È nato il governo 5Stelle-Lega

La convivenza studiata e misurata dell’italiano e dell’inglese nell’università è più faticosa da progettare, rispetto al dire semplicemente “tutti i corsi in inglese”, ma forse è anche più seria e responsabile

Rita Librandi

Da: Unilex, 19 marzo 2018

Rita Librandi. Prima di tutto mi colpisce sempre il fatto che l’argomento lingua, o forse dovrei dire l’argomento “italiano”, appassioni chiunque, accendendo peraltro passioni inimmaginabili. Credo che ci siano alcune ragioni che accomunano tutte le comunità linguistiche, al di là del tempo e dello spazio, e altre che caratterizzano specificamente i parlanti italiani e la loro storia. Comunque, senza divagare troppo, vorrei subito sgombrare il campo da equivoci: sono accademica della Crusca, ma ovviamente non ho alcuna avversione verso l’inglese e non ho difficoltà a riconoscere l’evidenza: l’inglese è lingua veicolare per ogni situazione comunicativa che coinvolga (in presenza o a distanza) interlocutori di diversa provenienza e non solo per la comunicazione tecnico-scientifica. Ho parlato in inglese a più di un convegno all’estero e solo tre settimane fa ho tenuto lezioni in inglese al Dipartimento di Studi italiani della NYU, per il semplice motivo che insieme ai dottorandi di italianistica ce n’erano altri di Letterature comparate che non avrebbero capito l’italiano.
Fatta questa premessa, non interverrò su ciascun punto preso in considerazione nel vostro ampio dibattito, ma mi limiterò ad alcune osservazioni che ritengo importanti.

1) È senz’altro vero che nel medioevo (e ancora fino al XVIII sec.) il latino era la lingua delle università. Il latino, tuttavia, non era lingua di alcuno specifico paese dell’Europa medievale e dell’età moderna.

2) C’è un problema specificamente linguistico che nessuno considera. Ogni lingua che voglia continuare a discutere di fatti scientifici ha necessità di adoperare un lessico tecnico, specialistico che ovviamente si rinnova insieme con il progredire degli studi e delle scoperte. Una lingua che rinunci a coniare i propri tecnicismi, affidandosi sempre a un’altra per determinati settori abdica ad alcune prerogative essenziali delle lingue e procede, sia pure in tempi lunghi verso la dialettizzazione. Tutti i dialetti della penisola italiana, per esempio, sono lingue, nessuno escluso, non solo per la loro diretta derivazione dal latino ma anche perché possiedono un proprio autonomo sistema morfologico. Continuiamo a chiamarli dialetti per una tradizione tutta italiana, ma sono tutti lingue, anche se non lo sono più né sul piano spaziale (non si può comunicare in un singolo dialetto da Milano a Palermo) né sul piano degli argomenti che trattiamo, perché il dialetto non possiede il lessico specialistico necessario a parlare o scrivere di diritto, matematica, genetica, linguistica, ecc. Quando nel Cinquecento, infatti, ci fu l’unificazione linguistica della penisola (o se vogliamo la prima unificazione linguistica), i dialetti non ebbero più modo di formare un proprio specifico vocabolario per i settori della scienza e della cultura alta, per i quali tutti si affidarono all’italiano. Oggi nei nostri dialetti possiamo trasmettere (anche in versi) straordinarie emozioni affettive ma non possiamo parlare di genetica. Si tratta di un pericolo di cui si discute nella Commissione europea delle lingue e che coinvolge tutte le altre lingue europee.

