Per il rettore dell’università di Siena il dissesto si risolve con il kamasutra dell’insolvenza incrociata

GiorgioMelettiSiena perde l’ateneo: i revisori chiedono il commissariamento (il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2013)

Giorgio Meletti. Due righe fulminanti, in linguaggio tecnico ma inequivocabili: il collegio dei revisori dei conti dell’Università di Siena invoca l’immediato commissariamento “prima che la situazione economica, finanziaria e patrimoniale degeneri ulteriormente”. Così si conclude il documento con cui, pochi giorni fa, i tre esperti – Cesare Lamberti, Massimiliano Bardani e Laura Pedron – hanno espresso parere contrario all’approvazione del bilancio preventivo 2013. Per la rossa Siena è una beffa stratosferica: i censori contabili invocano la prima applicazione della riforma Gelmini proprio nell’ateneo governato per lunghi anni da Luigi Berlinguer, padre della riforma che la pupilla di Berlusconi ha sovvertito. Lo stato di dissesto per le Università, infatti, non esisteva prima della Gelmini, e anzi non esiste di fatto neppure adesso: il ministro tecnico Francesco Profumo non ha ancora varato i decreti attuativi che consentirebbero la procedura di dissesto.

Se il rettore di Siena, Angelo Riccaboni, non fosse professore ordinario di economia aziendale si potrebbe sospettare che non abbia capito. Avrà dunque altri motivi per dichiarare, come ha fatto il 5 dicembre scorso inaugurando solennemente l’anno accademico, che “la fase più acuta della crisi è superata”. E per vantarsi, come ha fatto davanti al senato accademico, di una lettera di congratulazioni del ministro dell’Economia Vittorio Grilli per “l’azione di risanamento intrapresa”. Certo, è vero che le cose non vanno più così male come quattro anni fa, quando venne rivelata una voragine da 270 milioni di euro in un ateneo che ha un bilancio inferiore ai 200 milioni l’anno. Ma è anche vero che il 2012 si è chiuso con ulteriori 46 milioni di perdite, e la previsione, forse ottimistica per il 2013 è di un rosso ancora a quota 19 milioni. Adesso metteteci sopra la ciliegina: la strategia dell’economista Riccaboni per risanare l’Università è di non pagare i debiti al Monte dei Paschi. Proprio così, lo notano, con un certo trapelante raccapriccio, i sindaci revisori nella loro relazione tenuta finora accuratamente riservata. E notano anche che meglio sarebbe utilizzare il beneficio conseguente per accelerare il risanamento, anziché, come ha deciso Riccaboni, per fare nuovi investimenti e “far tornare a crescere” il campus senese (perché a Siena la mania di grandezza è dura a morire).

E così il cerchio si chiude. Non solo il Monte, malato grave, taglia i fondi alla Mens Sana basket, al Siena calcio e al Palio. Non solo la Fondazione, azionista al collasso del Monte, deve tagliare le sue generose erogazioni, anche quelle all’Università. Ma l’Ateneo a sua volta decide di sospendere per cinque anni il pagamento delle sue rate di mutuo a Mps. Un vero e proprio kamasutra dell’insolvenza incrociata. E così c’è chi chiede il commissariamento della banca, c’è chi chiede il commissariamento dell’Università, e il Comune è già commissariato. Ormai sotto la torre del Mangia i tempi sono maturi per l’intervento delle truppe Onu. Non è una battuta. Tra pochi giorni lo stato maggiore degli accademici senesi sfileranno a vario titolo a palazzo di Giustizia, dove potrebbero incrociarsi con l’ex presidente del Monte, l’amico Giuseppe Mussari, e altri big della banca finiti nei guai. Ognuno ha i suoi guai. Piero Tosi, delfino di Luigi Berlinguer e rettore dal 1994 al 2006, è alle prese con una richiesta di rinvio a giudizio per il dissesto dell’Università. Il suo mandato terminò su intervento della procura di Siena, che lo ha rinviato a giudizio per tentata concussione, con l’accusa di aver indotto a ritirarsi l’unico altro aspirante al posto di ricercatore a cui puntava suo figlio Gian Marco: per fortuna è stato assolto, e quindi padre e figlio vivono felici e contenti nella stessa facoltà, medicina.

