Sulle elezioni del rettore di Siena solo parole o uso di strumenti di democrazia?

involuzionedellaspecierettoraleDa tempo, ripeto che «la crisi dell’Università di Siena, cominciata nella seconda metà degli anni ’80, è stata ed è, prima di tutto, crisi culturale e morale che, insieme a una ridotta capacità critica della comunità accademica, sempre più conformista e indifferente, è sfociata nel default economico-finanziario e istituzionale.» Una conferma di ciò s’è avuta anche nel corso della competizione elettorale per l’elezione del rettore, durante la seconda tornata e il giorno successivo alla proclamazione del vincitore. S’è scritto e detto di tutto: che lo Statuto è stato calpestato, che Frati è ineleggibile, che non c’è stata trasparenza, privatizzazione delle elezioni, quorum segreto, interferenze private nel consiglio studentesco, che il prossimo prorettore vicario sarà Verzichelli, destinato nel 2022 a sostituire Frati alla guida dell’Ateneo, ecc.. Può andar bene tutto, ma “sono solo parole” (come dice la canzone). La democrazia ha le sue regole, procedure e formalità che devono essere rispettate. Per esempio, esiste uno strumento democratico, cui i “critici” possono ricorrere (se realmente interessati a farlo), costituito dal 1° comma dell’articolo 7 del Decreto di indizione delle elezioni: «entro cinque giorni dalla proclamazione degli eletti, chiunque sia interessato in ragione della propria appartenenza all’elettorato attivo o passivo può presentare ricorso avverso i risultati delle elezioni, muovendo contestazioni relative alle operazioni di voto, a quelle di scrutinio, alla legittimazione attiva degli elettori e a quella passiva dei candidati e degli eleggibili.» Non solo! Si può fare  anche richiesta di accesso agli atti relativi alla prima e alla seconda votazione!  Capisco che in tal modo ci si espone in prima persona, ma è l’unico modo per ottenere risposte certe e formalmente contestabili.

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il Cittadino online (22 giugno 2016) con lo stesso titolo.

Università di Siena: tra bugiardi e imbroglioni, finti laici e clericali comincia la prima votazione per eleggere il rettore

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University of Sienina: una poltrona (pesante) per tre
(da: Eretico di Siena, 14 giugno 2016)

Raffaele Ascheri. A poche ore dal primo voto di giovedì, come non occuparci dell’elezione a Magnifico Rettore dell’unica istituzione che – nonostante il calo drastico di iscritti – fa affluire nelle tasche dei cittadini congrui finanziamenti (oltre al Turismo, ma lì c’è già la Magnifica Rettrice, l’Assessora al brindisino Sonia Pallai)? Quello che più ci solletica – chi legge il blog con regolarità, bene lo sa – è soprattutto il giuoco politico che c’è dietro ai candidati: di questo, dunque, scriveremo.

Frati, Petraglia, Rossi: chi sarà il vincitore? Che si sappia, sondaggi ufficiali non ce ne sono, dunque staremo a vedere (con chi si schiereranno gli amministrativi, per esempio?); di certo, possiamo dire chi siano i big sponsor dei tre (soprattutto di due su tre). Possiamo soprattutto anticipare, sin da subito, che la continua intromissione della politica senesota in campo universitario ci pare – ancora una volta – deprecabile. Sarà così in ogni dove, ne siamo pressoché certi; ma di Sienina scriviamo, e di ciò ci arrabbiamo.

Il professor Petraglia: ne avevamo già parlato, ma se è lui che continua a sdottorare ai convegni benedetti dai Vescovi, è colpa nostra o sua? Arriveranno a breve commenti che diranno che lui è un campione della laicità, già l’abbiamo visto: e ce ne rallegriamo, davvero. Però è giusto che si sappia che il Nostro è Consigliere della lobby vaticana Scienza & Vita (già l’avevamo sottolineato); mentre ci mancava la ciliegina pre-elettorale: il 27 maggio – roba fresca assai – il Petraglia era a Roma a dare il suo attivo contributo all’incontro organizzato dagli scienziati per la vita (chi non è con loro, è scienziato per la morte?), facendo da apripista ad altri luminari con la lectio magistralis su “Nati da donna: una riflessione a due voci” (una, appunto, era la sua). Per la cronaca, giusto prima di Petraglia aveva parlato Nunzio Galantino, Segretario generale della Cei (Conferenza episcopale italiana).

