A Siena, sindaco e rettore appesi a un filo

Domanda d’obbligo: chi si dimetterà per primo, il Sindaco di Siena o il rettore dell’università? Di sicuro c’è che saranno preceduti da chi ha i giorni contati: la Dottoressa Ines Fabbro, direttore amministrativo dell’ateneo. In Comune, il conto consuntivo per l’anno 2011 è stato bocciato. All’università è stato approvato con tredici voti contro sette (tre astenuti e 4 contrari) e, ancora una volta, con il parere non favorevole dei Revisori dei conti, Gabriele Lorini, Serenella Lucà e Antonio Nazaro. Dal verbale del collegio sindacale – di cui si riportano i passi più significativi – emerge conferma di quel che su questo blog abbiamo sempre denunciato: l’irregolarità del cumulo dell’assegno pensionistico con il corrispettivo del contratto stipulato con i docenti in quiescenza anticipata. Chi pagherà per il danno erariale?

Revisori dei conti. «Pur permanendo una situazione di squilibrio strutturale, si evidenzia una riduzione del disavanzo di parte corrente dell’anno 2011 derivante, tra l’altro, dall’attivazione di misure di pensionamento anticipato del personale docente e di mobilità territoriale per il personale tecnico amministrativo. Si dà atto che l’esito del pensionamento anticipato consegue alla sostituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con conferimento di incarichi di insegnamento. Al riguardo si esprimono perplessità sulla misura adottata in quanto, in caso di vacanza del posto, si ritiene che debbano essere applicate, per quanto compatibili, le ordinarie procedure di reclutamento dei dipendenti pubblici. Si evidenzia inoltre che non sono indicati i riferimenti normativi che consentirebbero il cumulo, sulla stessa posizione funzionale, dell’assegno pensionistico con il corrispettivo pattuito per la prestazione contrattuale. Il disavanzo di amministrazione pari ad € 43.621.197,94 risulta incrementato rispetto a quello dell’esercizio precedente che è pari ad € 37.798.498,73. Il Collegio rileva (…) il permanere del disavanzo di competenza e di amministrazione. Con riferimento alla norma di cui all’art. 3 del d.lgs n. 199/2011 si dà atto che quest’organo non può procedere agli adempimenti previsti in quanto non è stata ancora adottata la normativa regolamentare di applicazione. Per tutto quanto sopra esposto, il Collegio, pur considerando le riduzioni di talune voci di spesa, esprime parere non favorevole sul Conto consuntivo per l’anno 2011.»

Dopo i baroni i bari: nell’Università le grandi manovre per le classifiche delle riviste

Il ranking è una cura peggiore del male (dal Corriere della Sera 26 aprile 2012)

Sebastiano Maffettone. Scegliere vuol dire prima confrontare e poi decidere. Per confrontare, può essere una buona idea adoperare guide che pubblichino elenchi in cui sono listati meriti e demeriti di un prodotto comparandoli con altri prodotti dello stesso genere. L’italiano medio tiene in buona considerazione il modello di automobile che compera e la qualità del vino che beve. Proprio perciò, prima di scegliere un’automobile o una bottiglia di vino, spesso e volentieri fa ricorso a giornali specializzati in questi settori. Di solito, in casi del genere, i giornali presentano classifiche – come quelle del calcio di serie A – in cui i vari prodotti vengono elencati dando maggiore punteggio a quelli che sembrano avere più merito e minore punteggio a quelli che ne hanno meno.

È possibile e giusto adoperare la stessa metodologia per valutare comparativamente la produzione scientifica degli studiosi di lingua e letteratura italiana? Questa era la inquietante domanda che Paolo Di Stefano ha sottoposto ai lettori del «Corriere della Sera» nel suo articolo del 23 aprile. La domanda in questione appare inquietante perché l’Anvur – l’Agenzia universitaria nazionale – sembra pretendere di volere mettere in classifica con simili strumentari i ricercatori e i dipartimenti non solo di italianistica ma anche di studi umanistici, filologia, filosofia, storia, sociologia e via di seguito. Di Stefano fa giustamente le pulci a una specifica classificazione di riviste, quelle di italianistica, svelando alla luce dei risultati ottenuti incongruenze e debolezze del sistema prescelto. Dato per scontato che quanto lui sostiene sia pieno di buon senso, vengono alla maggior parte degli studiosi anche di altri settori ragionevolissimi e più generali dubbi sul senso di queste misure comparative. Perché quanto detto per l’italianistica vale anche per molte altre discipline, a cominciare dalla mia, «filosofia politica». In quest’ultimo caso, i due autorevoli colleghi che rappresentavano la nostra disciplina nella commissione Anvur per le riviste avevano finito con il valutare – in maniera difficilmente condivisibile – di prima fascia solo due riviste del settore, trascurandone altre pure assai meritevoli: i più maliziosi hanno fatto notare che due colleghi nella commissione erano anche nella direzione delle due riviste prescelte.