Al posto di Tosi venne il rottamatore antiberlingueriano Silvano Focardi, che portò alla procura tutte le carte che dimostravano lo sfascio dei conti e il buco da 270 milioni. Ma anche il censore è finito nei guai, diventando celebre per le accuse sui finanziamenti alla sua contrada del Palio e sugli acquisti di quantitativi smodati di aragoste con soldi pubblici (la difesa sostiene che le aragoste servivano per certe ricerche nel campo della biologia marina). Anche Focardi attende la decisione sul rinvio a giudizio. E quindi venne Riccaboni, l’uomo della restaurazione berlingueriana (sempre nel senso di Luigi), che il 21 luglio 2010 è stato eletto contro Focardi per soli 16 voti su 570 votanti. In questo caso tra pochi giorni si decide sul rinvio a giudizio di dieci membri, di cui sette professori, della commissione elettorale: l’accusa (che non riguarda Riccaboni) è di aver truccato il voto. L’indagine è scattata subito dopo l’elezione di Riccaboni, che è stato intercettato mentre chiedeva lumi a Berlinguer, il quale lo rassicurava: convinto che l’inchiesta non poteva bloccare la nomina del nuovo rettore, sarebbe andato l’indomani a spiegare la situazione alla Gelmini. Due giorni dopo il ministro della Pubblica istruzione ratificò la nomina di Riccaboni.

L’articolo è stato pubblicato integralmente anche su Dagospia.

Scandalo Monte dei Paschi: quando manca “il senso della misura”

IntervistaBerlinguer

Ascoltare, per credere, l’intervista di Lucia Tironi a Luigi Berlinguer
Luigi Berlinguer: «Responsabili le persone, non il Pd» (la Repubblica, 26 gennaio 2013).
«Certamente Mussari è stato un disastroso presidente della Fondazione e della Banca Mps.»

Eugenio ScalfariLa panna montata e lo scandalo di Siena (la Repubblica, 27 gennaio 2013)
«Le linee essenziali della vicenda sono tuttavia evidenti: un gruppo di mascalzoni si impadronì della fondazione e della banca, si dedicò ad operazioni arrischiate di finanza speculativa, falsificò i bilanci, occultò le perdite e probabilmente lucrò tangenti e altrettante ne distribuì.»

Sulla vicenda Monte dei Paschi di Siena: chi parla e chi tace

Piccini-Mussari-Ascheri

Camilla Conti (intervista a Pierluigi Piccini) – “D’Alema voleva la fusione con Bnl, io no e mi cacciò” (il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2013).

Stefano Feltri (intervista a Raffaele Ascheri) – “Mussari, Siena era tutta in mano sua” (il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2013).

RedazioneMps, spunta la pista della maxi tangente per l’acquisizione di Antonveneta (il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2013).

Pierangelo Maurizio (intervista a Raffaele Ascheri) – «Accusai Mussari, venni isolato» (Libero, 29 gennaio 2013).

Nicola Cariglia (intervista a Vittorio Mazzoni della Stella) – MPS: prima andavano nel pollaio a mangiare le uova, ora le galline «Un regolamento di conti all’interno di una vicenda criminale» (Pensalibero.it, 28 gennaio 2013).

Si consiglia la lettura di un articolo dell’anno scorso:

Paolo Baroni – I magistrati sulle tracce di una cresta da 1,5 miliardi (La Stampa, 10 maggio 2012).

Università di Siena: u’ chiachill’ e il “grande vecchio”

Angelo Riccaboni e Luigi BerlinguerI peccatucci del “saggio” Berlinguer (il Giornale 20 gennaio 2013)

Gian Marco Chiocci. Lui è San Luigi Berlinguer da Sassari, cugino di Enrico, presidente del comitato dei garanti del partito di Bersani. Il più saggio tra i saggi. Il Potentissimo della città del Palio. Che qualche scivolata ha consegnato lui stesso ai posteri. 
Il primo incarico serio è Siena, dove arriva giovane esponente Pci per rappresentare il partito negli organi di controllo di Monte dei Paschi, la banca rossa oggi nel baratro e sott’inchiesta a causa dell’acquisto stratosferico di Antonveneta nel cui Cda c’è andato giust’appunto a finire il figlio Aldo, detto Aldino, carriera lampo universitaria (oggetto di interrogazioni parlamentari) con impiego saltuario financo nell’ateneo di Siena dove il papà fu in precedenza rettore prima di diventare ministro. Ai detrattori senesi, e non, è venuto spontaneo malignare sulla coincidenza della presenza del primogenito nel board della banca del Nord-Est e la successiva candidatura del babbo proprio in quell’area piena degli sportelli dell’istituto veneto quando, nell’aprile del 2009, Luigi si candidò alle Europee. Povero Aldo, e povero genitore, bersagliati dai pettegolezzi per l’inchiesta sull’aeroporto di Siena ad Ampugnano (dov’è indagato Mussari, presidente dell’Abi, ex presidente Mps) visto che il non indagato Aldo sedeva impropriamente nel Cda, come ricorda quest’informativa congiunta del 14 luglio 2010 Carabinieri-Finanza: «Il 30 maggio 2007 il Cda dell’aeroporto di Siena aumenta da 6 a 8 i propri consiglieri in dispregio al decreto Bersani che prevede un massimo di 5 consiglieri pubblici comprensivi per le società partecipate (…). Questo fu fatto anche per meglio rappresentare la nuova composizione con la quota privata notevolmente più influente rispetto alla pubblica: su rimostranze del comitato contro l’ampliamento dell’aeroporto, nel 2007 il Cda della società – continua l’informativa – fece dimettere Aldo Berlinguer (figlio del più noto Luigi, già ministro) così riportando l’organo sociale alla forma legale».