La politica locale – che ormai il principio di laicità dello Stato non sa neanche cosa sia, e da tempo – è quasi tutta pro-Petraglia: da Pierluigi Piccini, ad Alberto Monaci; dal deputato Dallai a Scaramin Scaramelli (noto esperto di Università, si immagina). A Siena tv, il buon Petraglia – dallo scrivente stimolato – ha difeso con vigore sia l’operato di Luigi Berlinguer che quello del professor Tosi: ci vuole ancora altro, per non votarlo? Il buon Francesco Frati a noi sta sinceramente simpatico, ma è inutile girarci tanto intorno: è espressione di una linea continuistica (con Riccaboni, in modo evidentemente diretto), che incarna in modo plastico; se uno pensa che l’Università senese sia stata bene amministrata negli ultimi sei anni (e il Bilancio 2013?), lo voti subito. A chiocco. Infine abbiamo il professor Rossi; il quale, con quello stile pacato da gentleman old fashioned, ogni tanto ci ha fatto addormentare, ascoltandolo. Ma va detto che, a livello di big sponsor, pare quello messo di gran lunga meglio: proprio per il fatto di non averne, o di averne certo di meno compromessi.

Ad ogni buon conto, vinca il meno peggio; di sicuro, pare apprezzabile ciò che i pentastellati chiedevano, alcuni giorni or sono, ponendo dieci domande ai tre candidati (come faceva Repubblica a Silvione, mentre ora a Renzi non si chiede niente, chissà perché…); in particolare, la domanda numero 8 verteva sull’appartenenza, o meno, di ogni candidato a gruppi di interesse, dalla Massoneria in giù (o in su). Domanda che merita di essere rilanciata, a pieno titolo, e con forza: visto che proprio certe conventicole – visti i risultati – il Bene supremo della civitas pare non l’abbiano fatto…

La rinascita di Siena passa attraverso la cultura condivisa che ha come protagonista principale l’Università

Simonetta Losi

Simonetta Losi

Il dibattito, organizzato da agenziaimpress.it e La Nazione di Siena al Santa Maria della Scala con i tre candidati a rettore dell’Università di Siena, è stato introdotto da uno stimolante intervento di Simonetta Losi integralmente riprodotto di seguito.

Università al bivio. Siena, il futuro rettore è chiamato a riallacciare i rapporti con la città (da: agenziaimpress.it)

Simonetta Losi. È un momento cruciale nella secolare storia dell’Università degli Studi di Siena. Un momento di svolta, dove le decisioni che verranno prese e le strategie che saranno messe in campo determineranno un decisivo rilancio o la permanenza nelle acque limacciose dell’immobilismo, con il rischio di perdere eccellenze e risorse.

Una grossa responsabilità grava sulle spalle di chi sarà chiamato a capo dell’Università nei prossimi sei anni, perché inciderà fortemente sul futuro dell’Ateneo e della Città. Una partita importantissima, in particolare ora che Siena è impoverita dalla perdita della Banca e colpita da una profonda crisi che ha effetti sulle sue principali istituzioni. Attualmente Siena è una città mortificata, che cerca con difficoltà di rimettersi in piedi. Una crisi morale, non solo economica, in cui si avverte un allentamento del contatto fra il tessuto cittadino e l’Università: manca una reale integrazione e un circuito virtuoso che riporti Siena e l’Università in un contatto creativo.

Università di Siena e città di Siena sono un binomio indissolubile che deve risorgere e trovare la forza di potenziarsi. Questo è il senso profondo dell’incontro di stasera: siamo convinti che l’Università può fare moltissimo per la Città e viceversa. Siamo altrettanto convinti che la rinascita di Siena passi attraverso la cultura condivisa che ha come protagonista principale l’Università, che deve mantenere e potenziare le proprie eccellenze e non  deve perdere la propria autonomia politico-amministrativa e culturale. Negli equilibri di potere e di “peso” complessivo delle università toscane, l’indebolimento dell’Ateneo senese può attivare operazioni predatorie esterne.

