È nato il governo 5Stelle-Pd-LeU

Matteo Renzi e Carlo Calenda

Continuiamo a riflettere con un altro grande vecchio della politica, Emanuele Macaluso, intervistato da Daniela Preziosi per “il manifesto”

Macaluso: «Una destra pericolosa, nessuno ora indebolisca il centrosinistra»

Daniela Preziosi (il manifesto, 10 agosto 2019). Per orientarsi nella crisi di governo di questi giorni non si può trovare una traccia in una delle altre della storia repubblicana. Questo spiega Emanuele Macaluso, che pure di crisi di governo ne ha viste e vissute tante: da dirigente comunista, da sindacale, da direttore dell’Unità. A marzo ha festeggiato – anche qui sul manifesto – i suoi 95 anni. Ma, «una crisi così prima non poteva succedere», ragiona. E il motivo è semplice: prima «c’erano i partiti, le personalità politiche».

Di Maio, Conte e Salvini. Ecco le personalità di questi tempi. Che opinione ne hai?
Di Maio sembra uno che ha vinto la lotteria: vicepresidente del consiglio e due ministeri. E crede di sapere i numeri. Diciamo le cose come stanno: è un ignorantello, non ha cultura, né generale né politica, non ha storia, non esiste al mondo una persona che passa da quello che ha fatto, cioè niente, a vicepresidente del consiglio. Già questo dice cosa è stato questo governo. Non ha mai letto un libro, non so neanche se prima leggeva i giornali.

Inadeguato.
Diciamo le cose come stanno: sono stati loro. È stato Di Maio a costruire le fortune di Salvini. Che è arrivato al 36 per cento grazie a Di Maio. E a Conte. Gli hanno fatto fare quello che voleva. Gli hanno approvato tutte le leggi. Il cosiddetto ministro dei trasporti (Toninelli, ndr) gli ha chiuso i porti. Il presidente del consiglio, che costituzionalmente è il responsabile della politica del governo, non ha detto mai una parola su questo. Come se non ci fosse. Ha consentito che Salvini non facesse il ministro: non andava al Viminale, cambiava casacche, un giorno poliziotto, poi pompiere, poi finanziere. E Conte muto. Salvini è stato costruito dall’impotenza, dall’incapacità, dalla miseria politica dei grillini. Solo oggi che Salvini li ha messi fuori se ne sono accorti.

Conte in queste ore rivendica il suo ruolo. I 5 stelle sono emendabili, redimibili?

Conte si è accorto di essere presidente del consiglio da poco. Sono emendabili? Bisogna vedere come andrà il voto. Se diventano un partito marginale forse si innescherà un processo politico. Il Pd, con altre forze di centrosinistra – +Europa, Leu, altre – tutti insieme potrebbero superare il 30 per cento. A quel punto il sistema tornerà ad essere destra, estrema, contro centrosinistra. Anche con quelli che oggi pensano che ci voglia un partito centrista: ma un partito non si inventa a tavolino, o c’è o non c’è.

In quel caso c’è qualcosa da recuperare nei 5 stelle?
C’è una destra estrema molto pericolosa. Il problema centrale è la battaglia per la democrazia e le libertà, perché oggi questo è in discussione. E la questione sociale si è innervata con quella della libertà e della democrazia. Dunque i 5 stelle sono emendabili? Non lo so, se saranno un partito minore, se sparisce Di Maio e torna a fare quello che faceva – cioè niente –, se si sganciano da Rousseau e dalla dipendenza da Casaleggio. Forse la sconfitta può innescare processi che ora non possiamo rivedere.

Dicevi che la destra nazionalista è pericolosa. Questa legislatura ci lascia istituzioni indebolite, come ha detto Rino Formica a questo giornale?
In questa legislatura il parlamento non ha contato niente, tranne che per fare le leggi che servivano a Salvini. L’occupazione dell’informazione pubblica è sfacciata, basta guardare il Tg2. Ci sono le minacce ai giornalisti. Davanti al cronista di Repubblica (Lo Muzio, che ha ripreso il figlio di Salvini su una moto d’acqua della polizia, ndr) Salvini poteva chiedere scusa. E invece no, ha voluto dare un segnale: per i giornalisti che non sono servi c’è il disprezzo, il tentativo di ammutolirli. Questi miserabili dei grillini hanno tentato di uccidere Radio Radicale, il manifesto, l’Avvenire, i giornali locali. Quello che è avvenuto in questa legislatura è la premessa a possibili sviluppi peggiori.

Ora Salvini chiede agli elettori: «Datemi pieni poteri». Cosa vuol dire questa frase?
Ecco, l’altro problema, che per me è il principale del sistema democratico italiano, è un pauroso abbassamento della cultura politica di massa. Un bracciante siciliano dei miei tempi aveva più cultura politica di quanta ne abbia Conte o Di Maio. La tanto criticata educazione politica dei vecchi partiti non erano le Frattocchie, era il rapporto con le masse popolari, che ora si chiama ‘il territorio’. C’erano i giornali delle forze politiche, le riviste, le sezioni, si parlava con le persone. Tutto questo è finito, non da oggi, da trent’anni. Oggi i politici parlano alla pancia perché alla testa non parla nessuno. Oggi non si conosce e non si riflette su cosa succede nel resto mondo.

Sulla «situazione internazionale», come si diceva ai tempi del Pci?
Perché si sapeva che c’era un rapporto con la realtà che vivevi. Ecco, un’altra istituzione in pericolo è in Europa. Non so se Salvini pensa all’uscita dell’Italia dall’Unione, ma ha già annunciato che la conflittualità antieuropea sarà durissima. Ho letto sul Corriere l’intervista a Bannon. Rivela i rapporti con l’estrema destra americana e con Putin. Tutte forze antieuropee.

Salvini è eterodiretto?
Non dico questo, ma ha un’ispirazione politica nelle forze di estrema destra in America. E con Putin, che vuole fottere l’Europa.

