corrispondenti rispettivamente ad adeguamenti annuali al costo della vita ed incrementi del 6% biennali. Tali somme deliberate annualmente dal governo invece di trovare una copertura finanziaria come per le altre analoghe categorie, venivano scaricate sui bilanci universitari che, come si è detto, potevano contare solo sui fondi disponibili al dicembre ‘93. Se si considera infine, che tali automatismi operano su retribuzioni mediamente elevate si può immaginare quale fosse la “tombola” che ogni anno gravava sui bilanci degli Atenei e si consolidava anche per gli anni successivi. Probabilmente questa operazione, unita a gestioni a volte disinvolte, all’assenza di fatto di Direttori Amministrativi e dirigenti veramente autonomi, è stata una delle cause che ha determinato le difficoltà finanziarie delle Università italiane. In verità qualche università ha tentato di mettere in mora i Ministeri dell’Università e dell’Economia minacciando anche clamorose azioni legali, ma, forse la sottovalutazione del fenomeno e la deferenza verso Ministri che erano comunque “colleghi”, ha di fatto consigliato di mettere da parte le iniziative fino a quando l’evoluzione delle disposizioni ha consolidato la procedura.
Possiamo pertanto concludere questa breve analisi, ritenendo che la mancata regolamentazione dell’autonomia prevista dalla costituzione, il sistema budgettario applicato con il criterio della “spesa storica” (solo oggi anche in altri settori si constata l’inadeguatezza), la mancanza di controlli di legittimità e di merito sui provvedimenti amministrativi, la gestione disinvolta di alcune amministrazioni, la latitanza del Ministero, l’irrompere della “politica” nella vita degli atenei, la cogestione sindacale e la conseguente emarginazione dell’Accademia, hanno determinato la pesante situazione attuale che si connota a “pelle di leopardo” sia nazionale che all’interno dei singoli atenei. Infatti alcune realtà eccellenti si alternano a molte situazioni preoccupanti, con la caratteristica che le prime sono dovute ad iniziative individuali derivanti dalla capacità, brillantezza di singoli docenti e amministratori, mentre le altre sono il prodotto di un sistema spesso fuori controllo.
“Università Accademia” o “Università Azienda”? Naturalmente, come diceva Einaudi «è necessario conoscere per deliberare», pertanto, dopo aver tentato di analizzare il sistema, cerchiamo di capire cosa si dovrebbe fare, il che, come sempre, costituisce l’aspetto più difficile. A nostro avviso occorrerebbe innanzitutto disciplinare organicamente l’esercizio “di darsi ordinamenti autonomi” per le Università come previsto dalla nostra Costituzione. Si dovrebbe ripartire dal progetto della “quarta legge” elaborata ai tempi del ministro Ruberti ed adattarla alle esigenze attuali, secondo scelte che spettano alla politica. Infatti bisognerebbe decidersi una buona volta se si vuole una “Università Accademia” o una “Università Azienda”. Nel primo caso si determinerebbe il seguente schema che viene appena accennato: rafforzamento del valore legale del titolo di studio, riaffermazione del ruolo centrale del Ministero nel definire le norme, i programmi di massima, le funzioni degli organi accademici, il ruolo del Direttore Amministrativo, mentre la carriera e lo stato giuridico dei docenti rimarrebbero disciplinati, al pari dei magistrati, diplomatici, militari ecc. da un regime di diritto pubblico; i finanziamenti e le risorse a carico dello Stato resterebbero prevalenti anche con interventi finalizzati alle singole voci di spesa mentre diventerebbe inevitabile un sistema di controllo sugli atti principali (per esempio concorsi, appalti, nomine, edilizia ecc.) e l’istituzione di organismi di valutazione per monitorare tutte le varie attività accademiche soprattutto in materia di ricerca scientifica. A livello di sede si rafforzerebbero le funzioni decisionali delle Facoltà su didattica e ricerca e conseguente riduzione dei compiti dei dipartimenti che man mano si caratterizzerebbero come articolazioni delle Facoltà stesse. Centralità del Senato accademico, funzione di rappresentante legale del Rettore e così via. In sostanza, tale tipologia di Università inevitabilmente comporterebbe una limitazione degli accessi e sarebbe tendenzialmente selettiva, e pertanto necessiterebbe di un sistema di riequilibrio con interventi di borse di studio o altri sistemi di supporto per gli studenti bisognosi e meritevoli.
