Cari magistrati senesi, siamo stufi dei vostri traccheggi!

Pubblichiamo l’ultimo commento di Outis e, di seguito, il Monologo di un Procuratore della Repubblica, del 18 giugno 2011.

Outis. È noto l’apologo dei fichi di Catone, com’è noto che terminasse ogni suo intervento in Senato, qualunque fosse l’argomento, con la frase: “Carthago delenda est”. A rammemorare e rafforzare l’attenzione dovuta nei confronti della bradipica magistratura senese, propongo a tutti coloro che postano un intervento su questo blog, qualunque sia l’argomento, di terminare con la frase: “Cari magistrati, siamo stufi dei vostri traccheggi!“.

Monologo di un Procuratore della Repubblica

Outis. Che montagna di pratiche! Guardiamo stamani cosa emerge dal mucchio: “Malversazioni e porcherie varie all’Università di Siena“, bisogna provvedere con urgenza; ma qui che c’è? Orrore! “Tentativo di furto del ciuco all’Orto de’ Pecci“, un tentativo di abigeato a Siena! e per di più aggravato dall’ora notturna; dietro, ne sono quasi certo, c’è un traffico internazionale di ciuchi, li verniciano metallizzati e li spacciano per colibrì nei paesi arabi, mi pare di averlo sentito dire. L’Università può attendere, maiora premunt!

Il codice etico serve oppure è uno strumento per redimere intrallazzatori e nepotisti?

«Distruggono l’Ateneo per trovare un posto ai loro figli» titolava la Repubblica di Bari il 5 marzo 2005. E nell’articolo si leggeva: «È diventata poco più di un liceo. Negli ultimi cinque anni l’Università di Bari è stata distrutta da una gestione protezionistica e inadatta ad affrontare il mercato dell’alta formazione». Sotto accusa la Facoltà di Economia per lo scandalo della parentopoli barese. Ci fu un grande dibattito anche all’esterno dell’Università, con il Comune di Bari che impose l’adozione di un Codice etico, per continuare a erogare il finanziamento ad alcune ricerche. E così, nel dicembre 2007 fu approvato “Il codice dei comportamenti”, uno dei primi in Italia. Qualche traccia di quel clima è rimasta nell’articolo qui riproposto di Bartolo Anglani (Corriere del Mezzogiorno, 23 dicembre 2005), la cui lettura ci riporta all’università di Siena, dove il Codice etico è stato adottato con quattro anni di ritardo e perché imposto dalla legge Gelmini. Ma un codice etico serve o no? «È una foglia di fico per i mali dell’università» come dice Anglani oppure è «uno strumento per redimere intrallazzatori e nepotisti», come scriveva Lucia Lazzerini, e per rifarsi la verginità? Utile, a questo proposito, la lettura del testo licenziato dalla Commissione sul Codice etico dell’ateneo senese, che, nella versione approvata dagli organi di governo, ha ricevuto corpose integrazioni, a seguito di aspre critiche della comunità accademica ed extra.

Il codice etico non serve. È una foglia di fico per i mali dell’università

Bartolo Anglani. A cosa serve un codice etico? Se rispecchia e amplifica le leggi vigenti, è pleonastico; se va oltre le leggi o le mette in mora, è illegittimo. Tertium non datur. Un codice etico può essere solo individuale, come quando un docente rinuncia a far parte di una commissione perché teme di essere sottoposto a pressioni di colleghi. Altro è quando i contenuti “etici” diventano norme erga omnes. Quale valore costrittivo possono avere per chi non ne riconosce la legittimità? Quando le leggi sono sbagliate, ci si batte perché esse vengano modificate o abrogate, ma bisogna rispettarle finché esse sono in vigore: anche obtorto collo. Così, mi pare, dovrebbe accadere in una società democratico-liberale.