Tu sei amico di un presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, considerato molto interventista. L’attuale presidente Mattarella ha un altro stile. Ma credi che ci sia bisogno di una sua azione più esplicita?
Conosco bene Mattarella. È un democratico, uno su cui il paese può fare affidamento. Forse non è riuscito ad avere uno staff all’altezza. E in una situazione del genere, glielo dico con grande amicizia, il presidente della Repubblica deve usare le sue competenze costituzionali fino in fondo. Se è vero quello che penso sui pericoli che corre il paese, certo al presiedente si pongono problemi seri e nuovi. La garanzia di alcune istituzioni, compreso il ruolo del Parlamento, si porrà in maniera più acuta. Ma ho fiducia che lui possa affrontare questi temi con energia. Non è un pavido, nel 1990 non esitò a dimettersi da ministro (contro la legge Mammì, ndr).

E siamo arrivati al Pd. 
Ma la storia comincia con il Pds e i Ds. L’obiettivo del governo era un problema importante per gli eredi di un partito, il Pci, che era stato sempre fuori dal governo, tranne che subito dopo la Liberazione e poi con Moro, nell’area di governo. Ma non poteva essere l’unico obiettivo: quei dirigenti non hanno più posto attenzione ai processi sociali, culturali e sociali. Altrimenti non si spiega che sia avanzata questa destra, anche nel Mezzogiorno dove la Lega tifava per l’Etna e il Vesuvio. È avvenuto un processo in cui le generazioni che c’erano e quelle che sono venute dopo hanno perso le fondamenta di una forza democratica di sinistra. È stata spazzata via la presenza nel territorio, il rapporto personale, nei quartieri, nelle fabbriche, nella scuola. Oggi c’è la rete, ma non basta. Obama faceva comizi, anche piccoli. Così Sanders e i democratici. Comizi in camicia come li facevamo noi negli anni 50 e 60. Salvini l’ha capito, infatti è l’unico che fa ancora comizi.

Il segretario Zingaretti intanto fa appello all’unità del partito. Renzi riuscirà ad accettarlo?
Lo spero. Con lui non ho mai parlato. Non nego che abbia delle qualità. Ma da come interviene si capisce che non ha esaminato autocriticamente le ragioni della sua caduta. Continua a dare le responsabilità agli altri, non vede il suo eccessivo personalismo. Da questo punto di vista non ha riflettuto. Invece dovrebbe. Potrebbe avere un avvenire politico, ma dentro una forza politica. Così si faceva nella Dc, visto che viene da lì. I ‘cavalli di razza’ si alternavano, Moro, Fanfani, De Mita. Fra loro c’è stata competizione, a momenti anche molto dura, ma avevano capito che se si spaccavano finivano. Dopo il ’68 Moro, che era stato presidente del consiglio, fu messo fuori dai dorotei; lui fece una corrente e al congresso prese il 7 per cento. Poi però diventò presidente del consiglio e capo del partito fino a quando fu rapito e ucciso. Questa è la dialettica. Non so se l’ha capito Renzi: se spacca, darà certo un colpo al Pd ma anche lui conterà niente. Se ne è capace, deve reggere una dialettica: competa, il futuro non lo sa nessuno.

Zingaretti ha i numeri per questa fase così delicata? 
Oggi in tutto il mondo politico non c’è più il meglio: i grandi partiti, i Togliatti, i De Gasperi, i Moro e i Nenni. Siamo in piena crisi della politica, altrimenti non avremmo i Di Maio e i Salvini. E la sinistra vive in questa crisi. Quindi bisogna stare attenti a quello che c’è, valutare quello che è possibile. Zingaretti è il meno peggio che oggi il Pd possa esprimere. Ha equilibro, sensibilità, un minimo di cultura politica, ha fatto il parlamentare europeo, ha fatto bene il presidente di regione. Io non sono iscritto al Pd, ho scritto un libro che si intitola «Al capolinea» e per me il Pd soffre il modo com’è nato. Ma siccome ora non c’è altro – ripeto: non c’è altro – dico a tutti che demolirlo significa rafforzare la destra. Quindi bisogna semmai dare argomenti, suggerire temi, mettere in campo questioni, anche fuori dal partito. E bisogna avere la capacità di cogliere quello che di positivo c’è fuori dal partito. Avere molta attenzione al mondo sindacale: il Pd, e non solo Renzi, ha la responsabilità di non averlo capito. E in Italia la questione sociale si intreccia alla questione dell’immigrazione. Perché la questione sociale resta sempre essenziale per una forza di sinistra.

Riflettiamo con Rino Formica, intervistato da Daniela Preziosi per “il manifesto”

Rino Formica

Rino Formica: «È l’ultima chiamata prima della guerra civile. Ora il Presidente parli».

Daniela Preziosi (il manifesto, 8 agosto 2019). «Quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica, o decide la forza. Se non ci sono soluzioni democratiche c’è la guerra civile». Con Rino Formica – classe 1927, socialista, più volte ministro, da più di mezzo secolo le sue definizioni della politica e dei politici sono sentenze affilate, arcinote e definitive – il viaggio per approdare all’oggi, un oggi drammatico, inizia da lontano. Con il Pietro Nenni «di quei dieci giorni lunghi quanto un secolo fra il 2 e il 12 giugno del ’46», racconta, «fra il referendum e la proclamazione della Repubblica c’è il tentativo del re di bloccare la proclamazione della Repubblica. Umberto resisteva al Quirinale. I tre grandi protagonisti, De Gasperi Togliatti e Nenni, presero la decisione di convocare il Consiglio dei Ministri e di dare i poteri di capo dello stato a De Gasperi, che era presidente del consiglio. De Gasperi andò al Quirinale sfrattò Umberto. In quei giorni noi, dalle federazioni del partito socialista, chiedemmo che fare. C’era il rischio reale che si bloccasse il processo democratico. Nenni appunto diramò la disposizione: quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica o la parola passa alla forza». Questa è la «questione», sostiene Formica.

Stiamo assistendo a una rottura istituzionale?
Questa rottura è antica, maturava già dagli anni 70, ma il tema viene strozzato. Il contesto internazionale è bloccato, un paese di frontiera come l’Italia deve fronteggiare equilibri interni ed internazionali. Nell’89 questo blocco salta, ma le classi dirigenti non affrontano il tema della desovranizzazione degli stati che diventavano affluenti dell’Europa unitaria. I grandi partiti entrano in crisi. Il Pci è in crisi logistica e di orientamento; il Psi perde la rendita di posizione; la Dc è alla fine della sua funzione storica.