Diverso il discorso se si vuole una Università aziendale. In tal caso lo schema molto approssimativo sarebbe il seguente. Funzione ministeriale caratterizzata da potere normativo, vigilanza e monitoraggio del sistema, finanziamenti statali legati a precisi risultati, valutazione dell’efficienza delle Università. Privatizzazione del rapporto di lavoro del personale docente. Nelle singole sedi il potere decisionale si concentrerebbe nel Consiglio d’Amministrazione i cui componenti, oltre a quelli di diritto (Presidente e Direttori Amministrativi) e quelli eletti dalla comunità accademica, dovrebbero essere designati solo tra coloro che partecipano alla vita dell’Ente (per esempio rappresentanti degli enti locali solo se contribuiscono con finanziamenti o apporto di beni strumentali, idem per Enti pubblici e privati ). Naturalmente tale Organo vorrà gestire le risorse molto più incisivamente e dovrà eleggere o designare il Presidente (che potrebbe non essere il Rettore). Fondamentali diventerebbero i Dipartimenti quali strutture non solo di ricerca pura ma anche applicata (quindi commesse esterne), rafforzamento delle strutture amministrative con professionalità ed esperti in materia di contratti, brevetti, promozioni, sponsorizzazioni, ecc.. Analoga importanza assumerebbero i corsi di studio, che oltre a svolgere la classica didattica, potrebbero impartire “didattica esterna” retribuita, quali corsi di formazione, qualificazioni e simili per enti, privati o imprese e svolgere attività di promozione della cultura, della lingua, dell’arte italiana all’estero anche attraverso gli istituti di cultura, Ambasciate, Accademie o Istituzioni comunque denominate nazionali e internazionali. In tale schema non avrebbe più senso la Facoltà, mentre il Senato Accademico dovrebbe essere ridisegnato nella composizione e nei compiti fondamentali di coordinamento della didattica e della ricerca per evitare forze centrifughe anche da parte dei Dipartimenti. Analoga funzione dovrebbe avere, tra l’altro, anche la Direzione amministrativa. Il Rettore diventerebbe automaticamente il rappresentante di un’università dipartimentale con forti caratterizzazioni manageriali oltre che amministrative. Con il tempo si affievolirebbe il valore legale del titolo di studio ed aumenterebbe la valenza degli esami di Stato e delle selezioni professionali che sarebbero il vero elemento di valorizzazione del titolo. Ulteriori elementi di differenziazione tra le varie lauree e le diverse università verrebbero prodotti dal mercato del lavoro. La valutazione dei singoli atenei verrebbe determinata da parametri non solo scientifici ma anche economici. Per es. basterebbe verificare in base alla dichiarazione dei redditi, dopo tre, cinque, dieci anni dal conseguimento dei titoli quanto guadagnano in media i laureati dell’Università X o Y e dei laureati delle Facoltà Z o K o quante volte i docenti di un’Università o Facoltà sono citati nelle riviste scientifiche, Congressi, brevetti, ecc..
Fuori la “politica” dall’Università. Infine un auspicio derivante da una modesta esperienza di servizio. Cerchiamo di tener fuori dall’Università la politica. A tutte le componenti accademiche mi permetto di dire: riprendetevi le Università. La politica e la cogestione sindacale non hanno portato a risultati apprezzabili. Ognuno faccia la sua parte senza farsi contaminare da logiche diverse. Non si tenga conto di quanto avviene nel nostro attuale Ordinamento dove il potere legislativo nazionale e regionale – che dovrebbe disegnare le regole della convivenza ed in tale funzione deve necessariamente giungere a compromessi ed equilibri che tengano conto di tutte le istanze rappresentate – fa anche altre cose. Perché il Parlamento nomina per esempio i vertici della Rai o di altri Enti economici, i componenti degli organi di autogoverno della Magistratura ecc. ed a livello regionale i Dirigenti della Sanità? Infatti quella logica di equilibrio e compromesso necessario per fare le leggi se applicate ad attività gestionale inevitabilmente provoca sottogoverni e lottizzazioni. Pertanto, se invece di stabilire quali sono i requisiti richiesti per accedere ad una certa funzione, quali curricula ritenere validi, quali titoli da esaminare e soprattutto chi deve valutarli, si procede a nomina diretta dei responsabili dei suddetti organismi, inevitabilmente si politicizza la Rai, la Magistratura, la Sanità, ecc.). Tale logica nelle Università è ancora più pericolosa in quanto gli schieramenti politici non sono immediatamente evidenti ma tutti sanno dove sono e quali sono. Pertanto, se si vuole una vera autonomia che valorizzi la ricerca e investa sull’intelligenza e le capacità di intere generazioni, non si può essere condizionati da qualsiasi forza esterna dovendo bastare, come da secoli avviene, la sola forza del sapere e l’entusiasmo del ricercare. Non possiamo non concludere con l’auspicio che proprio dal mondo universitario possa scaturire un segnale di novità che funzioni da modello per l’intera società.