Il polverone sui codici etici, in realtà, è un alibi che permette ai docenti di non prendere posizione sull’opera sistematica di distruzione dell’Università e della scuola pubblica avviata dieci anni fa e portata a buon punto negli ultimi mesi. Tutto il male sembra essersi concentrato sulla “parentopoli” pugliese, che è solo l’epifenomeno di un processo degenerativo di ben altre proporzioni. In realtà, certe cose accadono a Bari perché in Italia esistono le università di serie A e quelle di serie Z, e queste ultime hanno avuto in dono la corda alla quale impiccarsi. E ne fanno uso con larghezza. I guasti più gravi che affliggono l’Università non sono frutto delle manovre di alcuni gruppi di potere (che esistono e lottano insieme a noi) ma dell’insieme normativo che condanna l’istituzione universitaria al declino. Bisognerebbe discutere del fallimento della 3+2; del fatto che le industrie non sanno che fare dei laureati triennali testè sfornati, i quali sono costretti a proseguire gli studi con la laurea specialistica perché la triennale non vale nulla proprio su quel mercato per il quale è stata progettata.

È facile prevedere che l’applicazione di un codice etico, per quanto nobilmente ispirato, darà origine a conflitti e ricorsi infiniti. Chiunque si senta danneggiato nei suoi diritti, così come garantiti dalle leggi vigenti, tenterà di difendersi per tutte le vie possibili. Ad esempio: la legge attuale prescrive che i membri delle commissioni non debbano avere un certo grado di parentela con i candidati. Punto e basta. Una volta accertata l’inesistenza di questa parentela, il concorso è legittimo, piaccia o no. Come reagirà il candidato che potrà anche solo far valere il fumus di essere stato discriminato perché il suo bisnonno lavora nella Facoltà vicina? La legge sui concorsi è stata modificata, ma non risolve i gravi problemi che sono all’origine del codice etico. Così si fabbricano regole per il cortile di casa, quasi fossimo la Repubblica degli Zoccoli di machiavellesca memoria. E poi, tutte queste fortificazioni vengono dopo che i buoi sono scappati, o meglio: dopo che i buoi hanno invaso la stalla. Le università (non solo pugliesi) pullulano di parenti e parenti di parenti. Chi ha avuto ha avuto; ora si scatena la tempesta ma da Natale saremo più buoni. Non esistono rivoluzioni permanenti, e ogni estremismo lascia luogo al suo contrario. Prima c’è l’Ancien Régime, poi il Terrore e alla fine il Termidoro; dopo il Celeste Impero, le Guardie Rosse e poi il capitalismo di Stato; dopo la Prima Repubblica, Mani Pulite e infine Berlusconi. Amen.

Gli effetti devastanti dell’abbassamento dell’età di pensionamento dei professori universitari

Si riportano i passi più interessanti di un documento del CUN (2 luglio 2010) che ha analizzato l’impatto sul sistema universitario italiano della proposta di pensionamento a sessantacinque anni dei professori ordinari e associati. È un utile contributo al dibattito sul prepensionamento volontario messo in atto presso l’Università degli Studi di Siena.

Effetti dell’ipotesi del pensionamento dei professori a 65 anni sulle dinamiche e sui costi della docenza universitaria

1. La dinamica della docenza. (…) A legislazione invariata, il 50% degli ordinari attualmente in servizio (che sono quasi 18.000) si sarà comunque pensionato entro il 2018. Con l’ipotesi di pensionamento a 65 anni, nello schema ipotizzato questo dimezzamento avverrebbe entro il 2014. Un fenomeno analogo, anche se più ridotto sul piano quantitativo (25% di pensionamenti alle stesse date) si propone per gli associati. La fuoriuscita annuale di circa 1000 ordinari e circa 500 associati determinata dalle norme attuali pone già di per sé un pesante problema di continuità culturale, scientifica, didattica e organizzativa al sistema universitario. Una fuoriuscita dal sistema di circa 2000 ordinari e circa 1000 associati annui per i prossimi cinque anni, che deriverebbe dall’abbassamento dell’età di pensionamento, avrebbe invece effetti devastanti in tutti gli ambiti sopra indicati: ricerca, didattica e gestione sarebbero in moltissimi casi pressoché paralizzate, né è immaginabile un meccanismo di così ampia sostituzione della docenza che sia insieme sufficientemente rapido e adeguatamente selettivo. Nello scenario più probabile si avrebbe un reclutamento eccessivamente concentrato su poche classi d’età, che, anche se non si trattasse di una ope legis, riprodurrebbe a distanza di trent’anni gli stessi effetti del DPR 382/1980 (effetti di cui il sistema universitario ha pagato e ancora paga le conseguenze) e quindi si pregiudicherebbe nuovamente uno sviluppo armonico del sistema per un ulteriore trentennio. Alternativamente se, come vedremo, tale reclutamento en masse risultasse materialmente impossibile, il sistema universitario subirebbe una contrazione di personale docente tale da rendere insostenibile l’offerta didattica, anche se essa fosse significativamente ridotta rispetto a quella attuale, che è già inferiore del 20% a quella proposta fino ad anni recenti.