Torniamo alla nostra crisi istituzionale.
Da allora abbiamo due documenti importanti. Il primo è del ’91, il messaggio alle camere di Cossiga che spiega che l’equilibro politico e sociale è superato. Poi, nel 2013, il discorso del secondo mandato di Napolitano. Due uomini diversi, con due approcci diversi, con coraggio pongono al parlamento il tema del perdurare della crisi. E i parlamentari, fino ad oggi, continuano a far finta che tutto va bene, che è solo un temporale, passerà. Oggi siamo alla decomposizione istituzionale del paese.

Quali sono i segnali della «decomposizione»?
Innanzitutto il governo: non c’è. Oggi ci sono tribù che occupano posizioni che una volta erano del governo. Il presidente del consiglio convoca le parti sociali, ma il giorno dopo le convoca il ministro degli interni. E i sindacati vanno. Quando il sindacato non ha un interlocutore istituzionale ma va da chi lo chiama si autodeclassa a corporazione: vado ovunque si discuta dei miei interessi. Allora: non c’è un governo, perché la sua attività è stata espunta; non ci sono i partiti né i sindacati. È la crisi dei corpi dello stato. Si assiste a un deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la magistratura.

Sta dicendo che non c’è alternativa alla guerra civile?
C’è. Oggi siamo in condizione di mobilitare la calma forza democratica dell’opinione pubblica? Chi può animarla? I leader politici sono deboli o screditati. Serve l’autorità morale e politica che può creare un nuovo pathos nel paese. Uno strumento democratico c’è, sta nella Carta. È il messaggio del presidente della Repubblica alle camere. Nell’81 la camera pubblicò un volume sui messaggi dei presidenti. Nella prefazione il costituzionalista Paolo Ungari spiega che il messaggio alle camere ha una grande importanza. Il presidente ha due modi per dialogare con il parlamento. Il primo è quando interviene nel processo legislativo. Quando rinvia alle camere un disegno di legge per incostituzionalità. È vero che non ha il diritto di veto ma – dice Ungari – porta il dissenso dinanzi al parlamento e anche all’opinione pubblica, «un terzo e non silenzioso protagonista».

Dovrebbe succedere con il decreto sicurezza bis?
Leggo che Mattarella ha dubbi. Forse ha dubbi su di sé: le norme incostituzionali stavano già nel testo che ha firmato e inviato alle camere. Lì si accettava il superamento della funzione del presidente del consiglio: non c’è più, viene informato dal ministro degli interni. È la negazione della norma costituzionale. Ma è vero che se oggi lo rimandasse alle camere la maggioranza potrebbe ben dire: abbiamo votato quello che tu hai già firmato.

Allora cosa può fare?
La situazione di oggi è figlia dell’errore del 2018. Il presidente dà l’incarico esplorativo a Cottarelli e questo incarico viene sospeso dall’esterno da due signori che notificano al Quirinale di non procedere perché stanno stilando un «contratto» di cui indicano l’arbitro, il presidente del consiglio. È il declassamento dall’accordo politico a contratto di natura civilistica, uno stravolgimento costituzionale. L’accordo di governo è altra cosa: stabilisce una cornice politica generale. L’errore è dei contraenti, ma chi lo ha avallato poteva fare diversamente? Se il presidente del consiglio è arbitro si accetta il fatto che la crisi istituzionale si supera attraverso una extrademocrazia aperta a tutti i venti.

Un punto di non ritorno?
Il problema ora è mettere uno stop. Il presidente della Repubblica dovrebbe fare un messaggio sullo stato di salute delle istituzioni. Il presidente del consiglio non c’è più, il governo neanche, la funzione della maggioranza è mutata fra decretazione e voto di fiducia. Ormai, di fatto, una camera discute, l’altra solo vota. Si sta consumando un mutamento dell’equilibrio istituzionale. Il presidente ci deve dire se questa Costituzione è diventata impraticabile.

Intanto il Viminale allarga i suoi poteri.
Salvini crea una novità nel nostro tessuto democratico. All’interno di un sistema di sicurezza crea una fazione istituzionale di partito: spezza un corpo dello stato in fazioni politiche. Il rischio è che nasca una polizia salviniana. Che avrebbe come conseguenza la nascita della Rosa bianca, come sotto Hitler. E non solo. Ormai Salvini fa in continuazione dichiarazioni di politica estera che si pongono al di fuori dei trattati a cui aderisce l’Italia.

Mattarella ha gli strumenti per fermarlo?
Mattarella viene da una educazione morotea, quella della inclusione di tutte le forze che emergono, anche le più incompatibili. Ma ne dà un’interpretazione scolastica. Moro spiega la sua visione nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari Dc, prima del sequestro. Convince i suoi all’inclusione del Pci nel governo ma, aggiunge, se dovessimo accorgerci che fra gli inclusi e gli includenti c’è conflitto sul terreno dei valori, noi passeremo all’opposizione. L’inclusione insomma non può prescindere dai valori. Altrimenti porta alla distruzione dei valori anche di quelli che li hanno. Infatti il contratto non è un’intesa fra i valori ma tra gli interessi.

Insomma questo governo è un cavallo di troia nelle istituzioni?
È la mela marcia che infetta il cesto.

Mattarella può ancora intervenire?
Non c’è tempo da perdere, deve rivolgersi al parlamento. L’opinione pubblica deve essere rimotivata, deve sapere che ha una guida morale, politica e istituzionale. Si sta creando il clima degli anni 30 intorno a Mussolini.

I consensi di Salvini crescono, l’opinione pubblica ormai si forma al Papeete beach.
Ma no, Salvini cresce perché non c’è un’alternativa. Un messaggio del presidente darebbe forza a quelle tendenze maggioritarie nell’Ue che hanno bisogno di sapere se in Italia c’è qualcuno che denuncia il deperimento democratico. Anche perché, non dimentichiamolo, l’Unione ha l’arma della procedura di infrazione per deperimento democratico, già usata per la Polonia.