3) È vero ciò che qualcuno di voi ha detto sulle preoccupazioni della Germania e dei paesi del Nord dell’Europa. In una convegno della EFNIL, che riunisce le più rilevanti istituzioni linguistiche europee e che si è svolto a Firenze due anni fa, i rappresentanti di Danimarca, Olanda, Germania spiegavano come stessero cercando di correre ai ripari dopo anni di totale anglicizzazione degli studi universitari. Molte sedi universitarie tedesche adottano una politica assai intelligente: al primo anno offrono corsi in inglese nelle classi con studenti stranieri e contemporaneamente obbligano questi ultimi a seguire corsi di tedesco; al secondo anno offrono una parte dei corsi in inglese e una parte in tedesco e al terzo anno tutti devono essere in grado ormai di comprendere e riprodurre il solo tedesco.

4) La battaglia dunque non è contro l’inglese negli studi universitari, ma contro l’anglicizzazione indiscriminata, priva di correttivi che vanno pensati e pesati in vista del futuro.

5) E che dire della comunicazione con il pubblico? Si parla tanto di terza missione, di trasmissione delle conoscenze al pubblico: è cosa più che giusta se non vogliamo una società credulona che rifiuti i vaccini o altre amenità simili. Come pensiamo di poter trasmettere o comunque di poter divulgare in modo alto e serio le nostre conoscenze al grande pubblico? In italiano o in inglese? Con quale lessico? Italiano o inglese? Certo la convivenza studiata e misurata delle due lingue nelle aule universitarie è più faticosa da progettare, rispetto al dire semplicemente “tutti i corsi in inglese”, ma forse è anche più seria e responsabile. Vi consiglio a questo proposito il bellissimo libro di Maria Luisa Villa, “L’inglese non basta. Una lingua per la società”, Milano, Bruno Mondadori, 2013 (la Villa ha insegnato Patologia generale e dunque non è sospetta di “iper umanismo”…).

6) È vero anche che l’inglese va insegnato bene e a questo proposito mi chiedo: com’è possibile che i giovani dopo ben 13 anni di inglese a scuola lo parlino così male? Nessuno al ministero si preoccupa mai di obbligare l’insegnamento in lingua delle Lingue… A me sembra paradossale.

Infine inviterei tutti i colleghi dei percorsi formativi tecnico-scientifici a pensare anche all’italiano scritto dei vostri studenti universitari, ma magari è meglio non aprire anche questo capito, perché già so che si scatenerebbero altre passioni.

La sentenza non vieta i corsi in lingua straniera, sancisce l’obbligatorietà di garantirli in italiano

Da: Unilex, 17 marzo 2018

Paola Sonia Gennaro. A seguito dell’ottimo articolo di Claudio Marazzini aggiungo alcune considerazioni.
Riservare a una sola lingua l’accesso alla scienza, significa consegnare al dominio di una sola cultura le chiavi della conoscenza. Una visione imperialista che neppure l’Impero romano.
Lutero in un colpo solo spazzò via l’intermediazione della classe sacerdotale della curia romana, con la traduzione in tedesco della Bibbia, rendendola accessibile al largo pubblico senza bisogno di intermediari accreditati (oggi diremmo “abilitati”).
La Chiesa cattolica invece mantenne la messa in latino fino alla metà del secolo scorso, ovvero oltre 400 anni dopo Lutero, contribuendo così a tramandare la conoscenza del latino fino ai nostri giorni.
Si può trovare anche un aspetto paradossale nel voler riservare all’inglese l’esclusività del linguaggio scientifico. Infatti, i paesi anglosassoni sono anche quelli che usano sistemi di misura diversi dal resto del mondo. Dovremmo tutti adeguarci a usare libbre e miglia?
Infine dovrebbe essere evidente che i traduttori automatici saranno sempre più perfezionati, permettendoci non solo di leggere decine di altre lingue, ma anche di parlare nella nostra lingua e di essere ascoltati in diretta nella lingua dell’interlocutore.
Dunque benvenute tutte le lingue, no alle riserve auto-accreditatesi “eccellenze”.