2. L’impatto economico. Il prepensionamento di migliaia di docenti ogni anno per un quinquennio non è, e non può in alcun modo essere descritto, come un’operazione a costo zero che libererebbe risorse immediatamente spendibili per il sistema universitario. Infatti, ogni docente che va in pensione ha maturato un diritto al trattamento di fine rapporto (TFR) e alla pensione che in ultima analisi non può non ricadere sul bilancio dello Stato e quindi sulla fiscalità generale. Il TFR pone immediati problemi di cassa: stimando conservativamente a circa 200 mila euro la quota media spettante a ciascun docente, si tratterebbe di reperire ogni anno, per cinque anni, circa 300 milioni di euro in più di quanto fin qui previsto, in un momento di crisi in cui trovare risorse aggiuntive sembra un’impresa già estremamente difficile.

Il pagamento delle pensioni anticipate pone invece gravi problemi al bilancio di competenza: trattandosi nella maggior parte dei casi, e ancora per qualche tempo, di persone le cui pensioni sono calcolate con il sistema retributivo, non è irrealistico stimare che il monte pensioni da erogare non sia inferiore all’80% del corrispondente monte stipendi. Questa cifra non potrebbe che essere sottratta al Fondo di Finanziamento Ordinario, poiché l’onere finanziario sarebbe trasferito dalle singole Università a un Ente previdenziale, che comunque alla fine fa capo al Tesoro per la copertura dei propri impegni di spesa. Questo ragionamento porta alla conclusione che le risorse annue effettivamente “liberate” da un’operazione di questo genere e disponibili per il sistema universitario non potrebbero superare il 20% dello stipendio lordo medio dei circa 1500 docenti prepensionati (circa 100 mila euro), e quindi ammonterebbero a circa 30 milioni di euro annui.

Per valutare l’impatto di questa cifra consideriamo i due esempi estremi di destinazione d’uso: puro reclutamento di ricercatori (costo 0,5 punti) e pura promozione di attuali ricercatori ad associato (costo 0,2 punti), ricordando che la cifra indicata corrisponde a circa 250 punti. Si avrebbe quindi rispettivamente nei due casi, la possibilità di un reclutamento supplementare di circa 500 ricercatori l’anno (ma in questo caso ci sarebbero 1500 professori in meno) ovvero la possibilità di 1250 promozioni (ma continuerebbero a mancare 250 professori e non si sarebbe nemmeno sfiorato il problema di dare uno sbocco all’attuale precariato). Appare chiaro che qualunque soluzione intermedia (come ad esempio 300 ricercatori e 500 promozioni) continua a risolvere meno problemi di quanti ne crei.

Si può ovviamente immaginare una diluizione del processo di prepensionamento che lo veda svolgersi su un arco di tempo più ampio del quinquennio finora ipotizzato, ma è del tutto evidente che l’attenuazione dell’impatto economico sul bilancio dello Stato corrisponderebbe a una diminuzione delle risorse annualmente rese disponibili: lo scenario nel complesso negativo sopra descritto resterebbe qualitativamente immutato, con una riduzione quantitativa degli effetti auspicati direttamente proporzionale alla riduzione degli effetti indesiderati.