In questo suo ragionamento l’opposizione non ha ruolo?
Il paese è stanco, il Pd non è in condizioni di rimotivarlo. Nessuno ne ha la forza. La stampa è sotto attacco, si difende, ma per quanto ancora? Hanno aggredito Radio radicale, i giornali, dal manifesto all’Avvenire, intimidiscono anche la stampa più robusta. Solo una forte drammatizzazione istituzionale può riuscire. All’incontro con i cronisti parlamentari Mattarella ha fatto un discorso importante. Ecco, tutti insieme dovrebbero chiedergli di ripeterlo ma in forma di messaggio alle camere. Per dare un rilievo ufficiale agli attacchi alla libera stampa. La signora Van der Leyen non potrebbe non intervenire.

Anche perché resta il dubbio che la Lega sia strumento della Russia contro l’Ue.
I rapporti fra Salvini e la Russia di Putin sono servili. La Russia ha un forte interesse a un’Italia destabilizzata per destabilizzare l’Europa. Il disegno non è di Salvini, lui è solo un servo assatanato di potere.

Ministro, con Salvini sono tornate le ballerine, stavolta in spiaggia?
Quando parlai di «nani e ballerine» intendevo che non si allarga alla società civile mettendo in un organo politico i professionisti del balletto. Qui siamo alla versione pezzente del Rubigate. Quello di Berlusconi era un populismo di transizione ma non si può negare che intercettasse sentimenti popolari. Salvini invece eccita i risentimenti plebei.

Chiede al Colle di agire un conflitto inedito nella storia repubblicana?
Ma se questa situazione va avanti, fra due anni Salvini si eleggerà il suo presidente della Repubblica, la sua Consulta, il suo Csm e il suo governo. Siamo al limite. Lo dico con Nenni: siamo all’ultima chiamata prima della guerra civile nazionalsovranista.

Libertà d’informazione o libertà di querela?

Un interessante articolo dell’avv. Caterina Malavenda sull’uso pretestuoso delle querele per diffamazione pubblicato su MicroMega (3/2019). Per leggere l’articolo integrale cliccare qui.

 

Salute e Ambiente nella Democrazia dei Beni Comuni

Perché il destino di Radio Radicale ci riguarda tutti

(Da: il manifesto 23 febbraio 2019)

Andrea Pugiotto. Ciò che non è riuscito – pur avendoci provato – a molti governi precedenti, è ora a portata di mano di quello felpa-stellato: chiudere Radio Radicale.

Sarà il trailer per le chiusure che seguiranno, con il programmato taglio dei contributi per l’editoria: Avvenire, Il Foglio, questo stesso quotidiano.

Poiché sono i mezzi a prefigurare i fini, c’è da essere seriamente preoccupati. Si tratta infatti di voci molto diverse tra loro, ma con un denominatore comune: pensare altrimenti, rispetto al populismo e al sovranismo imperanti.

Si difende il diritto all’informazione in un solo modo: informando. È quanto da sempre fa Radio Radicale, fedele al suo motto einaudiano «conoscere per deliberare».

Da un partito eterodosso non poteva che nascere un’emittente inedita nel suo fare informazione: di parte, ma non faziosa; privata, ma capace di fare servizio pubblico; piccola, ma non marginale; senza musica, solo parole; niente pubblicità, tutta informazione; vox populi grazie ai fili diretti e alle interviste per strada, ma non populista; una voce che dà voce a ogni voce; «dentro, ma fuori dal Palazzo».

Un ossimoro radiofonico, insomma, rivelatosi spazio ragionante grazie ai suoi tempi lunghi, e non menzognero grazie alla scelta di trasmettere tutto, da ovunque, per tutti, direttamente.

Così è stata fin dalle origini. Perché l’informazione di potere si batte così, mettendo in rete le istituzioni, i partiti, i sindacati, i movimenti, l’opinione pubblica, consentendo a ciascuno di sapere, capire, farsi un’idea. L’esatto contrario di una controinformazione altrettanto faziosa, destinata a farsi omologato senso comune a rapporti di forza rovesciati.

Se è la durata a dare forma alle cose, si è trattato di una felice intuizione: Radio Radicale, infatti, trasmette ininterrottamente dal 1975.

La sua probabile chiusura – come quella delle testate che seguiranno – segnala lo scontro in atto per la rappresentazione della realtà, di cui si vuole proibire una comunicazione non mediata, capace di mostrarla per ciò che è, fuori dal dominio controllato dei portavoce, dei blog eterodiretti, dei tweet autoreferenziali, dei narcisistici selfie.

Nel caso di Radio Radicale c’è dell’altro. Non è in gioco solo la rappresentazione del presente, ma anche la memoria del passato e del futuro.

Il suo archivio è il più grande tabernacolo audiovisivo di democrazia, dove sono custoditi nella loro integralità oltre quarant’anni di storia politica, giudiziaria, istituzionale. Una memoria collettiva di quel che è stato detto e fatto, fruibile da chiunque.

Sappiamo da Orwell che «chi controlla il passato, controlla il presente; chi controlla il presente, controlla il futuro». Ecco perché l’archivio di Radio Radicale è un’arma nonviolenta per resistere a coloro che nulla sanno e poco vogliono sapere, desiderosi di plasmare una storia semplificata e binaria, dove autorappresentarsi nuovi, giusti, innocenti, arcangeli vendicatori.

Qui lo stop all’attività di registrazione e catalogazione sarà già un colpo mortale per tutti, non solo per Radio Radicale: il suo archivio, infatti, è un fondo alimentato ogni giorno da documentazioni che si aggiungono a quelle già esistenti. Interromperne il flusso significa smarrire per sempre le tracce di quanto accadrà nel nostro Paese. Irrimediabilmente.

Dunque, preoccuparsi per Radio Radicale e occuparsi della sua sorte si deve, ma come?

Il cappio che può stringerla mortalmente è tutto normativo: è la legge di bilancio ad aver dimezzato il contributo per la trasmissione delle sedute parlamentari, rinnovando la relativa convenzione solo per il primo semestre 2019. È la stessa legge a stabilire l’eliminazione del contributo per l’editoria a partire dal 1 gennaio 2020. Solo una sua duplice modifica può consentire di giocare il possibile contro il probabile.

«La stampa serve chi è governato, non chi governa»Corte Suprema degli Stati uniti, 30 giugno 1971

Mi (e vi) domando: dove sono i tanti parlamentari, di ogni schieramento, che mai si sono sottratti ai microfoni di Radio Radicale?