Marco Cosentino. La sentenza non vieta i corsi in lingua straniera bensì sancisce l’obbligatorietà di garantirli in italiano. In altri termini, io studente italiano ho il diritto di poter studiare nella mia lingua madre. Tutto qui.
Il problema della subalternità scientifica e culturale è enorme ma non è certo primariamente legato all’offerta didattica (la cui anglicizzazione, ove non giustificata da specifiche esigenze, altro non è che grossolano provincialismo).

La Facoltà di Lettere dell’ateneo senese è tra le migliori al mondo, come lo è l’attuale re d’Italia

Rabbi Jaqov Jizchaq. Leggo con piacere, ma anche con notevole sorpresa questa notizia da “Il Cittadino”: «La Facoltà di Lettere dell’ateneo senese è tra le migliori al mondo.» La QS World University Rankings registra in generale un balzo delle università italiane, dalla Sapienza al Politecnico di Milano. L’ateneo romano è il migliore al mondo in Scienze dell’Antichità, superando Cambridge (seconda) Oxford (terza) e Harvard (quinta). Mizzica! Che a Roma siano esperti di antichità romane non sorprende. Il Politecnico, secondo questa classifica, risulta ai vertici per varie branche dell’ingegneria e questo è già più interessante. Forse, semplicemente, gli atenei hanno mangiato la foglia e cominciano a capire come farsi riconoscere ciò che già posseggono. Spiccano anche Bologna, Pisa e Padova. Ma è la stessa Pisa, recentemente punita dal palio dei dipartimenti? C’è qualcosa che non quadra in questo incessante certame fra atenei.

Soddisfazione per Siena, perché la buona novella pone un argine alla diceria che le materie “umanitarie” siano sinonimo di dequalificazione a prescindere. Soddisfazione e sorpresa. Sorpresa, soprattutto perché la “Facoltà di Lettere” non esiste più da anni, quindi, forse, il giornalista voleva dire un’altra cosa. Bisogna infatti condurre una accurata ricerca per capire in quali dipartimenti, monadi diverse del tutto indipendenti l’una dall’altra, senza alcuna struttura di coordinamento come furono le defunte “facoltà”, siano finiti gli insegnamenti menzionati nell’articolo, anche se poi magari vengono ospitati negli stessi curricula di corsi di studio erogati da questo o da quello. Lo stesso è successo a Medicina e a Scienze, e ancora c’è chi parla di “Facoltà di Medicina”, “Facoltà di Scienze”, “Facoltà di Lettere” in una specie di danza delle ombre in cui si agitano fantasmi di entità decedute. È così dopo l’ultima riforma, che ha soppresso le “Facoltà”.

La soppressione delle Facoltà non è un fatto meramente nominale. È come se i giornali continuassero a chiamare Mattarella il “re d’Italia”. Quanto ciò che è accaduto sia implausibile lo testimonia, appunto, l’incredulità dei giornali, che continuano a parlare di cose che non esistono più come se esistessero ancora. Semmai, ci sarebbe da chiedersi che senso ha tutto questo, qual è stato il risparmio effettivo, l’incremento di efficienza, quale plausibilità scientifica abbiano le strutture che sono subentrate, sebbene in tempi di cieca e burocratica sottomissione, a chiedersi il senso delle cose si rischi l’ostracismo. È diventato costume obbedir tacendo, come nell’Arma, e il ghigno supponente ha rimpiazzato la dialettica delle idee. Ma in fondo anche l’attuale re d’Italia è fra i migliori al mondo e quello morto è il miglior nemico.

La pseudo-internazionalizzazione: il Consiglio di Stato boccia i corsi in inglese nell’università italiana

Clicca per ascoltare: Il Consiglio di Stato boccia i corsi in inglese del Politecnico di Milano.