Le «colpe» dei figli non possono certo ricadere sui padri, che nel caso di Luigi qualche «colpa» nel dissesto senza precedenti dell’università senese sembra però averla stando a quanti addebitano alla sua gestione una parte di responsabilità nella voragine di bilancio (270 milioni di euro di debiti) emersa nel 2008. Quando scoppiò il bubbone governava il rettore Silvano Focardi, subentrato al professor Piero Tosi, Magnifico delfino designato da Berlinguer, poi sollevato dall’incarico a margine di un’inchiesta della magistratura. Proprio Tosi con un blitz si rese protagonista della ri-assunzione del pensionato Berlinguer intenzionato, disse più d’uno, attraverso il passaggio accademico, a diventare giudice costituzionale. E proprio per rendere più celere il transito l’Ateneo ordinò 300 volumi dal titolo «Tra diritto e storia, studi in onore di Luigi Berlinguer». Nessun atto aveva autorizzato la spesa, a scandalo esploso l’editore Rubbettino non venne pagato. Fece causa, e dopo anni ha finalmente intascato il dovuto. 
Tra le contestazioni più feroci a don Luigi, oltre alle assunzioni di massa nell’organico tecnico amministrativo e di docenti, le consistenti spese «edilizie», l’Inpdap non pagato, i tanti, troppi, soldi spesi in occasione dei faraonici festeggiamenti per i 750 anni di fondazione dell’Università (8 miliardi di lire a fronte del miliardo iniziale). E che dire delle «pressioni» fatte sul ministro Gelmini affinché firmasse il decreto di nomina dell’attuale rettore amico Riccaboni. Intercettato il 3 novembre 2011, Berlinguer si informa con Riccaboni sullo stato delle indagini e spiega che «tutto ciò non può bloccare la nomina del nuovo Rettore». 
La Gelmini, dice, è critica sul futuro dell’università di Siena in relazione ai bilanci. «Devi tenere un atteggiamento soft col ministro». Alla fine l’ok della Gelmini arriva ma con più di una riserva collegata all’esito dell’inchiesta che il prossimo 22 febbraio vedrà la commissione elettorale dell’università rischiare il processo davanti al gup per irregolarità nell’elezione di Riccaboni, proprio lui, il rettore «sponsorizzato» dal garante Pd.

Sullo stesso argomento:
– Francesco MerloL’importanza di chiamarsi Berlinguer (Corriere della Sera, 19 maggio 1996).
– Francesco SpecchiaBerlinguer critica i nepotisti ma si dimentica del figlio (Libero, 30 novembre 2010).
– Giovanni Grasso. E c’è chi entra in Università, ne esce andando in pensione e poi ci rientra (Il senso della misura, 16 marzo 2011).
– Giancarlo MarcottiMa quanto è bravo Aldo Berlinguer (Borsa Forex Trading Finanza, 30 settembre 2011).
– Tommaso Strambi. Dal diritto settecentesco sardo all’olimpo dell’Università (La Nazione Siena, 27 gennaio 2012).

Dalle elezioni bulgare nell’Università di Firenze alla farsa nell’Università di Siena, per le elezioni dei direttori di dipartimento

Dichiarava il Prof. Enrico Livrea, commentando le elezioni svoltesi con candidature uniche in diciassette casi su ventiquattro: «dalle elezioni dei direttori dei 24 dipartimenti esce un’immagine penosa dell’Università di Firenze: un regime che porta con sé i vizi dell’Ateneo, clientelismo e quiescenza ai poteri occulti, che impongono le scelte senza possibilità di reazione di chi vuole un sistema più giusto. Una situazione che peggiora con il degrado sistematico dell’Università italiana, che attraversa la fase più tragica della sua esistenza. Addirittura nel fascismo – obbrobrio peggiore della storia italiana – c’era un sistema universitario migliore».