Tutto ciò non fa bene all’università. Le evidenti incongruenze statistiche e sostanziali del metodo prescelto finiscono per creare disagio e scetticismo diffusi presso gli studiosi più seri. Alcuni di questi asseriscono che, tuttavia, talvolta bisogna oggettivare e classificare i risultati della ricerca perché quanto fatto finora – prima delle introduzione della classifiche – non ha portato l’università italiana a ottenere risultati esaltanti. Mi permetto di rivolgere a chi pensa in questo modo un’obiezione generale ma semplice. Innanzitutto, l’università italiana non è sempre così male come qualcuno suggerisce. In secondo luogo, non si deve dimenticare che per rimediare a un male si può crearne uno ancora peggiore. Perché – ci si chiederà – il metodo dei ranking potrebbe essere una terapia peggiore del male? A mio avviso, perché sposta l’enfasi e l’interesse dallo studio a queste classifiche spesso incomprensibili. Andando avanti così, finiremo con il creare una prossima generazione di studiosi abili a far entrare nel più breve tempo possibile in classifica loro stessi e i loro dipartimenti, ma magari scarsamente appassionati alla ricerca. E il rimedio ai disagi attuali? Non so rispondere, ma posso solo dire che da un po’ di tempo in università si parla solo di numeri, cifre, indici e statistiche. E quasi mai di libri, idee, proposte. Io vorrei solo rovesciare un po’ questo trend. Studiare e pensare non fanno parte del «cv standard» e non entrano in classifica. Ma guarda caso le decine e decine di studiosi di razza che ho avuto la fortuna di conoscere nella mia vita accademica, quegli stessi che hanno fatto grandi le maggiori università del mondo, non facevano altro.

Lo volete capire che l’università di Siena non è una fabbrica di cavallucci e panpepati?

Rabbi Jaqov Jizchaq. Aderendo allo sciopero sulla sospensione dell’erogazione del trattamento economico accessorio al personale tecnico e amministrativo dell’Università di Siena, Elisa Meloni, segretario provinciale del Pd senese, scrive: «sosteniamo con convinzione il lavoro del Comune e della Provincia per tenere alta l’attenzione sul risanamento dell’Università…». Sì, ma Maremma maiala, lo volete dire alla fine cosa intendete per “risanamento” dell’università? Cosa volete fare? Perché non muovete il culo, a livello politico, almeno laddove contate qualche cosa, ossia a livello cittadino e regionale? Perché dovete essere succubi a baronie che facendo scompisciare la buonanima di mio nonno anarco-socialista ottocentesco, hanno l’improntitudine di proclamarsi addirittura di sinistra? Perché non la piantate con la lista dei nauseanti luoghi comuni? Basta con le manfrine, coi discorsi di circostanza, con le frasi fatte e i proclami vuoti. L’università di Siena non esce dal pantano in cui si è cacciata con la sciatta demagogia populista e i minuetti: che cacchio volete fare? È lecito chiederlo? Questo del “risanamento” sta diventando un mantra, una frase ripetuta ossessivamente che cela un sostanziale navigare a vista, una coltre di spessa retorica per bischeri che giustifica ogni sorta di scelleratezza, senza che nessuno, in concreto, dica cosa esattamente vuol fare, a parte ridurre stipendi e personale, smantellare ricerca e didattica e naturalmente non toccare gli interessi costituiti: ma qual è la prospettiva, da un punto di vista scientifico, di quella che è una delle istituzioni accademiche più antiche del mondo, che non è dunque una fabbrica di cavallucci e pampepati? Quali osterie bisogna frequentare per averne contezza?

Università di Siena: in sciopero con il sordo

24 aprile UNI(TI)SI SCIOPERA

RSU d’Ateneo, Cisal, Cisapuni, Cisl, Flc-Cgil, Ugl-Intesa, Uil-Rua, Usb P.I. Non può che suscitare costernazione la nota inviata dal Rettore venerdì scorso. Ci si domanda quale intento avesse, il Magnifico, nel comunicarci per l’ennesima volta le stesse spiegazioni vuote sulla sospensione del trattamento economico accessorio, TEA. In sei punti è spiegato ciò che abbiamo già sentito innumerevoli volte: la giustificazione di una scelta scellerata che non ha alcuna logica. La sospensione non è caduta come un meteorite addosso all’Ateneo, è stata decisa e messa in pratica unilateralmente dalla Direttrice Amministrativa di concerto con il Rettore. La sospensione illegittima è stata comunicata per mail a tutto il personale senza minimamente riflettere su ciò che avrebbe provocato. Rispondiamo punto per punto alla nota:

1. La voce è stata indicata in bilancio perché è obbligatorio indicarla, come lo è erogare il TEA. Non è stato un atto di generosità, o di considerazione nei confronti del personale tecnico e amministrativo, inserire la voce in bilancio ma un atto dovuto per legge. Il vero atto che denota la considerazione che Direttrice Amministrativa e Rettore hanno del personale tecnico e amministrativo è la sospensione!