Università: con il mantra della valutazione e della meritocrazia siamo in pieno delirio

Donato Zipeto

Da: Unilex, 17 e 18 gennaio 2018

Donato Zipeto. Ha senso parlare di merito quando si parte tutti dalle stesse condizioni.
Gara dei 100 metri… partono tutti dalla stessa linea, nello stesso momento, sulla stessa pista, con lo stesso tipo di scarpe, ecc. ecc. Non parte uno prima, uno dopo, uno zoppo, uno monco, qualcuno scalzo o con i chiodi seminati lungo la pista.
Nelle gare “meritocratiche” all’italiana, chi arriva primo la prossima volta parte 10 metri più avanti. L’ultimo 10 metri indietro. Così aumentiamo la “meritocrazia” e continuiamo a premiare i primi.

Quello non è merito, è reiterare e aumentare disuguaglianze e divari.
Facile la “competizione” e la sedicente “meritocrazia” quando si hanno a disposizione aeroporti, ferrovie, infrastrutture adeguate per organizzare convegni, per alimentare collaborazioni fra sedi diverse, per ricevere tempestivamente reagenti o strumentazioni. Quando si possono invitare colleghi dall’estero per corsi e seminari.
Mi piacerebbe prendere i tanti fautori di questa meritocrazia “pelosa”, confinare le tante sedicenti “eccellenze” in sedi decentrate senza risorse, strutture e infrastrutture, e vedere dove va a finire, da lì a poco, la loro eccellenza e la loro meritocrazia.
La ricerca, la cultura, sono innanzitutto collaborazione, scambio, ibridazione, idee che circolano, che si muovono, che si diffondono.
Parlare di competizione, gara, eccellenze e simili, nell’ambito della conoscenza, è una totale idiozia. Il neoliberismo lasciatelo agli economisti vecchia scuola, quelli della crescita infinita e indefinita, e ai danni che stanno facendo.

Risponde Franco Pavese: «Zipeto ha messo come “gara” il significato di riconoscimento del merito…»

Replica Zipeto: «Caro collega, non l’ho “messo” io. È il sistema messo in piedi da politici ignoranti, imprenditori beceri e truffaldini, giornalisti lecchini, opinione pubblica ostile e manipolata e colleghi ignavi.
Si brandiscono termini, quali meritocrazia ed eccellenza, come clave per far fuori chi canta fuori dal coro. Mi limito a costatare quello che è davanti agli occhi di tutti.»

Scrive ancora Franco Pavese: «sottoscrivo le parole di Zipeto solo quando dice “la ricerca, la cultura, sono innanzitutto collaborazione, scambio, ibridazione, idee che circolano, che si muovono, che si diffondono”, ma ciò è ben chiaro e realizzato solo da chi svolge bene la sua professione intellettuale, che può dimostrare senza timori a chicchessia il suo “merito”, mediante il suo curriculum fondato su dati oggettivi: pubblicazioni per la ricerca, soddisfazione degli studenti ai suoi corsi.»

Replica Zipeto: La ricerca, quella vera non la “catena di montaggio” che va di moda oggi per essere “eccellenti”, è serendipity. E non c’è tutto questo merito nella serendipity.
Quando ero ancora studente, una vita fa, ricordo l’ultima lezione del professore di fisiologia, che da lì a poco sarebbe andato in pensione. Ci raccontò, quell’ultimo suo giorno in università, la storia della principessa che perde l’anello durante il ballo, in giardino. Il re chiama il capo delle guardie, e tutti a cercare l’anello smarrito in ogni fosso, dietro ogni cespuglio, sotto ogni sasso. Finalmente una guardia lo trova, torna con l’anello, e il re propone per lui un premio. Il capo delle guardie si oppone. Perché la guardia che ha ritrovato l’anello smarrito c’è riuscita perché tanti altri, tutti gli altri, cercavano da qualche altra parte. Da solo non ce l’avrebbe mai fatta.