Le considerazioni di natura economica fin qui presentate appaiono difficilmente contestabili, a meno che non si dichiari esplicitamente che esiste una disponibilità a reperire in altri capitoli del bilancio dello Stato le risorse aggiuntive comunque necessarie. Ma se vi fosse questa disponibilità è legittimo chiedersi perché tali risorse aggiuntive non dovrebbero essere usate direttamente per potenziare il reclutamento e/o le promozioni, senza privare il sistema delle risorse umane di cui già dispone, tenuto conto del fatto che la competenza didattica e scientifica della maggior parte degli attuali docenti che sarebbero coinvolti nel provvedimento appare nella maggior parte dei casi difficilmente contestabile sulla base delle statistiche di produzione scientifica e dell’evidenza relativa al numero e alla qualità media dei corsi d’insegnamento attualmente erogati dalla componente più matura della docenza universitaria.

Del resto non è certo casuale che in tutti i settori produttivi si tenda a un innalzamento, piuttosto che a una riduzione, dell’età minima per il pensionamento, ed è notizia recente quella per cui si stima che, in corrispondenza dell’aumentata durata media della vita, nell’arco di pochi decenni per tutti i lavoratori l’età del pensionamento si sposterà intorno ai settant’anni.

3. L’impatto sull’attuale corpo docente. (…) Risulta quindi facilmente immaginabile un duplice effetto negativo sul corpo docente: da un lato il disorientamento derivante dalla rapida scomparsa di un grande numero di punti di riferimento culturale, che in un sistema nel quale la capacità di innovazione si fonda comunque quasi sempre su una buona e solida trasmissione dei risultati già precedentemente acquisiti potrebbe produrre effetti devastanti, e dall’altro un incremento del già purtroppo elevato livello di demotivazione, che spingerebbe proprio i migliori a dirigersi verso altre realtà, diverse e più promettenti di quella italiana, per vedere effettivamente valorizzate le proprie attitudini e competenze, mentre non si vede chi, se non per scarsa qualità intrinseca, potrebbe scegliere di muoversi dall’estero verso il nostro Paese, come invece da più parti e giustamente auspicato per vivacizzare e internazionalizzare il nostro sistema.

Quando è l’ora della scelta della Facoltà: nomadi e migranti o autoctoni e stanziali?!

Le ragioni di chi parte e di chi resta

Cosimo Loré. La scelta della Facoltà al di fuori della propria sede sprovvista di università è stata per secoli dettata da mera necessità e anche dalla ricerca di migliori opportunità: per una popolazione italiana quasi tutta contadina l’accesso a uno dei rari rinomati atenei costituiva la massima ambizione e l’assoluta certezza di un futuro prestigioso e agiato; oggi che la docenza si è frammentata in una miriade d’indistinguibili figure e la laurea costituisce titolo difficilmente utilizzabile nel mercato del lavoro risulta illusorio l’intento di chi crede di trovar fortuna andando a studiare lontano da casa…

Malgrado i richiami con cui si cerca di attirare nuovi iscritti attraverso declamate peculiarità e opinabili classifiche, il fenomeno della migrazione interna a fini di studio diventa sempre più motivo d’improduttivo disagio socioeconomico per giovani non più sollecitati o costretti a una scelta, che in altre epoche era effetto d’amore per la libertà e la novità piuttosto che per la profondità degli studi o la magnificenza dei cattedratici, che peraltro esistevano e facevano la differenza: usare l’altrui letto, frigo, water, vivere fra gente sconosciuta, doversi fare la spesa non aiuta ad apprendere…

Gli studi, specie se “alti”, esigono condizioni ambientali che consentano concentrazione, ispirazione, attenzione, in una parola passione, senza distrazioni e interruzioni, alla stregua della iniziativa di un artista o di uno scrittore il cui spirito creativo è condizionato dall’ambiente in cui opera: questo vale anche per chi persegua la preparazione in attività sportive che richiedono il miglior impiego e impegno delle proprie risorse e qualità per la fattiva costruzione del futuro campione. E chi parte da ambienti favorevoli peggio potrà poi sopportare restrizioni e riduzioni nella propria esistenza…