2. La certificazione dei fondi 2009-2010 non è di difficile interpretazione. I verbali sono stati resi pubblici e molti li hanno letti. Questa questione poi non va confusa con la sospensione del TEA del gennaio 2011. Infatti la favola della certificazione fantasma è del luglio 2011, sette mesi dopo la sospensione! Si decida poi cosa si vuole sostenere, la certificazione è assente o lacunosa? «Non è stato possibile attivare la contrattazione per l’anno 2011 e per l’anno 2012 a causa dell’assenza della certificazione della compatibilità economico-finanziaria dei fondi relativi al biennio precedente. Le certificazioni precedenti, 2009 e 2010, risultano infatti lacunose o di incerta interpretazione.»

3. Mef, Aran e Dipartimento della funzione pubblica sono stati interpellati ma dopo la sospensione che peraltro nessuna di queste tre istituzioni ha consigliato, anzi sono in palese difficoltà nel rispondere. la questione è stata così ingarbugliata dalla nostra Amministrazione che rischia di creare problemi in tutte le Pubbliche Amministrazioni. Avallare il concetto di sospensione di una voce fondamentale della retribuzione del personale di una P.A. se fosse avallato dal MEF genererebbe uno tsunami nel resto d’Italia, quanti dirigenti con Amministrazioni in difficoltà vorrebbero fare come la nostra Direttrice Amministrativa.

4. Nessuno ha mai chiesto di prescindere dagli errori fatti nel passato, cioè dal 2000 al 2009 evidenziati dall’ispezione del MEF. Anzi la RSU e le OO.SS. hanno proposto di erogare i fondi 2010 e 2011 costituiti correttamente e poi quando arriverà un accertamento della maggiore spesa precedente discutere se e come vada recuperata. Infatti, la maggiore erogazione, peraltro basata su di un errore fatto unicamente dall’Amministrazione, non è accertata da nessun organo di controllo, a oggi. Ciò che è grave è che sulla base di un qualcosa di non certo si sia già fatto un taglio certo sul fondo del TEA in bilancio. La somma che la Direttrice Amministrativa toglie dal fondo come recupero su quanto maggiormente erogato in passato è illegittima e basata su conti non definitivi. Va chiarito infine che non un euro in più è stato erogato al personale perché tutto ciò che abbiamo avuto era previsto dai contratti collettivi integrativi. Le somme di cui si parla per semplicità come somme in più sono determinate all’origine al momento della costituzione del fondo dall’Amministrazione.

5. Le somme in bilancio ci sono, però decurtate, per cui generano già una minore spesa e incidono meno sul rapporto fra entrate e uscite. Va poi scritto che se le somme si mettono ma non si spendono queste non incidono sul disavanzo strutturale annuale dell’Ateneo. Se spendo 140 per il personale e non spendo i 3 milioni lordo datore di lavoro per il TEA, sono tre milioni in meno che escono sulla voce personale. Il problema poi non è di bilancio ma di liquidità. La difficoltà di liquidità genera forti problemi nel pagare tutte le spettanze e tre milioni in meno fanno gola.

6. Lo stallo venutosi a creare è unicamente dovuto all’illegittima decisione assunta 15 mesi fa. La soluzione l’abbiamo proposta più volte, ma ogni volta si è cercato di tirare fuori dal cappello un nuovo problema per rimandare la soluzione. Come quello della certificazione assente e lacunosa (?) del 2009 e 2010 che a luglio 2011 è servita a prendere tempo. Noi proponiamo di riprendere ad erogare il TEA. In 15 mesi non avete ottenuto o dato risposte a nessuno, avete fatto aumentare il contenzioso davanti al giudice del lavoro in modo esponenziale e avete portato il personale tecnico e amministrativo, insieme ai Cel e agli studenti allo sciopero. Complimenti avete dimostrato di saper gestire al meglio una Pubblica Amministrazione! Il periodo di sospensione imposto da Rettore e Direttrice Amministrativa deve finire e il 24 aprile è un buon giorno per cominciare un nuovo periodo.

Per i sindacati il rettore dell’ateneo senese è un fantoccio?

Di seguito le dichiarazioni dei sindacati universitari rilasciate nel corso di una conferenza stampa e riportate dalla stampa cittadina.