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Utilissima e documentata ricostruzione degli ultimi 50 anni del sistema universitario italiano. Particolarmente efficaci mi sembrano gli schemi predisposti per l’ipotesi di una “Università Accademia” o di una “Università Azienda” che chiarisce il quadro confusionario che si è venuto a creare in questi anni specialmente tra i docenti più giovani. Convincente mi sembra anche il dubbio sulla costituzionalità degli Statuti universitari.
Per me davvero preziosa! Si pronunci però anche qualche colonna dell’Ateneo con esperienza pari allo “storico” sopra scrivente.
Arlecchino, tu che hai il filo diretto, puoi chiedere al prof. Ascheri che ci spieghi come mai l’adesione di cui ha parlato il Bisi al progetto Gelmini?
Per saperne di più si può consultare il rapporto IRPET 2010 sulle università toscane.
Oltre ad una quantità mostruosa di dati e tabelle il rapporto contiene una storia particolareggiata di come si è evoluta l’università.
Si tratta di un libro di 227 pagine.
Si può scaricare il file pdf al seguente link:
http://www.irpet.it/index.php?page=evento&evento_id=644
Curiosità: il 45% degli studenti di Siena proviene da altre regioni italiane, in particolare da Sicilia, Campania, Puglia, Calabria e Basilicata.
Giudizio fallimentare sul 3+2. Non ha portato risultati utili sul piano dell’occupazione ed ha partorito l’effetto disastroso di allungare i tempi per conseguire una laurea magistrale che in pratica equivale a quella che era la vecchia laurea. Quelli di Giurisprudenza capirono per tempo gli effetti nefasti che il 3+2 avrebbe avuto e si ingegnarono per mantenere solo il vecchio ordinamento.
Visto tutto in ritardo, sono in vacanza, conclusa la raccolta delle ulive! Il prof. Ascheri dev’essere fuori perché non risponde.
Grazie, dott. Petracca, sempre puntuale.
Il vecchio ordinamento a Giurisprudenza per quanto ne so è stato conservato solo a Roma 2, altrove il 3+2 fu ritenuto obbligatorio ma da uno o due anni mi dicono che hanno deciso una nuova diavoleria: l’1+4.
No comment.
Hai ragione Arlecchino. Avevo sbirciato superficialmente quanto scritto tra le pagine 77 e 78 del rapporto IRPET e mi ero fatto una congettura molto imprecisa, attribuendo a Giurisprudenza una capacità di preveggenza che in realtà non ha avuto. In effetti nel rapporto si dice soltanto che «l’offerta didattica complessiva è quasi triplicata dall’anno antecedente l’introduzione della riforma, passando da un totale di 311 corsi dell’anno accademico 2000/01 agli oltre 859 presenti nell’ultimo anno accademico disponibile. In secondo luogo, appare degna di nota l’introduzione delle lauree magistrali a ciclo unico, a partire dall’anno accademico 2006/07. Questo non è significativo tanto dal punto di vista numerico, quanto piuttosto perché indica una prima valutazione (negativa) di alcuni aspetti della riforma e un parziale ripensamento dell’organizzazione didattica: l’introduzione della laurea magistrale a ciclo unico, che riguarda la facoltà di giurisprudenza, deriva infatti dalla presa d’atto dell’inappropriatezza del titolo di 1° livello per le professioni legali e della necessità di articolare il percorso di apprendimento in tempi più lunghi, visto il carico di lavoro necessario all’acquisizione delle competenze previste.»