Ai tempi dei nonni si emigrava all’estero per sopravvivere, i nostri genitori lasciavano la campagna per cercare la città e l’università che costituivano per i più un miraggio, molti di noi hanno poi potuto studiare dove abitavano, i nostri figli raramente oggi hanno l’esigenza di soddisfare aspirazioni così ben definite da motivare un trasferimento, magari oltreoceano, dove recarsi non con la valigia di cartone ma con ipad, iphone, etc. (c’è molto mito nella dilagante assatanata anglofilia… siamo proprio certi che coltivare la cultura greca antica sia scelta sbagliata anche se impopolare e non lucrativa?!). E anche se si volesse volare a studiare in località affollate di premi Nobel come Stanford, vi sarebbe da valutare se tale radicale opzione corrisponde effettivamente alle proprie attitudini e immaginazioni. Soprattutto c’è da riflettere su un così drastico cambiamento di vita con inaridimento di antiche radici e instaurazione di rapporti resi incerti da uno stile di vita che accomuna tutti in quella che alcuni studiosi definiscono patologia della istantaneità.

Proprio a chi ha forte personalità, peculiare identità, spiccata dignità, raffinata sensibilità non potrà giovare una simile forma d’insensato reset operato a svantaggio dei sentimenti più fecondi e profondi come dei progetti di lungo respiro e di grande spessore ed anche della qualità materiale, mentale, morale del proprio quotidiano. Oggi sempre più l’utopia della vita come opera d’arte si allontana da un’umanità sofferente e barcollante, ad onta dei luccicanti richiami pubblicitari e delle ostentate sicumere comportamentali. Lo attestano il degrado e il crollo d’istituti e istituzioni, dalla famiglia alla scuola, in carenza di modelli od ipotesi alternative atte ad assicurare civile convivenza e sociale soddisfazione. Per questo il partire senza una meta precisa e una motivazione razionale non può non (rectius deve) lasciare perplesso chi vuol conoscere prima di deliberare e ritiene ineludibile la stima di costi e benefici di ogni iniziativa. Così se l’approdo è incerto, scomodo, alieno pare più prudente non abbandonare punti di partenza conquistati con fatica da antenati che volevano consentire ulteriori progressi e crescite alle successive generazioni.

In sostanza la questione si pone sotto il duplice profilo di una formazione universitaria e di una vita privata solo in apparenza separate e distinte, in realtà impoverite e avvilite da ingravescenti perdite e difficoltà della comunicazione interpersonale e dell’organizzazione sociale, oltre che ambientali e alimentari tout court. Chi in questo senso non parte da zero, che ragioni ha di farsi trascinare da una corrente che taluno attribuisce a una “melma cupa” (Ambrosoli junior) ed il rapporto Censis definisce ormai da molti anni “insensatezza collettiva”?! E questo è ancor più vero nel caso di chi ama coltivare le rose nel proprio giardino piuttosto che andare a offrirsi per subalterne prestazioni a coltivatori e commercianti di fiori. Poeta latino Orazio docet!

Non ci può esser alcun male a dissertare in tal guisa su “scelte” che in un senso o in un altro risultano determinanti sulla esistenza di un essere umano né dovrebbe sorprendere che suscitino allarmata responsabile preoccupazione gli atteggiamenti intransigenti e riottosi scatenati da semplici proposizioni (dovrà farsi la spesa…) o da esclamazioni sussurrate (è follia…), che vogliono esser solo l’antidoto di effimere passioni, ingannevoli semplificazioni, azzardate determinazioni, all’insegna di fasulle battute e luoghi comuni. Perciò non ci si deve a ben guardare rammaricare troppo per lo scarso impegno e la palese contrarietà di fronte a decisioni non adeguatamente ponderate e appropriate e non si abbassi l’autostima di genitori non aprioristicamente accondiscendenti e inconsultamente incentivanti la fuga demotivata di figli diciottenni…