Sindacati dell’università di Siena. Questa situazione – la sospensione dell’erogazione del Trattamento Economico Accessorio (TEA) al personale tecnico e amministrativo – è stata prodotta da una libera interpretazione di Ines Fabbro, Direttore amministrativo dell’Università di Siena, delle norme vigenti. Il Direttore sfrutta l’inesperienza del rettore per compiere errori su errori. È possibile che Fabbro contesti le nostre posizioni, contravvenendo agli obblighi normativi, ma la cosa strana è che non prenda in considerazione neppure i giudici. Vedi le sentenze a favore dei Cel. Il rettore deve riprendere, anzi deve assumere per la prima volta il timone politico dell’ateneo, perché si cambi finalmente rotta. Contano gli aspetti tecnici e contabili, che servono per farci tornare in pareggio, ma contano altrettanto le relazioni sindacali e il clima interno all’ateneo. Oggi i lavoratori sono esasperati e non sarà possibile in queste condizioni garantire nel tempo quella qualità a cui l’ateneo tende e che merita. La qualità si ottiene mettendo i lavoratori nelle condizioni di rendere al massimo, affinché almeno i loro diritti siano garantiti, non si ottiene non pagando le notti e gli straordinari, come per esempio ai dipendenti della Certosa di Pontignano, o non riconoscendo il rischio chimico e radiologico ai ricercatori. A chi manda avanti tutto il sistema si chiedono solo sacrifici e senza alcun preavviso, senza contrattazione. Prendete ad esempio gli asili nido: sono stati negati all’improvviso i contributi, con la promessa che con quei fondi si sarebbe costruito un asilo a San Francesco. È una maniera di procedere stucchevole, tanto inaccettabile che lascia solo amarezza fra i dipendenti. Da sette mesi non si riunisce più il tavolo interistituzionale eppure il sindaco ci aveva promesso che durante il suo mandato il monitoraggio sul percorso di risanamento dell’università sarebbe stato costante. E invece le nostre istanze sono state snobbate da tutti. Ci auguriamo che il sindaco e il presidente della Provincia abbiano pensato di venire martedì mattina a portare la loro solidarietà ai lavoratori dell’ateneo; dopo tutto, in piazza con i lavoratori del Monte ci sono andati.

Il trattamento economico accessorio dei dipendenti dell’università di Siena: una storia infinita?!

Dopo gli schiaffi telematici, l’interrogazione parlamentare e la proclamazione dello sciopero (24 aprile p.v.) dei dipendenti dell’università di Siena, interviene il rettore per rendere nota la posizione dell’Amministrazione.

Angelo Riccaboni. La sospensione dell’erogazione del Trattamento Economico Accessorio (TEA) al personale tecnico e amministrativo costituisce un tema giustamente molto sentito, anche in relazione all’impatto della crisi generale su livelli retributivi troppo spesso inadeguati. Considerata l’importanza dell’argomento, mi sembra opportuno rendere nota alla nostra comunità la posizione assunta dall’Amministrazione.

1. Come più volte ribadito, l’Amministrazione considera il TEA una componente della retribuzione del personale, tanto che tale voce è stata indicata fra gli oneri dei bilanci preventivi 2011 e 2012 e del bilancio consuntivo 2011. Poter erogare la parte retributiva in oggetto sarebbe, secondo il Consiglio di amministrazione e l’Amministrazione, un ulteriore segnale positivo per l’Ateneo, anche per riconoscere il contributo del personale al miglioramento dei risultati annuali di competenza.

2. Non è stato possibile attivare la contrattazione per l’anno 2011 e per l’anno 2012 a causa dell’assenza della certificazione della compatibilità economico-finanziaria dei fondi relativi al biennio precedente. Le certificazioni pregresse, 2009 e 2010, risultano infatti lacunose o di incerta interpretazione. Questa sospensione impedisce, peraltro, anche di erogare qualsiasi tipo di indennità, pur se prevista da norme superiori.

3. Malgrado le ripetute richieste, durante il 2011 non è stato possibile ricevere dal MEF, dall’ARAN o dal Dipartimento della funzione pubblica un’interpretazione univoca della nozione di compatibilità economico-finanziaria.

4. Per quanto riguarda l’ammontare del trattamento da erogare, non è possibile prescindere dal fatto che, a causa di errori nella determinazione del Fondo e di esborsi eccedenti la capienza del Fondo stesso compiuti negli anni fra il 2000 e il 2009, delle somme di denaro siano state indebitamente erogate al personale. L’entità di tali somme venne inizialmente definita come esito di un’indagine ispettiva dell’Ispettorato Generale di Finanza del MEF, tenutasi nel 2010, nei confronti della quale l’Amministrazione ha presentato le sue controdeduzioni. L’IGOP del MEF sta in questo momento esaminando tutti quanti i conteggi. Tale Ispettorato, infatti, da alcune settimane sta attivamente lavorando per definire la somma erogata indebitamente e per risolvere i dubbi in merito alle modalità di recupero.

5. La sospensione nell’erogazione del TEA non deriva certamente da problemi di natura finanziaria dell’Ateneo. Sarebbe errato, altresí, ritenere che il miglioramento dei risultati annuali di competenza che si manifesta dal 2011 discenda dalla mancata corresponsione del TEA, in quanto tali oneri sono stati computati nei bilanci dell’Ateneo indipendentemente dal loro effettivo pagamento.