Prendendo spunto da questa storiella e arrivando alla realtà dei giorni nostri, va scovata e sanzionata la guardia che invece di cercare s’imbosca, si nasconde, schiaccia un pisolino, o comunque non fa il suo dovere.
Magari una pacca sulla spalla o una mezza giornata di libera uscita a chi ha trovato l’anello. E un grazie a tutti quelli che hanno svolto il loro compito.
Con la retorica dell’eccellenza e della “mediocrazia” de noantri invece, facciamo generale la guardia che ha trovato l’anello, e tutti gli altri a pulire le latrine.

I comportamenti poco etici (scambi di citazioni, salami-publishing, dati vagamente confermati et similia) stanno minando la credibilità della scienza e della ricerca. Tutto nel nome del mantra della valutazione e della meritocrazia. Altrove stanno cominciando a capirlo, e a fare qualche passo indietro. Da noi siamo in pieno delirio.

Un’ultima osservazione. Se per scovare e non finanziare un, diciamo, 5% di fannulloni, e non “sprecare” x € per nulla, imbastiamo una valutazione dai costi esorbitanti, diciamo 10x €, stiamo facendo una boiata pazzesca. Perché ci saranno meno fondi per il 95% che lavora bene, e andremo a ingrassare valutatori scopiazzatori, politici in libera uscita, editor di riviste predatorie, burocrati asfissianti, e tutto il resto del circo che vi gira intorno.
My 2 cents.

Con un trucco contabile, e trasferimenti, le università non virtuose si svuotano, risanano e ridiventano “virtuose”?

Da: Italian Engineers (12 gennaio 2018)

Michele Ciavarella. Il collega ItalianEngineer “Renzo Rosso” di PoliMI lamentava sul SecoloXIX vedi qua che non ci sono più i trasferimenti. Si sbagliava! La legge italiana rende trasferibile e quindi virtuoso un docente, conteso da tutte le Università italiane, non perché è bravo, ma perché viene da una Università non virtuosa!

Sì avete sentito bene, il paradosso è questo, solo un qualunque docente di Università non virtuosa ha uno status privilegiato, e diventa per questo “virtuoso”. Forse le Università che lo accolgono fanno una scelta e verificano se è virtuoso, ma siccome costa zero, perché andare per il sottile?
Le università che sono in “tensione finanziaria”, una volta si diceva “non virtuose”, potrebbero svuotarsi progressivamente (probabilmente semplicemente dei docenti di altra sede), almeno fino a riportarsi a situazione “positiva” (ossia sotto 80% di quota stipendi), e ridiventare virtuose. Anzi, i docenti di queste sedi hanno un’occasione unica per andarsene, visto che chi li assume, recupera interamente il loro costo!

Questo va:
0) A vantaggio dei docenti fuori sede delle Università non virtuose, che in questo hanno un vantaggio rispetto ad analoghi docenti di Università virtuose; la discriminazione paradossale di cui sopra.
1) A vantaggio delle grandi Università virtuose che non hanno questo problema e si possono scegliere dei docenti da assumere “gratis”; questo almeno mi pare sensato.
2) A vantaggio anche delle Università non virtuose che risolvono la loro situazione rapidamente: si svuotano! Sembrerebbe paradossale ma questo lo fa intuire che l’emendamento sia stato proposto da un parlamentare dell’area di Cassino (Pilozzi). Infatti, svuotandosi, si torna in condizioni finanziarie vantaggiose (sotto 80% del monte stipendi) ossia virtuosi, e si può ottenere per il futuro più posti da Professore visto che l’indicatore oltre all’80% blocca l’assegnazione al 50% del turnover.
Quindi, se perdo X professori oggi, però scendo sotto 80%, il turn-over si sblocca. Per capire il vantaggio occorrerebbe sapere quanti sono i docenti che devono andare in pensione. Se sono molti (per es. 10X), allora si crea un vantaggio netto passando da 25% del turnover (credo) al 50%, di 2X docenti.
3) Alla fine tutto ridiventa “virtuoso”, ma fa parte dei giochi complessi dell’assegnazione dei fondi all’università che non ci sia stato un intervento a copertura della manovra, perché in realtà questo non crea dei punti organico, ma solo sblocca il turnover in alcune Università. Se fosse stato fatto anni fa, quando le Università non virtuose erano molte, avrebbe creato un chaos.
4) Naturalmente, a regime tutti diventiamo “virtuosi”, fino a nuova definizione di “virtuoso”, ad oggi sconosciuta, e che verrà decisa a posteriori un giorno X non noto oggi.