E all’università di Siena? Ci sono candidati unici in tredici dipartimenti su quindici. In quel caso, allora, a che serve votare? Il rettore designi subito i direttori! Emblematico, a tal proposito, è che abbiano presentato il programma solo in quattro. Gli altri perché dovrebbero perdere tempo? L’elezione è, comunque, assicurata! Infatti, se anche gli elettori scegliessero a maggioranza un altro docente, il “democratico” regolamento senese ne impedirebbe la nomina, per la mancata formalizzazione della candidatura. Pertanto, dal 29 al 31 ottobre si svolgeranno elezioni democratiche, con possibilità di scelta da parte degli elettori, in soli due dipartimenti: il “Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Neuroscienze” e quello di “Scienze della Formazione, Scienze Umane e della Comunicazione Interculturale”. Un ringraziamento particolare a quei due docenti, tra i diciassette candidati, che con la loro presenza ci consentono una libera espressione di voto, evitando che una competizione elettorale si trasformi in farsa, con elezioni bulgare, come quelle che per vent’anni e con candidature uniche hanno caratterizzato il rettorato di Berlinguer e Tosi.

Articolo pubblicato anche da: il Cittadino Online (15 ottobre 2012) con il titolo: Elezione dei capi dipartimento: i nuovi numeri della democrazia.

Un manifesto da far sottoscrivere ai candidati dei nuovi organi di governo dell’Università di Siena

Portare nuovi valori anche nell’Ateneo

Zoom (6 luglio 2012). Da anni ormai le istituzioni senesi, con l’Ateneo in testa almeno per ragioni cronologiche, sono scosse da una crisi profonda che si aggrava sempre di più e, prima che crollino in modo irreversibile, è doveroso capirne le cause al di là delle soluzioni pratiche da individuare urgentemente. Uno di questi motivi, forse il principale, sta sicuramente nella costante applicazione della logica della lobby che, inevitabilmente, finisce per allontanarsi dai bisogni collettivi ispirandosi solamente agli interessi, non solo economici, ma anche e soprattutto di potere, del gruppo prevalente. È una logica che finisce per essere distruttiva e l’Università senese ne è un chiaro esempio. È dai tempi del rettorato Berlinguer, non che i suoi predecessori fossero in senso assoluto “migliori”, che il governo di questa importante istituzione cittadina risente, in negativo, degli effetti prodotti dalla prevalenza di un gruppo accademico, con comuni interessi politici e di potere. Non è particolarmente rilevante che il legame tra i componenti di questa lobby sia politico, piuttosto che accademico o economico. Ciò che conta è invece che un gruppo di persone possa prevalere su altri gruppi o sui singoli, piegando l’istituzione ai propri voleri. Questa logica si è perpetuata per un ventennio attraversando il rettorato Tosi, quello Focardi e, infine, è assurta a regola nel rettorato Riccaboni, manifestandosi con una scarsa trasparenza e con una gestione svincolata dal consenso della comunità accademica. Le nuove disposizioni normative, quali quelle della legge Gelmini, hanno favorito il fenomeno mettendo gli organi di governo dell’Ateneo praticamente nelle mani del Rettore e del gruppo che lo sostiene (e che non può smettere di sostenerlo pena la perdita di qualsiasi potere). Non è un caso che l’approvazione del nuovo statuto, in osservanza della Gelmini, provocò dissensi da parte di altri lobbisti, nel caso specifico del Comune e della Provincia che ancora oggi esprimono dei consiglieri di amministrazione. Lo stato di tensione derivò dalla presa di coscienza da parte soprattutto dell’allora sindaco Ceccuzzi che, una volta estromesso dal “gruppo”, non avrebbe più potuto esercitare pressioni come spesso avvenuto negli anni passati. Un radicale cambiamento di questa situazione può attuarsi solo con il prevalere di nuovi valori, una sorta di nuovo umanesimo che riporti al centro l’individuo o aggregazioni di singoli svincolate da logiche lobbistiche. Il consenso della comunità dovrebbe portare negli organi di governo persone estranee alle logiche della gestione ristretta del potere, motivate semplicemente dal senso della responsabilità e del bene collettivo. Le soluzioni “pratiche” o “tecniche” verrebbero di conseguenza, facendo uscire dalla prostrazione e rilanciando, davvero e non a parole, un’istituzione secolare che oggi stenta a sopravvivere.