Università di Siena: i “Berlinguer boys” alla ricerca di una diversità mai posseduta

Leggendo le dichiarazioni dei Professori Tommaso Detti e Marcello Flores D’Arcais sulla loro decisione di andare in pensione anzitempo, il pensiero corre all’intervista di Enrico Berlinguer sulla “questione morale”, ricordata nei giorni scorsi da Eugenio Scalfari a trent’anni dalla pubblicazione. Vi è un passo di quell’intervista che è bene ricordare: «I partiti hanno occupato lo Stato, gli istituti culturali, gli ospedali, le università (…) una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi.» Ebbene, esiste un nesso tra il prepensionamento volontario dei due docenti di Storia contemporanea e l’intervista di Enrico Berlinguer? Ovviamente, no! Così com’è da escludere che costoro, trattandosi di due illustri storici, possano rientrare tra i cattedratici imposti dai partiti. Però, la notizia del pensionamento dei due docenti mette in luce un dato preoccupante. Nell’Università di Siena esiste una legione di Storici contemporaneisti: ben 22 (11 ordinari, 7 associati, 4 ricercatori). È proprio questo numero che ci riporta all’intervista di Berlinguer. Infatti, il confronto con altri Atenei, anche di dimensioni maggiori di quello senese, evidenzia in modo inequivocabile l’esubero di storici a Siena. A Pavia ce ne sono 6, a Palermo e Parma 4, a Verona 3. A Siena, prima in tutto, ne servivano 24: sì, il numero più alto di storici, raggiunto nel 2005, sotto la guida del grande timoniere Piero Tosi! È indubitabile che questa disciplina (ma non è la sola) presentasse le caratteristiche giuste, specialmente in una realtà politico-culturale peculiare come quella senese, perché l’ingerenza dei Partiti si manifestasse con prepotenza nell’arruolamento di docenti non necessari, a danno di settori disciplinari essenziali, che oggi rischiano di scomparire. Sicché, il pensionamento dei due docenti non comporterà alcun disservizio. Anzi! Ci si chiede come facciano, tutti questi storici, a raggiungere, ciascuno, il tetto delle 120 ore di lezioni l’anno, imposto dal Senato Accademico.

Ma veniamo alle dichiarazioni dei due docenti, che hanno ottenuto un contratto, per 60 ore all’anno di attività didattiche, che frutterà ad ognuno in 5 anni circa 150.000 euro lordi, più l’importo del differenziale tra l’ultimo stipendio percepito e la pensione. Dichiara il Prof. Detti: «Oltre a dare una mano alla mia Università, poi, andando via in anticipo contribuirò ad accelerare un ricambio generazionale, anche se per questo purtroppo occorrerà tempo.» E il Prof. Flores D’Arcais aggiunge: «Nessun ateneo italiano ha davvero formulato un progetto/proposta serio, capace di incoraggiare la scelta dei docenti nel modo in cui ha fatto l’Università di Siena.» Leggendo le loro dichiarazioni integrali (a pag. 4), si vede che manca il senso della misura e, aggiungerei, del pudore! Uno dei due lo farebbe per «dare una mano all’Università e accelerare il ricambio generazionale». E l’altro si meraviglia che nessun ateneo regali, come accade a Siena, tutti questi soldi a chi anticipa il pensionamento. Che fosse solo una questione di soldi, lo avevano capito subito gli estensori del collegato regolamento che proclamavano sicuri: «daremo incentivi che i docenti non potranno rifiutare!» Come si vede, è del tutto ininfluente che l’ateneo senese non sia in grado di concedere tali incentivi che per giunta provocano un danno erariale. È come togliere le capsule d’oro dalla bocca di un morto prima della sepoltura. Tutti, impassibili, assistiamo all’orgiastico saccheggio di un cadavere insepolto, l’università senese, con i più furbi che camuffano come interesse generale la loro azione di sciacallaggio. È chiaro che chi volesse realmente “dare una mano” all’ateneo dovrebbe prima di tutto rinunciare agli incentivi.