Cosa può chiedere la Città al futuro Rettore? Di resistere a manovre esterne, di politica universitaria e non solo; di mantenersi strette le eccellenze, valorizzarle e potenziarle; di portare l’Ateneo senese ai vertici del panorama nazionale e internazionale; di riorganizzarsi al proprio interno; di legarsi al tessuto cittadino e fare cultura diffusa coinvolgendo le varie realtà della città; di coltivare culturalmente il tessuto sociale di Siena, per renderlo consapevole delle proprie reali potenzialità; di rompere lo stato d’assedio di una inerzia diffusa con una serie di sortite concrete in grado di attivare effetti a catena virtuosi;  di saper scegliere una classe dirigente illuminata; di operare per fare della cultura, della tecnologia e della scienza una forza economica di sviluppo e di crescita, stabilendo alleanze con le forze sane del territorio.

Lontani dalle vecchie logiche, dalle convenienze particolari. Lontano da quelle strategie che vorrebbero legare in qualche modo il risultato dell’elezione del Rettore alle prossime elezioni amministrative, perpetuando i bizantinismi politici rivolti a un mero equilibrio di poteri. Questo è il momento in cui dobbiamo chiederci: qual è il bene di Siena? Qual è il bene dell’Università?

Queste sono le domande che devono risuonare, direi quasi ossessivamente, in chi è chiamato a dare il proprio voto e in chi lo riceverà. Per honore et utile della città di Siena, come si diceva nel Quattrocento. Per honore et utile della città di Siena e della sua Università.

Chi prefigura un definitivo ridimensionamento dell’ateneo senese si dispone di fatto ad accettarne il ruolo di sede distaccata

Altan-ragionareRabbi Jaqov Jizchaq. Scovo questo editoriale di Gramellini in cui il vicedirettore della Stampa auspica, a proposito delle università del Sud (ma il discorso per estensione vale anche per il Nord): «una drastica riforma universitaria anti-clientelare che spazzi via il pulviscolo delle facoltà che fabbricano disoccupati e concentri ogni risorsa su quattro-cinque atenei, uno per regione, facendone poli di eccellenza.»

A parte che, nel troiaio inguardabile che è scaturito dalle recenti riforme, le Facoltà non esistono più (dura ad entrare nella mente della gente!), oramai è letteralmente un coro di voci che spinge in questa direzione: pochi “hub” regionali e il resto, o chiuso, o sede distaccata (“teaching university”), e mi chiedo perciò a che gioco stia giocando chi – con insopportabile narcisismo magari però reputando sé stesso indispensabile – con la scusa di rilanciare l’ateneo, auspica lo smantellamento o riduzione a rango ancillare e di profilo infimo di ulteriori aree scientifiche, e un ulteriore contrazione della ricerca e dell’offerta formativa.

È infatti evidente che il gongolarsi nella retorica di un piccolo (e dispendioso) ateneo autonomo, contrasta visibilmente con le tendenze di tutta la politica nazionale. Oggi chi (alcuni apertamente e alcuni velatamente) prefigura un definitivo ridimensionamento dell’ateneo, si dispone di fatto ad accettare il ruolo di “provincia dell’Impero”, sede distaccata di potentati accademici siti altrove. È possibile evitare tutto ciò? Dicono di no, perché così vuole il fato. Ma allora, se Dio, la politica regionale, il ministero, i media e le autorità politiche locali perseguono questo obiettivo, cerchino almeno di essere conseguenti. Difatti è più apprezzabile chi dice cosa vuol fare e lo fa, di chi dice una cosa, ma ne fa un’altra. Si intende che è il vostro progetto, non il mio: io, nel mio piccolo, partecipando come utente alla discussione di questo blog, faccio solo opera maieutica per cavarvi di bocca il non detto.

Anzitutto (e non da ora) non è chiaro cosa si intenda farne delle decine di persone condannate all’epurazione perché operanti in quei settori che si è convenuto di abbandonare. Per ora domina l’eufemismo e la purga è chiamata “lassativo”. Quando un genovese muore, dicono che “si è tolto dalle spese”. Volete creare grossi poli regionali in cui le varie materie godano di una massa critica sufficiente a produrre quella ricerca necessaria per far contenta l’ANVUR e per rientrare nei ranking internazionali? Ebbene, fatelo, se avete il potere di farlo.