Alla ricerca della piramide perduta

L’ascesa del «Faraone» nell’Ateneo della ‘grandeur’ (Piero Tosi: il patologo che studiava da ministro) (Da: La Nazione Siena, 19 febbraio 2012)

Tommaso Strambi. «Va bene per martedì alle 18.30. Ma non incontriamoci al Rettorato. È  meglio vederci al solito posto …». Sono le 14 e 17 minuti del 10 novembre 2010. Fissato l’appuntamento, il professor Piero Tosi saluta Angelo Riccaboni, il giovane ‘delfino’ che, proprio in quei primi giorni di novembre si è insediato in Banchi di Sotto, dopo una lunga attesa dovuta alle incertezze dell’allora ministro dell’Università, Maria Stella Gelmini, a firmare il decreto di nomina a Rettore vista l’esistenza di un’inchiesta della magistratura sulla regolarità delle elezioni che nel luglio precedente avevano visto Riccaboni superare per un pugno di voti (16) il ‘magnifico’ uscente, Silvano Focardi. Perché non parlare in Rettorato? Chissà? «Meglio vedersi al solito posto», osservano. Lasciando, intendere, che è una prassi consolidata. «Malelingue», ribatteranno. Forse, non essendo esperti di cultura africana, non conoscono il vecchio proverbio secondo il quale se devi nascondere un albero quale posto migliore della foresta. Ma tant’è. Così andiamo avanti «con il solito». In fondo lo diceva anche la pubblicità: «Mario, il solito!». Altro giro, altra corsa. È il professar Tosi a chiedere a Riccaboni un appuntamento. Ci sono tante cose da affrontare. E lui lo sa bene. Per dodici anni – prima dell’appassionato contradaiolo della Chiocciola Focardi – ha guidato l’antico Studium senese. Non per nulla è stato un ‘grande elettore’ di Riccaboni, il giovane economista che lui stesso nel 1997 aveva chiamato a presiedere il Nucleo di valutazione dell’Ateneo (incarico che ricoprirà sino al 2004) e, poi, ad aiutarlo a fondare il Cresco. Non solo. Nel 2005 sarà sempre Tosi a sostenerlo nella corsa alla presidenza della Facoltà di Economia e, poi, ancora ad affidargli l’incarico di prorettore per la sede distaccata di Arezzo. Questione di cooptazione. L’Università italiana funziona così. Da sempre. Bisogna mettersi in coda e confidare nella benevolenza del ‘barone’. Ma tra Tosi e Riccaboni non c’è il solito rapporto da docente e discepolo. Il primo, infatti, è un eminente patologo con 300 pubblicazioni scientifiche e testi di Anatomia e Istologia Patologica nel curriculum, il secondo è un economista. Cosa accomuna, dunque, il medico e il professore di economia aziendale? La gestione dell’Accademia. Sapere e potere che, sovente nelle aule universitarie, si confondono in un connubio indissolubile. E Tosi lo sa bene. Ha sempre accompagnato all’intensa attività scientifica quella di gestione della res universitaria. Tanto che nel 1981 diventa prorettore. Il primo passo della carriera ‘nelle stanze dei bottoni. Quel cammino che negli anni Novanta lo porterà a diventare a sua volta Rettore. Molti ex presidi e docenti ricordano ancora quando, nel corso di una seduta del Senato Accademico, l’allora ‘Magnifico’ Luigi Berlinguer, in procinto di diventare ministro della Pubblica Istruzione, mettendogli le mani sulle spalle lo indicò come suo successore. E nel 1994, in effetti Tosi, con qualche mese di anticipo rispetto ai tempi programmati, divenne Rettore. L’inizio di un nuovo ‘Regno’, ma nel segno della continuità. Beninteso.