6. In parallelo, gli organi preposti al controllo della spesa pubblica sono costantemente aggiornati dell’evoluzione della vicenda; spetterà a loro, infatti, accertare eventuali responsabilità e sanzioni.

In sintesi, la sospensione del TEA non dipende da una mancata volontà dell’Ateneo né da questioni finanziarie, ma da ostacoli di natura tecnica e giuridica che hanno a che fare con questioni relative alla certificazione dei fondi per gli anni 2009 e 2010. Nei primi mesi del 2012 si era così venuta a creare una impasse che appariva non facile da risolvere. Assieme al Direttore amministrativo, consci dell’importanza dell’argomento per l’Ateneo e per i nostri colleghi del PTA, abbiamo sempre posto su di esso particolare attenzione, sollecitando e promuovendo incontri con esperti e rappresentanti di istituzioni. Nelle ultime settimane il MIUR e il MEF hanno evidenziato un chiaro impegno per risolvere i dubbi interpretativi inerenti alle questioni in oggetto. Come conseguenza, sono stati richiesti all’Amministrazione molteplici dati e documenti, con la rassicurazione, da parte del Ministero, che verranno fornite quanto prima le indicazioni necessarie a superare lo stallo venutosi a creare, in modo da poter riprendere immediatamente la contrattazione. Sperando di esser riuscito, almeno in parte, a fare chiarezza su un argomento tanto delicato e complesso, colgo l’occasione per formulare i piú cordiali saluti.

Didattica nell’Università: necessari meccanismi di controllo certi e trasparenti e sanzioni per i docenti assenteisti

Università, cambiare i criteri di valutazione dei professori (l’Unità 19 aprile 2012)

Stefano Semplici. Un gruppo di studenti di Filosofia dell’università di Tor Vergata ha lanciato nei giorni scorsi un «appello per la qualità dello studio» (mondodomani. org/filosofiatorvergata). Sono entrati in questo modo nel dibattito sui criteri di «valutazione» dell’attività dei loro professori con due richieste che davvero meriterebbero di essere ascoltate e che sono peraltro fra loro collegate. Gli studenti sottolineano l’esigenza di arrivare a un chiarimento definitivo sugli obblighi didattici dei docenti e sulle conseguenze del loro mancato rispetto. Hanno trovato – nei questionari che devono compilare per accedere alla procedura di prenotazione per gli esami – una domanda con la quale si chiede loro di dire se il professore ha tenuto «personalmente» le sue lezioni, fissando contemporaneamente al 75% l’asticella dell’eccellenza e prevedendo addirittura che la risposta possa essere «quasi mai o saltuariamente» (fino al 25%). Giustamente considerano «semplicemente scandaloso» il solo pensiero che questa ipotesi corrisponda al comportamento effettivo di alcuni docenti e contestano l’autorizzazione implicita a saltare una lezione su quattro, magari facendosi sostituire da qualche collaboratore. È francamente auspicabile – di fronte al clima di sospetto e denigrazione che si continua così ad alimentare – che sia una volta per tutte lo stesso ministro a garantire, come chiedono gli studenti, che vengano introdotti meccanismi di controllo certi e trasparenti, indicando preventivamente e senza stratagemmi o equivoci quante sono le ore di lezione che un professore è tenuto a fare e quali sono le sanzioni per gli assenteisti.

L’università è notoriamente un luogo di lavoro nel quale le rendite di posizione, il precariato e lo sfruttamento delle asimmetrie di potere generano effetti perversi. La politica e il governo dei tecnici (molti dei quali sono professori…) vogliono o no mettere fine a questa triste situazione? L’appello degli studenti di Tor Vergata non parla semplicemente di disciplina e di presenze. Pone, proprio in questo modo, un problema serio e profondo di prospettiva. Ci interroga su quale sia l’università che vogliamo e chiede di introdurre subito correttivi ai criteri di valutazione che, con molta confusione e ingente investimento di risorse, si stanno introducendo in questi mesi. II valore dell’attività didattica è di fatto azzerato, nascondendosi dietro il pretesto della difficile misurabilità della sua qualità e traducendo poi questa premessa nella legittimazione della più ampia discrezionalità anche rispetto alla sua quantità. Sta passando il messaggio che ogni ora trascorsa con gli studenti per insegnare, discutere i loro lavori, aiutarli a capire e fare di più è un’ora persa, che non incrementerà in nessun modo i «punteggi» dai quali dipendono avanzamenti di carriera e assegnazione di risorse. Mentre nessun punteggio dovrebbe valere per chi si ostina a considerare la cattedra un privilegio anziché una passione e un dovere. È inutile che si dica che nessuno lo pensa e lo vuole. Questo è quello che accade e accadrà, se saranno solo le pubblicazioni a decidere chi vince e chi perde, chi vive e chi muore nella comunità del sapere divenuta mercato. Ringrazio questi giovani, che ci ricordano che «così come non può esistere didattica senza ricerca, nessun professore può essere considerato tale se insegna poco o male». Signor ministro e magnifici rettori, ce la facciamo a non deluderli?