Scusate l’assenza dal blog, ma sono impegnato su questioni di lavoro e, per Siena, di politica cittadina. Della riforma mi feci un’opinione leggendo rapidamente la redazione di qualche mese fa e ne dissi subito sulla stampa senese come in consiglio comunale: inadeguata perché troppo timida – a prescindere dal problema del finanziamento – e macchinosa come la 382! che ancora oggi attende l’attuazione in parti qualificanti.
Alla mia adesione a un appello ha dedicato attenzione il ‘generoso’ dott. Bisi, che invece non pubblica neppure i comunicati fatti come consigliere comunale, dei quali vi riproduco l’ultimo (domani in ZOOM):
“Un triplice appello alla sinistra senese
Consentitemi, da consigliere comunale uscente che ha già deciso il ritiro dalla prima linea della politica cittadina (ed anche da direttore responsabile di Zoom, come regalo di Natale) un triplice appello.
Il primo, alla base del PD. Se Ceccuzzi è stato indicato come candidato a sindaco solo da circa il 10% degli iscritti al vostro partito (quelli che sono stati da lui “nominati” ed i loro parenti e amici?) c’è forse qualcosa che non funziona. Ergo, iscritti al PD che non siete d’accordo, ribellatevi e non illudetevi di cambiare qualcosa agendo dall’interno, a Siena. Questo risultato dimostra l’esistenza di una situazione ad oggi irrimediabile.
Ai compagni del “tavolo della coalizione di centrosinistra”. Ceccuzzi, come si capisce dal comunicato diffuso, si ritiene già il candidato di voi tutti. Vi sembra un bel modo di rispettarvi? E pensate di poter ribaltare qualcosa con le primarie di coalizione? Ergo, ribellatevi anche voi; disertate il “tavolo” e accordatevi sul da farsi con la base sconcertata di cui al punto precedente e con le forze di cui all’appello che segue.
A IdV, ai benemeriti fuorusciti di SEL e alla sinistra pensante residua: esiste in città una situazione completamente nuova rispetto al 2006. Non è il caso di studiare qualcosa di profondamente diverso, all’altezza della crisi? Non è il momento di posporre gli interessi del partito a quelli della città? Esistono ancora, a Siena, degli gli orizzonti di democrazia, sobrietà, solidarietà e trasparenza della sinistra? Se sì, battete un colpo, per favore”.
L’appello (non riportato dal Bisi nella sua parte significativa) proveniente da difendiamoluniversita@ŋmailcom era firmato da colleghi tra i quali conoscevo alcuni di tradizione ‘liberal’ più o meno marcata – come SERGIO BELARDINELLI, DINO COFRANCESCO, PIERO CRAVERI, RAIMONDO CUBEDDU e il ‘senese’
FABIO GRASSI ORSINI, nonché da A.A. MOLA che Bisi conosce certamente almeno come storico della Massoneria, ma non era firmato né da FOCARDI né da BERTELLI – che parlavano del “loro generale apprezzamento per il disegno di legge sull’Universita’ in discussione in queste ore alla Camera.
Per più di un motivo:
– perche’ riorganizza e moralizza gli organi di governo degli atenei;
– perche’ limita la frantumazione delle sedi universitarie, dei corsi di laurea e dei dipartimenti;
– perche’ introduce norme più efficaci e razionali per il reclutamento dei docenti;
– perche’ stabilisce regole certe e trasparenti per disciplinare i casi di disavanzo finanziario e di mala gestione;
– perche’ fissa dei criteri di valutazione per le singole sedi universitarie e per i singoli professori;
questo provvedimento rappresenta un passo nella direzione giusta per cercare di far uscire l’Universita’ italiana dallo stato di grave prostrazione in cui essa si trova”.
Orbene, io replicai non aderendo né negando l’adesione (dato che nel complesso l’appello mi era accettabile, pur nella genericità delle sue affermazioni), ma precisando:
“D’accordo su tutto fuorché sul primo punto. Ne dubito assai, purtroppo. Forse, ma dico forse, ci andrebbe ancora più libertà di strutturarsi e premi più ampi per chi ha buoni risultati verificati.