Perché i senatori a vita, custodi di un’autentica memoria collettiva, non si fanno promotori di un’iniziativa legislativa ad hoc?

Si può sperare in un’oncia di ascolto a Palazzo Chigi, dove siede un giurista che conosce il rango costituzionale del pluralismo informativo?

Il film The Post, citando la Corte Suprema, ha ricordato a tutti che «la stampa serve chi è governato, non chi governa». Vale ovunque esista uno stato di diritto che sia ancora tale. Anche per questo la sorte di Radio Radicale prefigura il destino che tutti ci accomuna.

Università: «Riconoscete che abbiamo fatto di più e meglio di chi ci ha preceduti»

Lorenzo Fioramonti

Lorenzo Fioramonti (Vice Ministro del Miur). Ora che la Legge di Bilancio è stata approvata in via definitiva, voglio fare un resoconto delle misure importanti che contiene per quanto riguarda l’università, la ricerca e l’alta formazione artistica e musicale:
1) Abbiamo aumentato le risorse generali per i fondi di finanziamento delle università e degli enti di ricerca. Queste risorse servono per pagare salari, strutture e ricerca di base. Le cifre specifiche le ho discusse nel post precedente. Qui basta dire che i finanziamenti stanziati in questa Legge sono superiori a tutti quelli degli ultimi dieci anni. Nessun governo dal 2008 in poi ha fatto di più. Ovviamente serviranno molti più fondi per rilanciare profondamente il settore. Sono il primo ad ammettere che dopo tanti anni di sottofinanziamento e oltre 800 milioni di tagli in un decennio, la strada da percorrere è ancora lunga. Ma ho letto resoconti completamente falsi e allarmistici sui media. È legittimo aspettarsi di più, ma chi oggi ci critica non può negare che abbiamo invertito una tendenza. Abbiamo anche varato un piano straordinario per l’assunzione di nuovi 1000 ricercatori, a cui se ne aggiungeranno altri 500 grazie a risorse aggiuntive (più dei governi precedenti). Si è parlato in modo inesatto di blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, che – come ho spiegato in precedenza – non solo non riguarda i nuovi ricercatori, ma non riguarda neanche i passaggi ad associato o tutte le chiamate su punti organico precedenti al 2019. Quindi non avrà alcuna influenza reale sulle carriere accademiche, ma ci aiuta a restare nei parametri contabili dell’UE.
2) Abbiamo aumentato di 10 milioni di euro le risorse per il Fondo Integrativo Statale, che serve a coprire le borse di studio. D’accordo col Ministro, abbiamo anche deciso di escludere questo fondo da possibili accantonamenti ministeriali per il 2019. Garantiremo quindi maggiori risorse per il diritto allo studio nei mesi a venire. Anche qui, vale lo stesso principio: se qualcuno vuole proprio criticarci, lo faccia perché magari si aspettava che saremmo riusciti in un solo colpo ad offrire borse di studio a tutti gli studenti aventi diritto (un obiettivo che ci siamo impegnati a realizzare nell’arco della legislatura) ma almeno riconosca che abbiamo fatto di più e meglio di chi ci ha preceduto.
3) Abbiamo introdotto un meccanismo per cominciare a rafforzare le risorse umane nelle università, superando il tetto del turnover imposto negli anni precedenti. Come? Permettendo alle università che hanno risorse libere di investire per assumere nuovi ricercatori e nuovi amministratori. E lo abbiamo fatto garantendo sia università del Nord, sia università del Centro e del Sud (a differenza di chi per anni ha sostenuto un modello di “eccellenza” che ha premiato i soliti pochi noti). Abbiamo anche finanziato la Scuola Superiore di Napoli ed il Tecnopolo per lo Sviluppo Sostenibile a Taranto per dimostrare non solo la volontà di sostenere l’innovazione, ma anche l’attaccamento a territori martoriati da decenni di politiche sbagliate. Ovviamente serviranno anche norme ordinamentali per il reclutamento, la valutazione e la carriera accademica. Su questo agiremo nei primi mesi del prossimo anno, perché non si possono fare in una manovra di bilancio.
4) Stiamo continuando il processo di ‘statizzazione’ di molte strutture dell’alta formazione artistica e musicale, a cominciare dagli istituti superiori musicali e dalle accademie non statali. Abbiamo stanziato fondi per la disabilità e ci accingiamo ad organizzare gli Stati Generali del settore l’8-9 Febbraio a Roma. Sarà un momento importante per discutere delle politiche necessarie per rilanciare un settore cruciale per la cultura del nostro Paese. Nonostante i negoziati e le tante esigenze del Paese, questa manovra ci aiuta a voltare pagina col passato. Tutte le critiche sono benvenute, ovviamente. Ma che siano costruttive. Cominciando col riconoscere l’evidenza.
Ora possiamo iniziare il 2019 guardando avanti. Abbiamo bisogno delle energie di tutti, dagli studenti ai ricercatori, per dare uno slancio di lungo termine al nostro sistema di formazione e ricerca.

Sulla valorizzazione del merito e la meritocrazia

La pubblicazione della Lista dei Ricercatori più citati nel 2018 ha stimolato, in Unilex, un’interessante dibattito sulla meritocrazia e la valorizzazione del merito.

Da: Unilex, 31 ottobre

Marco Cosentino

Marco Cosentino. Premesso che a una prima veloce scorsa nessuno dei nomi a me noti nella lista necessita, per vedersi riconosciuti i rispettivi meriti scientifici, di alcuna certificazione specie sulla base di metriche quanto meno a-scientifiche, prendo a prestito quanto scriveva qualche giorno fa una stimatissima collega su FB: “conosco di persona come sia possibile laurearsi, conseguire titoli, vincere premi, fare carriera e in alcuni casi persino diventare eccellenza pur essendo del tutto privi di qualità”. Concludo dunque con il poeta: “OK, so you’re a rocket scientist/That don’t impress me much”.

PS: http://www.minimaetmoralia.it/wp/e-finiamola-con-questo-merito/

Franco Pavese. È statisticamente possibile che accada … ma suona tanto come la nota favola del “uva acerba”. Tutto va bene purché non si parli di merito, parola che nel vocabolario di troppi universitari italiani si vorrebbe cancellata. Poi ci si lamenta se arrivano pure i politici incompetenti: perché stupirsi? (Questo vale anche per altri gradi di scuola pubblica).