Anche Piero Tosi, come il suo predecessore, sa miscelare doti da ammaliatore e tessitore di relazioni, ma con un’inclinazione, ancora più spiccata, alla grandeur. E, a spalleggiarlo, Tosi trova Maurizio Boldrini. Che teorizza e mette a punto la più grande area comunicazione mai vista all’interno di un Ateneo. A dire il vero Boldrini ci aveva provato anche nella gestione Berlinguer, ma si era dovuto scontrare con l’inflessibilità ed il rigore della ‘comandante’ Jolanda Cei Semplici. Tra lei e il comunicatore non c’era un gran feeling. Anzi. Nel segreto delle stanze lei lo aveva ribattezzato il ‘giornalaio’. Così, nel momento in cui la Semplici lasciò gli uffici di Banchi di Sotto, Boldrini poté finalmente mettere a punto il suo piano. Intanto, sull’altro versante, Tosi moltiplicava corsi di studio e cattedre. Un vero e proprio maestro in questo. Il capolavoro lo compie il 19 aprile del 2002. Quel giorno sottoscrive con l’Azienda ospedaliero-universitaria senese un accordo per «lo sviluppo delle attività di ricerca e docenza della Facoltà di Medicina e Chirurgia per settori di interesse per le funzioni assistenziali della Facoltà stessa». Inutile dire che a controfirmare l’accordo fu Jolanda Cei Semplici nella sua veste, questa volta, di direttore generale delle Scotte. Alè! Inizialmente i soldi venivano presi da fondi erogati dalla Regione Toscana ma, da preveggente, Tosi si preoccupava di non far mancare cattedre a coloro che le avrebbero così ricevute. Per questo l’articolo 4 dell’accordo evidenzia «al momento dell’eventuale interruzione concordata del finanziamento per la retribuzione della docenza reclutata, l’Università se ne farà carico, con propri fondi di bilancio comunque acquisiti». In fondo «un posto fisso» non si nega a nessuno. Anche pochi mesi prima, alla fine di dicembre 2001 ci fu un’infornata di assunzioni. E questo, nonostante, il direttore amministrativo dell’epoca, Loriano Bigi, avesse firmato una relazione in cui si metteva in guardia dall’eccessivo drenaggio di risorse per il personale. Mentre nel dicembre del 2005, allorquando si diffuse la notizia che la Finanziaria 2006 avrebbe stabilito il famoso rapporto del 90% tra spese e personale, in soli quattro giorni (dal 16 al 20 dicembre) vennero ‘sgonfiate’ tutte le graduatorie ancora in essere. Un vero peccato lasciare qualcuno a casa. Via, così, all’assorbimento di tutti i ruoli banditi in precedenza. Avanti un altro! E, se i soldi non ci sono, si troveranno. I bilanci, del resto, si aggiustano. All’epoca non si sapeva, ma l’inchiesta aperta dalla Procura di Siena qualche anno dopo (nel 2008) lo ha dimostrato. E sebbene Tosi osservi «che io sono arrivato a fare il rettore da patologo e il mio successore da ecologista: cosa volete che ne sappiamo di conti», dai riscontri degli uomini della Guardia di Finanza incaricati dai magistrati della Procura, alla fine della fiera, dalle casse dell’Ateneo mancano, almeno, 200 milioni. E, comunque, qualche ‘ritocco’ si può sempre fare. Così tra i faldoni della Procura c’è anche un appunto manoscritto, datato 11 febbraio 2003, che ha spinto i magistrati ad ordinare una perizia calligrafica. Secondo l’ex direttore amministrativo Interi, infatti, alcune correzioni a penna erano state fatte da Tosi «desideroso di ricucire lo scollamento tra entrate ed uscite, pari a circa 18 milioni di euro». Una ricostruzione che la consulente nominata dai pm, Rosaria Calvuana, ha confermato: «le manoscritture di colore nero presenti nell’appunto datato 11 febbraio 2003 appartengano alla mano del professor Piero Tosi». Vedremo. Se e quando sarà celebrato un processo. Tra le inchieste e le sentenze, infatti, ci sono sempre i dibattimenti in aula.

E, anche questo, l’ex rettore Tosi lo sa bene. Il 27 aprile del 2010 è stato assolto per una serie di accuse (dalla truffa all’abuso d’ufficio, dalla tentata concussione alla falsità materiale) in cui era incappato con altri docenti ed ex direttori generali dell’università e dell’azienda ospedaliera-universitaria. Anche se, per due concorsi (medicina legale e chirurgia plastica), deliberati a maggioranza dall’università, ma «non in modo regolare» secondo le accuse in quello stesso processo, Tosi è stato condannato (con il riconoscimento delle attenuanti generiche e la sospensione della pena) a nove mesi. In fondo, il potere ha sempre un costo. E al ‘faraone’ Tosi il potere piace. Ne è affascinato. E Siena per lui è piccola. Perché non puntare in alto? L’occasione la fornisce la Crui. Per Tosi è un gioco da ragazzi conquistarne la guida non appena un altro rettore toscano, il matematico Luciano Modica, lascia Palazzo alla Giornata (la sede del rettorato di Pisa) per candidarsi alle elezioni suppletive al Senato. La Crui è un trampolino di lancio importante per chi aspira ad un ruolo da ministro. Tosi lo ha imparato da Berlinguer. E così ci si butta anima e corpo. Tanto che nel novembre del 2004 porta in Senato Accademico una modifica allo Statuto in modo da «far coincidere il termine del proprio mandato quale presidente della Crui con quello di Rettore». Nessuna forzatura, beninteso. Tosi, si legge nella delibera, «comunica di aver ricevuto, da parte di presidi e rappresentanti di area in Senato, una sollecitazione». Ci mancherebbe che qualcuno pensasse ad un Ateneo ad «uso e consumo». Roba da regimi. Qui, siamo in democrazia. Così la delibera passa con il voto di tutti i presenti, compreso quello di Tosi. La cosa non passa inosservata e il professor Giovanni Grasso presenta ricorso al Tar. Ma i giudici amministrativi, senza entrare nel merito, ‘bocciano’ il ricorso «perché il ricorrente avrebbe dovuto procedere solo dopo la delibera ad hoc del Senato accademico». Ed, in effetti, era quello che aveva fatto il professor Grasso. In realtà, quello che mancò fu l’atto amministrativo di recepimento di quella delibera approvata il 15 novembre 2004. Quisquilie. Dopo la pronuncia del Tar la cosa non andò avanti e Tosi rimase alla guida di Banchi di Sotto e della Crui. Come sollecitato dai colleghi e come previsto. Purtroppo, il 26 febbraio 2006, il sogno si infranse davanti agli uomini della polizia giudiziaria che gli notificarono un’ordinanza di interdizione. Un tramonto improvviso, solo in parte risarcito (come abbiamo visto) dalla sentenza dell’aprile 2010. E pensare che in quella primavera del 2006 l’Ulivo vinse davvero le elezioni. Il «barone rosso» avrebbe potuto ben figurare nella compagine governativa alla guida del dicastero della Sanità o di quello dell’Università e della Ricerca Scientifica. Che peccato! E, invece, lasciata la cattedra, è fra color che aspettano che il gup decida sulle 18 richieste di rinvio a giudizio formulate dalla Procura in merito all’inchiesta sul dissesto dell’Ateneo. «Sono tranquillo – dice -. Ho fiducia nella magistratura, ho la coscienza a posto e sono sicuro di dimostrare di aver sempre agito in buona fede. A breve, comunque, mi farò sentire, è venuto il tempo di parlare e raccontare come stanno veramente le cose. Non solo leggere quanto viene scritto da altri». Perché no? È una questione di trasparenza e chiarezza. Sempre. E non solo «al solito posto».