Ma diteci innanzitutto che cacchio sono le “teaching universities” e chi le paga, se le risorse vengono elargite essenzialmente sul volume dei “prodotti della ricerca” (VQR, SUA…), come si dice oggi, con linguaggio da venditori di saponette. Chi ci si iscriverà? Con quale spirito verranno gestite, se la didattica non conta più assolutamente nulla, né per la carriera dei singoli, né per il finanziamento delle strutture? Come si attua la mobilità? In passato ebbi a scrivere che se è comprensibile la strenua resistenza di chi è ancora vivo, che fa bene a resistere, non si capisce cosa abbia da perdere dall’ipotesi di migrare a cinquanta chilometri (magari essendo residente a Poggibonsi) chi a Siena già è stato ammazzato e non ha speranza alcuna di risurrezione: ma come si fa a non sottolineare che a ciò manca persino il quadro normativo?

È chiaro che i problemi più grossi non sono risolubili in sede locale, dall’impianto normativo ai finanziamenti («Eurostat, Italia maglia nera in Europa per spesa pubblica per l’istruzione: il 4,1% del Pil, peggio della Romania»). Capisco inoltre che una risposta precisa a queste domande sarebbe possibile solo se non fossimo in Italia. Qui, tradizionalmente, la politica è lasciare che tutto imputridisca, sperando che si manifesti poi casualmente un qualche miracoloso potere salvifico delle muffe generate spontaneamente, come una specie di Pennicillina.

P. S. Dimenticavo questa considerazione. Mi par di capire che alcuni sostengono una più raffinata teoria del fritto misto: molte triennali (“teaching university”), dove lavora un esercito sotterraneo di schiavi, che insegnano perché qualcuno evidentemente ha stabilito non essere adatti alla ricerca, affiancate da un paio di esperienze “d’eccellenza”. Ma basterebbe per tenere in piedi un ateneo che voglia dirsi “autonomo” e “generalista”? Può, viceversa, a questi lumi di luna, sussistere un piccolo ateneo rifondato al grido di battaglia “pochi ma bòni” (con conseguenti purghe)? Siccome la risposta a quest’ultima domanda retorica tremo sia inesorabilmente NO, non v’è chi non veda che anche dietro questa teoria c’è implicita (ma non inconscia) l’accettazione del ruolo ancillare e subalterno cui alludevo: i poli “d’eccellenza” sarebbero cioè eccellenze decentrate, un po’ come la FIAT di Melfi, presidio locale di uno “hub” regionale con la testa altrove. Se infatti la didattica deve essere intesa essenzialmente come punizione che non dà premi, il lato B (“teaching university”) di questa ipotesi “ibrida” costituirebbe per gli eroici ricercatori solo una inutile zavorra che ne offuscherebbe la gloria; a meno che, appunto, il tutto non faccia parte di un agglomerato più vasto dove luci e ombre si bilancino.

Soggiungo che non c’è un modo per barcamenarsi. L’ipotesi dei grandi “hub” è come una lavagna dove esistono solo la colonna dei “buoni” e quella dei “cattivi”, non di quelli mezzi e mezzi: niente Limbo e un Purgatorio solo fittizio, perché come già ribadito ad nauseam, i meccanismi premiali e del turnover non fanno che acuire le distanze, funzionando come il mitico Superciuk dei fumetti di Alan Ford, ossia una specie di “Robin Hood al contrario” che arricchisce i già ricchi e impoverisce i già poveri. Il declino non pare pertanto essere reversibile: se in un’area eccellentissima ci sono sette magnifici ricercatori e sei di questi sette Samurai ti vanno in pensione senza poter essere sostituiti, tu perdi anche quelle eccellenze che possiedi. Al settimo Samurai non resta che fare harakiri.

A mio modestissimo avviso tutto questo dovrebbe essere posto in primo piano nella campagna elettorale per il futuro rettore; il mondo politico, locale e nazionale, andrebbe interrogato senza peli sulla lingua per capire dove esattamente si intende portare il sistema universitario, e a che vale il nostro affannarsi.

Io era tra color che son sospesi (Inferno, Canto II).