Alberto Credi

Alberto Credi. Parlo per il mio settore (Chimica). Alcuni nomi che mi aspettavo di vedere non li ho trovati, ma tutti quelli che ci sono e che conosco sono certamente eccellenti. Che le classifiche possano dare fastidio è comprensibile. Hanno sempre dei difetti e tracciano un solco fra chi c’è e chi non c’è (che spesso rosica). Hanno però il merito di mettere in risalto l’eccellenza e, a volte, di attirare l’attenzione dei media.
Riguardo al “finiamola-con-questo-merito” evocato da Cosentino, ricopio qui sotto uno dei commenti all’articolo di Bruno Trentin da lui richiamato.

«La meritocrazia, al di là di tutte le infiorescenze dell’articolo, è un concetto molto intuitivo:
“- Dobbiamo assumere un chirurgo. Chi prendiamo?
– Mah, ci sarebbe il figlio del primario, che ha fatto nella sua vita quattro appendiciti. Poi uno che il mese scorso ha lasciato le garze nella pancia di un paziente, che poi è morto. Poi ci sarebbe uno che ha fatto quindici operazioni a cuore aperto, ha collaborato con équipe prestigiose e pubblica spesso articoli scientifici.
– Beh, prendiamo il terzo!”
Questa è la meritocrazia. Come si possa essere contrari a questo a me sfugge del tutto.»

Marco Cosentino. Aahahahhaha!!! Bellissimo esempio!!! Pensa che in base alle mie conoscenze il caso 1 e il caso 3 frequentissimamente coincidono. Del caso 2 non so dato che informazioni del genere non sono di regola accessibili.
P.S. Mi scuso per la seconda mail e mi autocensuro per i prossimi giorni (o anche mesi). Valeva comunque la pena (letteralmente) replicare di getto a un plastico esempio dei danni ormai irreversibili fatti in questi anni dalla martellante retorica del merito.

Donato Zipeto

Donato Zipeto. Fosse sempre così, non ci sarebbe alcun problema. Il più delle volte invece si ha a che fare con uno che ha fatto 15 operazioni a cuore aperto, collabora con gruppi all’MIT, e pubblica 10 lavori l’anno, che si confronta con uno che ha fatto 30 operazioni varie con successo, collabora con colleghi all’UCLA e all’UCSF e pubblica 9 lavori, con un altro che magari di operazioni ne fa 50 e che pubblica meno perché non ha abbastanza tempo ma che fra i suoi co-autori ha magari un Nobel e pubblica su Nature, ecc. ecc. ecc. Molto spesso le differenze sono minime, aleatorie, e si va avanti o si resta indietro non certo per merito o demerito, ma per serendipity, per fortuna o sfortuna, per questioni caratteriali, perché si segue una ricerca di nicchia (e magari si viene citati poco, ma non necessariamente si fanno cose di poco valore, tipo malattie genetiche rare), perché si è parte di un gruppo “potente” dove si ubbidisce, si porta la borsa, e c’è davanti il big boss che ti spiana la strada e la carriera, garantendo finanziamenti e “numeretti” sempre in ordine.
Perché un conto è separare il grano dalla paglia, e fin li siamo capaci tutti, un conto è utilizzare la parola meritocrazia come una clava, dove magari è chi è più forte che decide cosa è merito e cosa no, si fa le regole, e vince la partita.
Poi succede che se vince il primo, il secondo fa ricorso perché ha più esperienza. E se vince il secondo, fa ricorso il terzo perché pubblica ricerche più “prestigiose”. E chiunque perda, afferma che è tutta colpa dei baroni, del sistema che non funziona, che è corrotto, che non va. E intanto che i capponi si beccano fra di loro, la politica taglia, ritaglia, e continua a tagliare (*). Tutto in nome del sacrosanto merito.
Quindi nulla contro il merito, ma come ha scritto Stefano Feltri tempo fa, “continuiamo con l’errore di idolatrare la meritocrazia, e ci dimentichiamo che il discorso sul merito è moralmente accettabile solo se viene garantita almeno l’uguaglianza delle opportunità”. E questa garanzia, quasi sempre, manca.

(*) «Quando si toglie al ricercatore lo strumento per fare ricerca, ovvero il finanziamento minimo di base per poter svolgere ricerca senza essere sotto ricatto, si distrugge la ricerca. Si utilizza la ricerca per costruire solo carriere, che ovviamente sono quelle dei peggiori, quelli interessati solo al potere ed alla carriera perchè di ricerca vera non ne sanno gran che.» – Antonio Cardone

Alberto Credi. Non scrivo quasi mai su Unilex, oggi grazie a Marco Cosentino mi prendo un cartellino rosso.
Tralasciando la componente spocchiosa e maleducata della sua risposta (“plastico esempio di danni ormai irreversibili” sarà lui), sarei curioso di sapere quale opzione sceglierebbe. Sicuramente non la numero tre, poiché nella retorica (quella sì, retorica) trentiniana si darebbe dare per scontato che il chirurgo è bravo solamente perché figlio di…
La vita è fatta di sfumature di grigio, come giustamente osservato da Zipeto. Il problema è che in Italia si fa fatica, per incapacità o per volontà, persino a distinguere fra il bianco e il nero. Tentare di promuovere il merito è sempre e comunque meglio che ignorarlo.

Laura Stancampiano

Laura Stancampiano. Mi sa che si imponga una riflessione sul concetto di merito, per iniziare vi propongo questo: http://www.treccani.it/enciclopedia/merito/

Di sicuro gli highly cited, visto che da qui è nata la discussione, sono eccellenti in quanto a citazioni di un certo tipo, nel senso che eccellono nel numero di citazioni ricevute dai loro lavori, ma non per questo sono più meritevoli di alcunché, anche volendo dare al termine merito un’accezione positiva (che non sempre e non per tutti ha).
Dice bene il collega Zipeto.
Il problema della meritocrazia è che non dirime scelte complesse, non le affronta, semplicemente le banalizza; non tiene in considerazione la funzionalità dell’ecosistema (anche inteso come ecosistema lavorativo fatto di tante persone con competenze diverse, diverse abilità, diverse aspirazioni) per trasformare tutto in una gara al più meritevole che, come dice in parte anche l’articolo citato da Cosentino, è solo un’arma in mano a chi detiene il potere della valutazione per designare chi è tautologicamente meritevole di incentivi (economici, di carriera, di considerazione sociale) senza che nessuno abbia la possibilità di criticare le sue scelte…in quanto “meritocratiche”.
Credo che lo slogan del merito abbia davvero fatto danni irreversibili nelle menti di tutti: si fatica non poco a cercare di pensare pragmaticamente e approfonditamente (non per banali analogie tipo “preferisci un medico bravo o uno incompetente”) senza lasciarsi psicologicamente influenzare, nel giudizio su se stessi e sugli altri, da questo mantra che a forza di ripeterlo è diventato parte della nostra società e di ciascuno di noi.