Se questa manovra viene anche ripetuta è un po’ la ciliegina sulla torta di chi pensava che veramente nel 2001, quando si cominciò a parlare di Università virtuose, si volesse fare sul serio!

Premi ai dipartimenti sani e di eccellenza e cure compassionevoli a quelli sofferenti e “disabili”

Rabbi Jaqov Jizchaq. «Sono quattro i dipartimenti di eccellenza dell’Università di Siena entrati nella lista dei 180 dipartimenti che otterranno fondi straordinari dal Miur nel quinquennio 2018-2022, ripartendosi 271 milioni di euro complessivi previsti annualmente, secondo quanto stabilito dalla legge di bilancio 2017. Gli esiti della selezione, molto attesi, sono stati resi noti questa sera dal Ministero. I dipartimenti premiati sono Biotecnologie, chimica e farmacia, Biotecnologie mediche, Filologia e critica delle letterature antiche e moderne, Scienze sociali, politiche e cognitive, sulla base di progetti di alto valore scientifico elaborati e presentati nei mesi scorsi, e successivamente valutati da una commissione di sette esperti individuati dal ministero in collaborazione con ANVUR.» (il Cittadino online)

Complimenti senza dubbio ai vincitori dei “ludi dipartimentali”, ultima gara dei ludi cartacei che hanno occupato gli atenei a tempo pieno in questi anni. Rimane il dubbio di fondo sul fatto che un medico non dovrebbe “giudicare” il paziente, premiandolo se è sano. Così la politica universitaria dovrebbe considerare le aree scientifiche in pesante sofferenza e valutare se culturalmente e strategicamente è il caso di curarle, piuttosto che limitarsi a giudicarle negativamente. Insomma, dovrebbe avere una visione. Molte aree scientifiche sono prossime alla scomparsa: mi chiedo se la politica universitaria, abdicando al suo ruolo, debba intervenire solo post mortem e limitarsi al ruolo di becchino, affiggendo manifesti funebri alla memoria del “caro estinto”, una volta constatato il decesso.

Fermo restando che dopo lo scioglimento delle Facoltà, dai nomi di molti nuovi dipartimenti non si capisce nemmeno quale ne sia il contenuto effettivo (e mi metto nei panni di un referee neozelandese di una rivista, che in calce ad un articolo legga l’affiliazione dell’autore), nelle condizioni in cui sono ridotti, molti settori che fanno parte di questi contenitori non sono più in grado di competere con le corazzate di grandi atenei. S’intravede per essi solo una lenta agonia e una sopravvivenza grama in una posizione ancillare. Mi domando se non sarebbe meglio chiuderli definitivamente e dislocare altrove chi vi lavora, e qui tornano utili le considerazioni fatte in precedenti messaggi intorno alla necessità di una “massa critica” per produrre qualità. Ma il punto è che il giudizio pare irreversibile in aeternum: un meccanismo che si autoalimenta, per cui ai “ludi” prossimi venturi vinceranno sempre i soliti. Questa continua accentuazione dei divari esistenti, finanziando alcuni dipartimenti a danno degli altri (ulteriormente indeboliti dunque in modo deliberato), finisce difatti per chiamare inevitabilmente in causa il destino dell’intero sistema degli atenei, questione che non può più essere elusa.