Corsi in inglese nelle università e mortificazione della sovranità culturale italiana

Se l’Università rinuncia all’italiano (la Repubblica 17 aprile 2012)

Raffaele Simone. È ufficiale: dal 2014 i corsi specialistici e dottorali del Politecnico di Milano si terranno solo in inglese. La misura punta ad attirare studenti e professori stranieri di qualità. Del resto, in vari atenei italiani si progettano da tempo corsi in inglese, col convinto sostegno del ministro Profumo a cui questa sembra la giusta via per l’obiettivo indicato col tremendo termine di “internazionalizzazione”. La linea del Politecnico promette di esser condivisa da altre università, anche perché il programma di internazionalizzazione conta su finanziamenti speciali, non disprezzabili in un’epoca di vacche magrissime. Ma che cosa pensarne? In generale, a una risorsa sovrana (come la moneta o la lingua) si rinuncia quando ha perduto valore o non ne ha mai avuto. È per questo che in Argentina negli anni Ottanta e Novanta il peso fu a lungo affiancato dal dollaro come mezzo di pagamento (il processo si chiamò “dollarizzazione”) e la contabilità nazionale fu redatta nelle due divise. Analogamente, in alcuni paesi dotati di lingue “rare” (come l’Olanda o i paesi scandinavi), lo studente universitario può trovare in aula, senza preavviso, un professore che insegna in inglese. Ma in un’università francese, spagnola o tedesca è difficile, e comunque rarissimo, che i corsi si tengono in una lingua diversa da quella del posto, soprattutto se i destinatari sono tutti o quasi tutti nativi. Questa differenza rinvia a un dato cruciale: tendono a cedere il passo le lingue (come le monete) di scarsa circolazione e di debole tradizione; tengono duro quelle che si chiamano “lingue di cultura”, cioè associate a una lunga storia, una grande tradizione culturale, una vasta reputazione internazionale e (last but not least) una forte “fedeltà” da parte del loro popolo. Che francese e spagnolo appartengano a questa categoria, non c’è alcun dubbio. Basta pensare alla tenacia con cui hanno frenato l’anglicizzazione della terminologia del computer (ordinateur nella prima lingua, computadora nella seconda). Anche il tedesco, a dispetto della sua fama (non vera) di lingua impervia, è usato senza limitazioni nelle università della Germania. Gli stranieri che vogliono studiare in quei paesi ne imparano prima la lingua, anche profittando delle loro efficienti reti di servizi culturali all’estero.

L’Italia è come al solito una curiosa eccezione. Già da tempo i sociolinguisti avevano segnalato la fiacca “fedeltà” (in gergo inglese, loyalty) degli italiani (il popolo come i potenti, la gente come le istituzioni) verso la propria lingua, che pure è indiscutibilmente una “lingua di cultura”. Pur non disponendo di una reale conoscenza di lingue straniere (lo mostra ad abbondanza il ceto politico, amministrativo, professionale, intellettuale e anche accademico), i nostri mollano senza indugio se ritengono che l’ammiccamento inglese faccia fino. Gli esempi si sprecano. La togatissima Galleria Borghese, impassibile alle proteste, inalbera da anni un truce cartello che indica la ticketteria; e non più tardi dell’altro giorno ho visto nel caffè del Maxxi di Roma un avviso che dice (letteralmente): “Maxxi21eat – Ristorante-Happy hour-Aperto-È gradita la reservation”. Spiritosaggini fuori posto? Puro cretinismo? Forse anche questo, ma è soprattutto il penoso provincialismo di chi, senza saper niente di lingue straniere (e poco della propria), vuole sembrare up to date, in, cool. Immaginate quindi cosa potrebbe accadere quando un professore italiano entra in aula e si mette a far lezione in inglese dinanzi a ragazzi quasi tutti italiani (nel Politecnico milanese gli stranieri sono il 17%)! Teatro dell’assurdo? Straniamento brechtiano? Tre uomini a zonzo o Achille Campanile? E di quali studenti stranieri si tratterà poi? Certo non di statunitensi, tedeschi, inglesi e francesi; saranno cinesi, rumeni, bielorussi, ucraini, cioè persone per cui la conoscenza dell’italiano potrebbe essere una risorsa essenziale. Vale la pena di mortificare la sovranità culturale italiana in questo modo? Si potrebbero immaginare risposte di più vasto respiro. Siccome l’italiano, a dispetto dei leghisti, è una grande lingua di cultura, molto ricercata all’estero e ancora mal nota agli italiani stessi, si potrebbe dare un poderoso impulso alla traballante rete dei corsi di italiano negli istituti di cultura, col sostegno di un marketing intelligente e di finanziamenti opportuni, creando simultaneamente negli atenei italiani stazioni dedicate dove gli stranieri possano imparare in poco tempo i fondamentali della nostra lingua. In questo modo, invece di chiedere ai nostri studenti di digerire vacillanti pronunce inglesi, si incrementerebbe il numero degli stranieri colti che conoscono l’italiano. Ciò potrebbe avere uno straordinario effetto moltiplicatore, dato che la conoscenza di una lingua induce una varietà di desideri e aspirazioni, da quelle sentimentali (che favoriscono la pace) a quelle professionali e economiche (favoriscono la crescita). E irrobustisce anche, indirettamente, la gracile “fedeltà” dei nativi.