Claudio Della Volpe. Segnalo sul tema meritocrazia questo bell’articolo di Sylos Labini: «Università, non sarà la meritocrazia a salvare gli atenei italiani».

Guido Mula

Guido Mula. Caro Zipeto, caro Credi,
parlare di valorizzazione del merito e di meritocrazia è parlare di due cose non sovrapponibili. La valorizzazione del merito è il processo che permette di far funzionare un sistema mettendo le capacità migliori in evidenza.

La meritocrazia, invece, è una deformazione patologica di questo discorso, a mio avviso. La parola stessa “governo del merito” è un’aberrazione che presuppone l’esistenza astratta di categorie di merito valide ovunque, tanto che in Italia per l’università la numerologia permette addirittura di dividere il mondo in buoni e cattivi con parametri totalmente arbitrari e ingiustificati che dovrebbero valutare la qualità del lavoro dei singoli con criteri meramente quantitativi. Come se non bastasse, la meritocrazia presuppone che per un posto di, per esempio, “fisico della materia sperimentale” la persona che ha i valori numerici più elevati sia automaticamente la più adatta indipendentemente dall’ambito nel quale questa persona dovrebbe operare. Una cosa che chiunque faccia scienza sa che non ha alcun fondamento concettuale, logico e di valore.

Se, forse, le code estreme della gaussiana possono avere un qualche significato (ma anche qui esistono eccezioni anche molto recenti che mostrano che la numerologia non dà alcuna certezza), parlare di meritocrazia in Italia è solo un modo per quantificare ciò che non è quantificabile, creare profonde distorsioni del sistema della Cultura, uccidere l’innovazione e la ricerca.

Ribadisco, quindi: un conto è valorizzare il merito, un altro, ben diverso, parlare di “meritocrazia”, termine già in partenza usato per identificare distorsioni e non certo percorsi virtuosi.

Con la classifica “Censis” solita piaggeria: le università di Pisa e Firenze saranno annesse a Siena

Il Censis premia L’Università di Siena: è il miglior ateneo statale (Il Cittadino)

Università: il corso di laurea aretino è secondo in Italia, davanti c’è solo la Sapienza

L’Università di Siena è il miglior ateneo in Italia, eccellenti i corsi ad Arezzo (La Nazione)

Roberto Morrocchi

Classifica delle Università. Siena è regina d’Italia, bene anche Firenze e Pisa

L’Università di Siena 4° in Europa per Times Higher Education

Classifica atenei statali medi e piccoli: primi posti per Siena e Camerino

Visto che ci sono alcuni politici senesi e qualche blogger che continuano a parlare della città in toni catastrofici mettendo nel sacco delle corbellerie anche lo stato del nostro Ateneo, ecco che giunge a fagiolo la classifica stilata come ogni anno dal Censis…


Rabbi Jaqov Jizchaq. … gaudemus, ma perché brandire queste classifiche per dire che tutto va bene madama la marchesa?? A parte il titolo “Quarta in Europa”, cioè immediatamente dopo Oxford, Cambridge e La Sorbonne (sesquipedale “corbelleria” palesemente, quanto ovviamente, fasulla: in Europa, secondo Times Education, Siena staziona tra il 51° e il 75° posto, che, a scanso di equivoci, è già un risultato molto incoraggiante!), la domanda è a chi serva tanta piaggeria. Singolare l’ultimo articolo citato, dal quale si evince che sugli elevati standard qualitativi della ricerca e della didattica erogata all’università (quella che ancora ha la possibilità di essere erogata), non ha evidentemente alcuna influenza l’opera di chi quei risultati scientifici e didattici li ha prodotti, se vile disfattista che non ritiene di vivere nel migliore dei mondi possibili. Né è chiaro perché il gramsciano “pessimismo della ragione” dovrebbe risultare offensivo (“che sempre allegri bisogna stare, il nostro piangere fa male al Re”). Evidentemente solo chi si astiene da ogni forma di pensiero, o aderisce al Pensiero Unico, prêt-à-porter è da considerare un buon cittadino e un docente con elevati H-index, da leggere come “indice di ottimismo”. Però sarebbe interessante sapere:

1. Quali sono le “corbellerie” divulgate da questo blog, dove mi pare di constatare lo sforzo di sostenere ogni argomento con dati pubblicamente accessibili e facilmente verificabili, lontano dallo stupidario quotidiano dei luoghi comuni. La prima “corbelleria”, ovvero il primo dato allarmante è la sparizione di quasi il 40% del corpo docente di ruolo a casaccio (ad oggi risultano 664 professori confermati, a fronte degli oltre 1000 che furono), con interi settori non esattamente trascurabili entrati in crisi: una metamorfosi dell’ateneo ancora in corso e dell’approdo incerto e un problema che impone di tenere ben vigile l’attenzione, anziché bamboleggiarsi con le classifiche del CENSIS.