Dice giustamente Viesti: «un gruppo di tecnocrati “illuminati”… in base alla conoscenza che solo essi hanno del Bene e del Male, perseguono un disegno politico-ideologico (assai simile nelle sue linee ispiratrici a quello del partito conservatore britannico) volto ad un radicale ridisegno del sistema dell’istruzione superiore, che concentra risorse su poche sedi da essi prescelte, e destina misure compassionevoli alle altre, caratterizzate “da disabilità”, secondo l’espressione coniata da (due membri del) direttivo ANVUR.»

Angelo Riccaboni, l’uomo giusto nel CdA del Monte dei Paschi di Siena

Al grande professore di “Economia Aziendale“, non gli passa neanche per l’anticamera del cervello che non si può considerare «risparmio» la mancata spesa per un’attività che la legge impedisce di fare. Non può dire, per esempio, d’aver fatto risparmiare l’Ateneo non comprando una Ferrari per le sue funzioni di Rettore, per un motivo molto semplice: la legge non lo consente. Invece, ascoltare, o leggere di seguito, quel che, con disinvoltura e convinzione, ha dichiarato Angelo Riccaboni in Tribunale.

Da Radio Radicale (udienza del 24 febbraio 2016; brano da 36:26 minuti a 37:27 minuti): «Quello che sicuramente è stato importante è una gestione caratterizzata dal massimo dell’attenzione alle spese. Questo è ovvio! Che sei in quella situazione, devi dare anche degli esempi: basti ricordare, anche soltanto, quel piccolo incontro per i saluti di Natale, che naturalmente è stato offerto dal Rettore, come persona fisica. Lo dico, come esempio di un’attività gestionale improntata a una tensione esasperata, esasperata al risparmio, per due motivi: sia perché era giusto farlo, per ridurre i problemi di tipo finanziario; ma anche per un altro motivo, l’esempio. Cioè, all’interno di un’organizzazione se non si dà l’esempio a tutti i livelli è difficile che questa induzione del risparmio, dell’attenzione alle risorse, è difficile che si propaghi.»

Pagare il rinfresco per gli auguri di Natale, sarebbe stato un danno erariale. Al contrario, se Angelo Riccaboni avesse rinunciato ai 216.000,00 € dell’indennità di carica per i sei anni da rettore, o decidesse, oggi, di rinunciare all’indennità da consigliere nel CdA della Banca MPS, quello sì che sarebbe un risparmio e un bell’esempio a tutti i livelli.

Pubblicato anche, con lo stesso titolo, su:
Lo Stanzino Digitale (27 dicembre 2017).
– Il Cittadino online (2 gennaio 2018).

Sulla valutazione della didattica da parte degli studenti che non sanno nulla dei loro docenti e dell’ateneo

Dario Braga

La verità, vi prego, sull’Università (Il Sole 24 Ore)

Dario Braga. In questi giorni le Università stanno raccogliendo le opinioni degli studenti sulle attività didattiche. A chi presenzia alle lezioni viene chiesto di rispondere a una serie di domande sulla qualità degli insegnamenti, sulla chiarezza espositiva del docente, sull’interesse verso la materia e sulle strutture a disposizione. È un rituale di valutazione che si ripete a ogni semestre. Prescindendo dal giudizio che si dà a un sistema di valutazione basato su una “istantanea” di un corpo studentesco che frequenta a piacere e che raramente studia durante il periodo di lezioni (si veda Il Sole 24 Ore del 27 dicembre 2016) si tratta di domande importanti. Importanti sono le conseguenze delle risposte, visto che sempre più spesso i risultati dei questionari sono utilizzati dalle “governance” degli atenei per assegnare risorse e/o riorganizzare corsi di studio e/o per le progressioni di carriera.