L’università di Siena ha fatto scuola

L’ateneo perde colpi, ma tengono banco proroghe e candidati (dal Giornale dell’Umbria, 24 marzo 2012)

Alessandro Campi. Ho letto ieri sul Giornale dell’Umbria, per la firma dell’ottima Marcella Calzolai, l’ultima puntata della novella intitolata “Proroga sì, proroga no”, che ha per protagonista il Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Perugia. E mi chiedo come un semplice lettore, un cittadino, o un docente di questo medesimo ateneo (quale il sottoscritto) possa appassionarsi a questa vicenda, che va avanti da mesi attraverso continui colpi di scena, rivelazioni a denti stretti e interviste sulla stampa, annunci o minacce di ricorsi, accuse incrociate e ipotesi di candidature che vanno e vengono.
Intendiamoci, che Francesco Bistoni rimanga ancora per un anno alla guida dello Studium, oltre la scadenza naturale del suo mandato, e ciò grazie ad un inghippo legislativo, fa una qualche differenza: per il diretto interessato, ovviamente, che potrà continuare a fregiarsi dell’impegnativo titolo e a ragionare con più tempo a disposizione sul da farsi in vista del suo futuro, ma soprattutto per chi rischia, per ragioni anagrafiche, di restare tagliato fuori dalla corsa alla successione.
Ed è certo interessante sapere quali complesse manovre si stanno ordendo, dentro e fuori i corridoi di Palazzo Murena, in vista di elezioni che ancora nessuno ha ben capito quando si terranno.
Ma l’impressione, viste le condizioni generali dell’università perugina, è che tutto questo agitarsi intorno al nome del prossimo rettore (per inciso, sempre le stesse facce e gli stessi nomi), tutto questo balletto di carte, circolari, rumors e riunioni infuocate (ufficiali e riservate), di cui si legge spesso sulla stampa, sia solo un modo per sfuggire al problema centrale. Che a costo d’apparire irriguardosi o grossolani può ridursi a ciò: un ateneo un tempo glorioso e onusto di storia, s’è ridotto col passare degli anni, ad una condizione che non si fatica a definire critica e decadente.

La sua immagine, rispetto anche al passato recente, s’è deteriorata, come del resto quella della città che l’ospita. Il numero degli iscritti è diminuito di alcune migliaia negli ultimi anni, come s’è ridotto il numero dei frequentanti i corsi, facendo così venir meno il mito di Perugia “città degli studenti”.
Il suo corpo docente – basta leggere i cognomi di coloro che lo compongono – è ormai nella quasi totalità umbro, senza più ricambi o innesti dall’esterno, che possano portare idee ed energie nuove. Quelle che erano le sue eccellenze, specie nel campo umanistico, tali non sono più. I suoi bilanci sono perennemente in rosso (ma questa, in verità, è condizione comune agli altri atenei nazionali). L’offerta didattica è al tempo stesso sovrabbondante, disordinata, dispersa e modesta (per quanto finalmente in via di riordino), con corsi specialistici che sovente ricalcano (negli insegnamenti e nei docenti) quelli triennali: corsi, inoltre, che non sempre risultano orientati alle necessità del mercato del lavoro.
Sorvoliamo, per decenza, sul nepotismo e sui concorsi dall’esito precostituito (anche questo un male italico). La ricerca langue, per cronica mancanza di fondi. E come conseguenza di tutto ciò si è ridotta l’incidenza dell’università, un tempo considerata la prima industria sul territorio, sulla già asfittica economia locale.
Di questo – e di come uscire da una tale situazione – si dovrebbe parlare in pubblico, di questo dovrebbero preoccuparsi le istituzioni e i politici, e tutti coloro che a vario titolo operano all’interno dell’ateneo, ma a quanto pare si preferisce discutere d’altro.
Appunto della proroga a Bistoni o di chi potrà, prima o poi, prenderne il posto magari col suo appoggio. Ma per fare cosa? Per ufficializzare – di qui a qualche anno – il definitivo declassamento di Perugia a università di serie inferiore, nemmeno più in grado di attirare i giovani umbri entro le sue aule (già oggi i più volenterosi e determinati tra questi ultimi compiono i loro studi fuori regione)?