Piuttosto, a mio avviso era necessario un decreto-legge già prima dell’estate per affrontare i problemi più urgenti, tipo ricercatori e commissariamenti-unificazioni; era già tutto ampiamente prevedibile allora il caos attuale”.
Bene, che è successo?
Difendiamoluniversita@gmail ha girato SENZA AVVERTIRMI la mia NON adesione alla Fondazione Magna Carta (dove compaiono Bertelli e Focardi che hanno quindi aderito in altro modo), LA QUALE FONDAZIONE, da me RICHIESTA nel sito, due volte, di cancellazione o di pubblicazione con la riserva non da poco sopra riportata, NON ha caricato un bel nulla. Ora ho protestato con la ‘segreteria’…vedremo che succede!
Come vedete, ci sono le scorrettezze si cumulano e mi fanno ribadire la vecchia saggezza: il problema è che non solo non bisogna aderire ad alcun appello, ma non bisogna neppurle discuterlo SE non si conosce bene il mittente…
La storia raccontata dal prof. Ascheri è esemplare.
Avete visto ora la questione del gazebo della Lega?
Il Corsiena, come sempre al servizio del Padrone, “suggerisce” cosa fare per sopprimere le minoranze.
Si vergogni!
Ma no, dai…non scracchiate sulla pelata del Bisi, ha anche messo il “Barbanera” gratisse nelle edicole. Forse lo prendo, anche se c a g h e r ò le strenne dei soliti noti “intellettuali” finanziati dal Mps e che oscuran Siena con il lor monopolio… Per certi “comunisti” monopolisti occorre forse riesumare quel comicissimo Gioberti e il suo primato della italica nazione-che si era forgiata con l’ideologia augustea antiorientale e con la penna del pur grande collega autore delle “Georgiche”…
bardus
PS. La casa della Gelmini è stata ricoperta di sterco a u t popò da alcuni ignoti studenti. A Siena in genere lo fanno i contradaioli verso la contrada rivale. Pensa te se qualche v i o l e n t o riempie di merda i demagoghi di Siena, tutti i proffe messi in cattedra dal pci-pd! Pace, quindi, ma aspra critica…
Pax et bonum
Bardus
Devo per correttezza e completezza informare che la Fondazione Magna Carta ha alla fine caricato le mie riserve.
Sul “Carroccio” c’è un articolo sull’Università di Paolo Leoncini, il quale ricorda la priorità di questo blog nell’avvertire della crisi in arrivo.
Qualcosa si muove nella Siena profonda?
Com’è andata ieri da Barni-Balestracci?
Buona festa da
m.a.
Scrive Mario Ascheri: «Sul “Carroccio” c’è un articolo sull’Università di Paolo Leoncini, il quale ricorda la priorità di questo blog nell’avvertire della crisi in arrivo.»
Sarebbe utile avere le coordinate di questo articolo oppure potresti riportare il passo interessato.
Sarebbe utile. Leoncini non è laureato ma è forse migliore di certi proffe senza laurea servi di partito. È egli “pintato” dal Catoni cui ho rivolto un appello. “Il Carroccio”, rivista patinata di un noto ondivago ha il pregio di aver fatto luogo a certe immagini realistiche del palio poco amate dai vari berciaioli e demagoghi al potere… Indimenticabile la storia di un fantino finito alcolizzato e a rotolarsi nel vomito… ma un si pole di’ sennò la giunta ci accusa di antisenesità e disfattismo e mette in campo le varie Piccinni…
Pax et bonum già… come sempre… quindi…
Su “Il Carroccio” di Settembre-Ottobre Paolo Leoncini ha fatto una riflessione sul rapporto tra Siena e la sua Università. Provo a riportare una sintesi:
Nonostante gli studenti vivessero a Siena e molti fossero proprio senesi, l’Univeristà era sentita quasi come un corpo a sé stante, estraneo alla città e governato da regole poco note. Siena è un posto tranquillo in cui vivere ed i senesi hanno sempre vissuto il malcostume e la corruzione come un qualcosa di estraneo alla città, un qualcosa cioè che non li riguardava e che si dava per scontato avvenisse a Roma, a Milano o in Sicilia ma non a Siena. Solo da due anni, ed in particolare dopo le elezioni dell’ultimo Rettore e lo strascico di polemiche che c’è stato, i senesi hanno scoperto che il malcostume albergava anche a Siena, manifestandosi nelle sembianze dell’enorme buco di bilancio dell’Università.