Il “grande vecchio” e la distruzione dell’Università di Siena

Dal diritto settecentesco sardo all’olimpo dell’Università (da: La Nazione Siena, 27 gennaio 2012)

Tommaso Strambi. «Stai attento a questa città». «Stai attento a questa città». Una raccomandazione e un ammonimento da vecchio ‘pater familias’. D’Università s’intende. Perché di figli di sangue ne ha soltanto due: Aldo e Iole. Ma l’interlocutore a cui Luigi Berlinguer si rivolgeva in una telefonata dell’ottobre 2010 era il più giovane della nidiata allevata tra le mura dell’Ateneo senese: ovvero il rettore Angelo Riccaboni. L’economista chiamato a raccogliere il testimone alla guida dell’antico Studium, che tante soddisfazioni ha regalato al professore sardo di Diritto settecentesco, il quale, proprio dall’isola, sbarcò nella città del Palio, inviato dal Pci come ‘deputato’ del Cda del Monte dei Paschi. Studioso di Domenico Atzuni (quel giurista che dà il nome a tante piazze e tante strade della Sardegna, ma nessuno sa chi sia», ebbe a osservare Francesco Merlo sul Corriere della Sera), proprio tra Piazza del Campo e Rocca Salimbeni, Berlinguer impresse una svolta alla propria carriera. Anche se all’inizio non fu semplice. Perché, sebbene portasse un cognome altisonante nella storia del Pci e della sinistra italiana, sia nel partito che in città era considerato un forestiero. Una diffidenza che gli dev’essere rimasta appiccicata addosso, visto l’ammonimento che molti anni dopo rivolse, appunto, a Riccaboni. Senza sapere, ovviamente, di essere ascoltato dalla polizia giudiziaria nell’ambito dell’inchiesta sulla regolarità delle elezioni del rettore. Una città un po’ matrigna e un po’ amante. Già. Chissà che traiettoria avrebbe comunque preso la sua vita se non ci fosse stata Siena, visto che nella natìa Sardegna non riusciva proprio a spiccare il volo, come avrebbe sognato.

All’Università di Sassari, negli anni Settanta, faceva parte di un cenacolo d’intellettuali: da Gustavo Zagrebelski a Valerio Onida, da Mario Segni a Franco Bassanini, da Francesco Cossiga a Roberto Ruffilli (diventato negli anni il ‘fine’ consulente di Ciriaco De Mita, prima di essere assassinato dalle Brigate Rosse nel 1988). Tra torte e creme (vera passione di Berlinguer, tanto da meritarsi il soprannome di ‘gola e vanità‘, affibbiatogli proprio da Ruffilli), quel reticolo di amici formò un gruppo destinato a ricoprire ruoli chiave nel potere accademico. Il vero e proprio pallino di Luigi. Quasi un’ossessione. E come poteva essere diversamente, visto che sin da piccolo si era dovuto confrontare con il mito del cugino Enrico. Mica uno qualsiasi. Il vero padre nobile del Partito Comunista. Ortodosso e rigoroso al punto tale da essere l’ultimo dei politici capace di portare in strada e far piangere, lacrime vere, decine di migliaia di compagni (e non) in occasione dei suoi funerali. Oggi al massimo i politici raccolgono fischi e contestazioni al grido di «andate a lavorare», come è accaduto pochi giorni fa all’Isola del Giglio al governatore Enrico Rossi e al consigliere regionale Marco Spinelli. Altri tempi.