2. Perché tali presunte “corbellerie” le si attribuisce ad una non meglio precisata “destra”, e se uno “de sinistra” dovrebbe per caso essere contento di quello che è successo a Siena, non nutrire alcuna riserva sull’applicazione della riforma Gelmini, non covare alcuna preoccupazione, soprattutto se nella bufera ci si è trovato in mezzo, dalla parte di chi ha dato più che ricevere (ci sarebbe anche da chiedersi quanto “de sinistra” sia certa gente, ma transeat…). A forza di dire che “tutto va bene”, il centrosinistra è stato estromesso dalla guida del comune, non ad opera dei marziani, bensì dei cittadini che evidentemente non ne erano convinti;

3. Se chi in questo ateneo ha contribuito, in un decennio di pesante difficoltà, a quei successi didattici e scientifici di cui la politica, distorcendoli, subito si appropria, ha diritto o no, non considerandosi un minus habens bisognoso di tutela, di esprimersi sui problemi e sulle scelte culturali ed organizzative che lo/la riguardano in modo diretto e sulle quali ha sufficiente competenza per discuterne sensatamente, senza ricevere minacce ed ostracismi;

4. Perché ogni tentativo di pubblica e civile discussione nel merito (cioè senza brandire astratte “classifiche” distrattamente leggiucchiate o vacui ideologismi) debba essere sempre soffocato da una nube tossica di livore fazioso, o tacciato di empietà, se si discosta dal Pensiero Unico delle gazzette, fatto di assolute banalità o di asfissiante demagogia.

5. Se in definitiva ogni tentativo di interlocuzione dialettica debba essere considerato un reato di lesa maestà, tanto da essere additati come sospetti (con ciò che ne consegue). Il “così è se vi pare”, oppure “zitto e mangia”, non si addicono all’istituzione universitaria: “vogliamo che sia la palestra di cittadinanza voluta dai Costituenti, o un vivaio di servi armati di burocratiche “competenze”?”, si chiede Salvatore Settis.

Paventando dunque di vedere a breve Zelig-Salvini che si fa un selfie anche dalle finestre del rettorato, o la Meloni che reclama l’uso della tortura durante gli esami, mi domando se non sarebbe il caso di assumere un atteggiamento meno infantilmente demagogico. Ma oggi brindiamo e attacchiamoci al CENSIS, felici che tutti i problemi di cui si è cercato qui di discutere, a Siena siano solo l’incubo di qualche “blogge”.

P.S. Involontariamente sarcastico (in cauda venenum) quel: “bene anche Firenze e Pisa”. Sembra anzi che Pisa e Firenze si accingano ad essere annesse a Siena.

«L’ottimismo comporta pur sempre una certa dose di infatuazione, e l’uomo di ragione non dovrebbe essere infatuato.» Norberto Bobbio

Il governo gialloverde sull’Università

Più controlli sui professori universitari? Attenzione all’autonomia (da: Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2018)

Dario Braga. Nel capitolo «Università e ricerca» del contratto di governo sottoscritto da Lega e M5S si legge: «Occorre inserire un sistema di verifica vincolante sullo svolgimento effettivo, da parte del docente, dei compiti di didattica, ricerca e tutoraggio agli studenti». Ragioniamoci sopra un momento. Leggendo questo punto, un “non addetto ai lavori” è automaticamente portato a pensare che all’università non esistano regole e che ognuno faccia o non faccia senza controlli di sorta. Da qui la necessità di introdurre nell’accordo come elemento qualificante anche la «verifica vincolante» dei compiti dei docenti. Cosa hanno in mente gli estensori? Che conoscenza hanno dei sistemi di verifica attualmente in atto? Parliamone.

Sul lato della didattica, il docente è tenuto a indicare luogo, data, ora e argomento di ogni lezione in un registro ufficiale che, a fine corso, è firmato dal titolare del corso e consegnato alla Scuola di appartenenza. Il registro è quindi controfirmato dal presidente della Scuola che, in questo modo, ne certifica la correttezza. Per ogni singolo corso viene anche raccolta annualmente l’opinione degli studenti su svolgimento, contenuti, capacità espositiva del docente e viene chiesto di dichiarare quanta parte del corso è stata svolta dal docente titolare. Il coordinatore del corso di studio ha accesso a queste valutazioni ed è tenuto a intervenire direttamente con il docente nei casi critici.

Sul lato della ricerca, da diversi anni l’Agenzia di valutazione della università e ricerca (Anvur) richiede periodicamente ai singoli e ai Dipartimenti la esposizione puntuale della attività svolta. Gli atenei poi raccolgono annualmente le informazioni sulla produzione scientifica dei docenti e le utilizzano nella distribuzione delle risorse per la ricerca e dei posti. Nel dottorato di ricerca, poi, la verifica della qualità scientifica dei collegi dei docenti è requisito per ottenere da Anvur l’accreditamento annuale necessario per continuare a operare.

Le università sembrano quindi avere tutti gli strumenti che servono per la «verifica vincolante» e sono anzi tenute a utilizzarli sia per l’autogoverno sia per accedere a quote del fondo di finanziamento ordinario. Semmai questi strumenti andrebbero semplificati, ma questa è altra storia. Se una critica abbonda nei “social” è proprio verso l’accanimento parametrico e la «ossessiva raccolta di informazioni» sulle attività di docenza e di ricerca del singolo e degli atenei.

Ma allora di che stiamo parlando? Non vorrei essere accusato di processo alle intenzioni. Ma c’è da preoccuparsi. E se a non piacere fosse invece il principio di autonomia, base del funzionamento di tutti i sistemi universitari? Spero di sbagliarmi.

Chi non conosce il lavoro universitario potrebbe, ad esempio, pensare che sia ora di finirla con questi ricercatori e professori che vanno e vengono a piacimento, frequentano convegni e workshop, visitano altre università, non “timbrano”, e, tranne che a lezione, non sembrano avere un vero e proprio orario di lavoro. In realtà è così non solo perché “studio e creatività non hanno orario”, ma anche perché spesso le giornate di lavoro vengono assorbite dai compiti amministrativi e dall’interazione con gli studenti. Ci si porta sempre il lavoro a casa: lezioni da preparare e/o compiti d’esame da correggere, pubblicazioni da leggere, progetti da scrivere, “talk” da preparare. Alla sera o durante il weekend. Ore e ore di lavoro per le quali è difficile pensare a una «verifica vincolante».

Ci sono docenti poco seri e/o disonesti che approfittano di questa autonomia? Certo che ci sono, come in ogni professione. Per queste situazioni esiste la gerarchia delle responsabilità di chi governa dipartimenti, scuole, e atenei. Si operi su questa, gli strumenti ci sono già tutti. L’università italiana produce, nonostante tutto, ottimi laureati e tanta ricerca. Di tutto ha bisogno tranne che di (ulteriore) delegittimazione.