Ma cosa sanno veramente gli studenti dei loro professori e della loro università? Poco si direbbe. Non deve sorprendere. Il Paese intero non conosce la sua università. Lo si capisce dai commenti, dai social network, e anche dalle dichiarazioni di molti politici e dagli articoli di tanti giornalisti. Non ne conosce la struttura – si parla ancora di istituti e di facoltà e persino di assistenti universitari che non esistono più da quarant’anni – né la organizzazione – si parla di ricercatori e in quello intendendo tutto, dal dottorando, all’assegnista, al postdoc internazionale, al ricercatore di “tipo A” o di “tipo B”, ecc. La confusione è tanta e il rincorrersi e accavallarsi delle norme sugli accessi e sulla docenza non aiutano.

Circolano idee confuse sulla didattica, e sulla stessa struttura dell’insegnamento, e quindi anche sui diritti e sui doveri degli studenti e dei docenti. Poco o nulla si sa della amministrazione e della organizzazione del lavoro del personale tecnico e amministrativo. Le notizie sugli stipendi dei professori e dei ricercatori e sulla struttura del lavoro universitario dal reclutamento alla pensione sono contraddittorie. Pagati poco, pagati troppo, poche tutele, troppi privilegi. Molti luoghi comuni alimentati a volte dall’ignoranza, a volte dai preconcetti, a volte dalla malizia.

E infatti sarebbe utile, prima ancora di chiedere agli studenti una opinione sui corsi, spiegare loro come è organizzata l’università. Non solo che cosa sono il 3+2, gli esami, o la laurea – queste cose le sanno – ma proprio come funziona l’università.

Diciamo agli studenti quante ore insegniamo e in quanti corsi, quante ore servono per il loro ricevimento e per la loro valutazione (esami, tesi, ecc.) e quante per preparare le lezioni e quanto tempo va nella ordinaria burocrazia, perché serve un Consiglio di dipartimento per certe decisioni, e un Consiglio di corso di studio o un Collegio di dottorato per altre. Che cosa fanno rettore, Senato accademico e Consiglio di amministrazione.

Mostriamo agli studenti le forchette degli stipendi del personale, dal dipendente di categoria C al professore ordinario a fine carriera (non “lordo ente”, “lordo percipiente” ma il netto mensile, quello che finisce nel conto corrente, ecc.). Lasciamo che siano le studentesse e gli studenti a giudicare con la loro testa se sono stipendi alti o bassi. Lasciamo che li confrontino con quelli dei loro genitori. Spieghiamo la differenza tra un dottorando e un assegnista di ricerca e qual è l’importo delle borse e cosa è garantito e cosa no e come ci si procura i finanziamenti per fare ricerca.

Spieghiamo loro – con l’invito a raccontarlo a casa ai propri genitori – che le tasse che loro pagano contribuiscono per circa il 20 per cento del costo globale della università e che il resto è finanziato dai “tax payer” anche da quelli che non mandano figli all’università, anche da quelli che guadagnano poco. Chi paga le tasse garantisce, suo malgrado, l’università anche ai figli di chi le tasse le evade.

Raccontiamo loro come si “entra all’università” – e quanto tempo e quanta passione e quanta determinazione è richiesta. Spieghiamo come si passa da un gradino all’altro della carriera (concorsi e abilitazioni) al di là delle cronache dei giornali. Nel fare questo ricordiamo loro che l’Università non è solo malversazione e mal costume come può sembrare dai quotidiani e dai social. L’università dei capaci e meritevoli non va sui giornali, ma è in aula e nei laboratori tutti i giorni.

Se qualcuno sta pensando «tempo sprecato, tanto non gliene importa nulla», si sbaglia. Chi ha provato a farlo è rimasto sorpreso. Gli studenti sono curiosi. Provare per credere. La proposta è anche una provocazione. Tra le tante lezioni, perché non dedicare un’ora, anche una ora sola, per parlare di università con gli studenti ?

Cominciamo noi docenti a trattare gli studenti come componenti della comunità accademica e non come clienti. Avremo allargato l’area di conoscenza del “pianeta università” e li avremo anche messi nella condizione di comprendere meglio il lavoro dei loro docenti.