Se ora è vero che la magistratura sta lavorando per chiarire ruoli e responsabilità, è però altrettanto vero che da due anni a questa parte ancora non si capisce bene cosa sia successo e, dati i tempi biblici delle magistratura, i senesi si sono assuefatti all’attesa e quindi considerano oramai la cosa nuovamente con indifferenza.
C’è la tendenza preoccupante alle generalizzazioni quando invece dovrebbe essere chiarita la responsabilità dei singoli, non fosse altro che per il fatto che ciascun senese conosce gente onesta che lavora all’Università e fa dignitosamente il suo lavoro. Generalizzare sulle responsabilità è ingiusto anche per quelle persone che hanno denunciato e raccontato i fatti su un blog sin da tempi non sospetti.
Paolo Leoncini non cita “Il Senso della Misura” ma il riferimento è abbastanza chiaro.
Si rammarica ovviamente per tutte quelle eccellenze che vengono penalizzate dal disastro finanziario e soprattutto per il perpetuarsi della spiacevole sensazione che da due anni chi di dovere continui con comportamenti che non sembrano consoni alla gravità della situazione,
Riporto testualmente:
“E mentre tutto questo va avanti, un nome, costruito con tanto buon lavoro e con tanto sforzo da parte della città nei secoli, viene sempre più calpestato. Cosa dire: inevitabilmente l’Università di Siena appare ancora oggi e più di prima come un mondo a parte in cui anche i candidati Rettori hanno preferito parlare di “governance” o “fund raising” senza essersi ancora preoccupati di rispondere alla domanda che qualsiasi persona si è posta sin dal primo giorno: come è stato possibile che?”.
La domanda che si pone Mario Ascheri, se nella Siena profonda qualcosa si stia muovendo, mi pare che debba avere una risposta affermativa.
Non ho ben capito se l’autore dell’articolo è il Paolo Leoncini che conobbi io quando cominciai a lavorare a Siena. Non lo vedo più da anni e se non erro oggi dovrebbe essere il Priore del Leocorno. Una persona eccezionale alla quale sono ancora legato da profondo affetto. Se è lui è davvero uno della Siena profonda.
Credo che il Leoncini sia un impiegato del rettorato. a quel che ne so: un neofita dello storicismo o della critica storica, spec. locale, contradaiola. Probabilmente non fa parte i n t o t o della cricca che sta lanciando strenne natalizie su Siena e l’Ospedale. La cricca non ha invitato noti studiosi…ma è meglio così: ci si sarà evitato di sporcarsi di merda. E’ l’ambiente delle stanze della servitù…Del resto i “brezneviani” a u t liberalcomunisti (qualcuno adesso sta pure in campo avverso ed è passato a posizioni ultrà fasciste), han sempre attaccato le idee innovative, preferendo i p u s h e r della sinistra “libertaria” estrema che davano la morte negli anni Settanta-Ottanta. E ci credo che i figli dei figli dei fiori siano ora nazisti, come scrive “L’Espresso”!!! La cricca che da sempre domina Siena vorrebbe fare un regime mostruoso e mettere a “Bedlam” i dissenzienti e chi sputtana Siena per il “buco” ecc. Forse hanno nell’utile idiota “filosofo” Cacciari-utile al berlusconismo come Renzi di padre dc-il loro santone. Domina il “pragmatsmo” presunto aideologico… E pensare che in dvd recente sono stato definito “filosofo” per una mia intervista di mezz’ora sul palio e su Siena. Ho solo accostato la giostra paliesca alle baruffe chiozzotte…Altro non dico se no finisco come quello di Wikileaks e mi scatenano addosso botoli asini somari venditori di almanacchi e di strenne natalizie.
bye
the bardo
Ha ragione il dott. Petracca, al rettorato a fare lo storico c’è Alessandro.
Che è poi l’amico del Catoni. Accidenti alle omonimie, ecc. Io del resto ho omonimi di nome e cognome che mi fecero guadagnare il titolo di ambasciatore… anche se non a cavallo di un cammello…
Ri-bye!
[…] Ruàh. “Università Accademia”, “Università Azienda”, Statuti incostituzionali, autonomia dell’i… […]