Si dirà che una simile rappresentazione è ingenerosa e persino errata. Che non tiene conto dei drastici tagli nei trasferimenti finanziari dello Stato e del complesso riordino, organizzativo e scientifico, imposto alle università italiane dalla controversa riforma Gelmini.
Ma proprio perché siamo in una fase, come suole dirsi, di transizione e di profondi cambiamenti – i Dipartimenti prenderanno il posto delle Facoltà, si andrà verso un nuovo modello di governance della struttura accademica, i finanziamenti alla ricerca verranno assegnati sulla base di un complesso sistema di valutazione della medesima su base nazionale, nuovi criteri concorsuali determineranno la selezione dei docenti –, proprio per questa ragione converrebbe dirsi tutta la verità sulle reali condizioni in cui versa l’ateneo di Perugia e avviare un’ampia discussione, franca e pubblica, sul suo futuro. Lo Studium perugino, non foss’altro per i sette secoli che ha alle spalle, possiede grandi potenzialità, non c’è dubbio, ma rispetto a venti-trenta anni fa ha conosciuto – come nasconderlo? – un declino obiettivo, che si registra a pelle e che certo non può essere smentito ricorrendo alle classifiche farlocche che ogni tanto pubblicano i giornali. Basta infatti essere stati studenti a Perugia negli anni Settanta o Ottanta per ricordare la qualità e il prestigio dei docenti che vi impartivano lezione; per ricordare il peso o l’influenza che esso aveva sulla vita civile e culturale cittadina; per ricordare, ancora, la sua capacità di produrre ricerche innovative e di promuovere appuntamenti scientifici di rilievo internazionale; per ricordare, infine, come in città arrivassero, rendendola unica e vivace, studenti da ogni parte d’Italia, spesso destinati a rimanervi con ruoli professionali di prestigio.
Così oggi – semplicemente – non è più. Tutti lo sanno, tutti lo percepiscono, ma si preferisce far finta di nulla o illudersi che le cose stiano diversamente. Ecco, invece di parlare della proroga a Bistoni o dell’eventuale discesa in campo di questo o di quello, forse sarebbe più interessante chiedersi tutti insieme – docenti, politici, opinionisti, cittadini – quale ruolo possa ancora giocare l’Università nel contesto cittadino e regionale, cosa fare per renderla nuovamente attrattiva e all’altezza del suo antico nome, come rivitalizzarla dal punto di vista scientifico e didattico. Insomma, come farla tornare ad essere quel punto di riferimento – civile, culturale, economico e simbolico – e quel vanto agli occhi del mondo che per Perugia e l’Umbria essa è stata nel passato.

Con le proroghe è iniziato lo smantellamento della riforma universitaria

Quelle poltrone eterne nelle università, intervenga Profumo (da: Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2012)

Antonella Arena. Siamo un gruppo di docenti dell’università di Messina. Vogliamo esprimere il nostro accordo con l’articolo pubblicato sul Sole 24 Ore lunedì 2 aprile con il titolo Comma dopo comma la proroga dei rettori diventa eterna. Il servizio ha finalmente posto in luce il grave vulnus al rispetto della legalità e della democrazia che si sta creando in molte università italiane. L’inerzia mostrata dai vertici di parecchi atenei nel recepire le norme della legge 240/10 che riguardano la decadenza e il rinnovo delle cariche accademiche – rettori in primis – appare una strategia mirata unicamente a preservare la propria posizione di potere. Interpretazioni inverosimili sul “momento di adozione dello statuto, di cui ai commi 5 e 6” della legge 240/10, e sui limiti delle proroghe concesse a presidi di facoltà, coordinatori di corsi di laurea e direttori di dipartimento, mortificano i principi stessi di rappresentanza e partecipazione democratica nelle nostre università.

Non bisogna certo essere esperti di diritto amministrativo per intendere che: il comma 9 dell’art. 2 della legge 240/2010 nella parte in cui recita, individua temporalmente il momento dell’adozione nella fase di prima adozione (vedasi commi 5 e 6) del nuovo statuto da parte degli organi accademici. L’aggiunta delle parole “organi monocratici” al primo periodo del comma 9 dell’art. 2 della Legge Gelmini (si veda il Dlg 5/2012, semplificazioni) si riferisce alla decadenza e non certo alla proroga degli stessi. È chiaro che in una legge che prevede il rinnovo di cariche deve essere esplicitato che i mandati vecchi ancora in essere devono decadere al momento del rinnovo se non si vogliono creare sovrapposizioni di cariche accademiche. Le proroghe degli organi monocratici rimangono normate dallo stesso comma 9 che pone precisi limiti recitando «gli organi il cui mandato scade entro il termine di cui al comma 1 restano in carica fino alla costituzione degli stessi ai sensi del nuovo statuto», riferendosi agli organi validamente in carica e non a quelli surrettiziamente prorogati. Vorremmo che il ministro Profumo prendesse una ferma presa di posizione che segni una netta discontinuità rispetto al passato a difesa della legalità e della democrazia nelle università italiane.