Ma torniamo a Berlinguer, Luigi s’intende. Vanitoso e dalla forte propensione alla grandeur, ma allo stesso tempo ammaliatore e grande tessitore di relazioni. Così, nonostante le difficoltà, in poco tempo riuscì a conquistare l’Università. Del resto, studenti interessati al Diritto settecentesco sardo non è che ce ne fossero molti. Trovata l’intesa con i cattolici di Medicina, per Berlinguer si aprirono le porte del rettorato. L’apoteosi. Gli insegnamenti iniziarono a moltiplicarsi e così le cattedre e la popolazione studentesca. Per i detrattori, però, anche i bilanci cominciano a ingigantirsi. In fondo, il potere ha sempre un costo. Il capolavoro, in questo senso, arrivò con i festeggiamenti per i 750 anni di fondazione dell’Ateneo. E poco importa se non era proprio l’anniversario giusto, visto che la data del 1240 non fa riferimento alla fondazione dell’Università ma a un documento in cui il Comune di Siena si impegnava a pagare parte degli stipendi dei professori dell’Ateneo. Che, quindi, già esisteva. L’importante era ottimizzare il risultato. E Luigi, il ‘comunista modernizzatore’ (come lo definisce Francesco Merlo) puntò in alto. E a ragione. Prima Romano Prodi, poi Massimo D’Alema, poi, ancora Prodi lo accontentarono, affidandogli il ministero della Pubblica Istruzione (1996-2000) e, ad interim, anche quello dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica (1996-1998). Un uomo riconoscente, comunque Luigi. Così nell’avventura romana si portò dietro ‘la comandante’, al secolo Jolanda Cei Semplici, che in Banchi di Sotto ricopriva il ruolo di direttore amministrativo. Piccola e determinata, una volta conclusa l’esperienza al Ministero, è tornata a Siena come direttore generale del Policlinico Le Scotte, pur fra i mille dubbi dei politici locali di area cattolica.

Ma Berlinguer non è uomo da lasciare niente al caso. E, così, prima di salutare Banchi di Sotto, si assicurò che a succeder gli fosse qualcuno di fiducia. Ed ecco che alla poltrona di rettore arriva il patologo Piero Tosi supportato da una squadra di comunicatori d’eccellenza, capitanata da Maurizio Boldrini, Omar Calabrese e Maurizio Bettini. Altro che piccola Oxford: l’Ateneo di Siena può pensare ancora più in grande. Mentre Luigi Berlinguer nel mese di maggio del 2003 decide dunque di andare in pensione (salvo poi essere reintegrato, diciotto mesi più tardi), il patologo Tosi, proprio come Penelope, tesse e disfa la tela con nuove assunzioni di docenti e personale tecnico amministrativo, Maurizio Boldrini ordina l’acquisto di 300 volumi in onore di Berlinguer. E non importa se manca una delibera del Cda che autorizzi la spesa da 26mila euro. Tanto qualcuno pagherà. In fondo, a Roma Berlinguer è in corsa per la Corte Costituzionale.

Gola e vanità‘. Ma anche familias. Già, perché in tutto questo c’è spazio anche per il figlio Aldo. Sulle orme del padre, il giovane Berlinguer riparte dalla Sardegna per la sua carriera di docente universitario, senza disdegnare altre esperienze. Ovviamente in nome della ‘buona politica’ per la quale dà vita all’Associazione ‘Il Campo delle idee’. E, tra un trattato di filosofia del diritto e un’analisi sociologica, Aldo si fa le ossa prima nel consiglio di amministrazione dell’aeroporto di Ampugnano (sotto l’ala protettiva del presidente dell’epoca Enzo Viani), poi a Bruxelles, dove diventa esperto di legislazione dei fondi comunitari. Nel frattempo lo chiamano all’Università di Firenze. Come il padre molti anni fa, anche lui è pronto a entrare nei salotti delle banche italiane. Così, dopo un timido tentativo di candidarsi sindaco di Siena nel 2011 (sostenuto dall’Italia dei Valori, infatti) nel giugno dello scorso anno viene nominato nel Cda di Banca Antonveneta. Chissà se il padre gli avrà rivolto lo stesso ammonimento fatto a Riccaboni: «Stai attento a questa città». Un po’ matrigna e un po’ amante. Chissà. E, mentre la magistratura di Siena ancora indaga sulla voragine di debiti accumulata dall’Università, la riforma del 3 + 2 varata proprio dal ministro Luigi Berlinguer mostra evidenti crepe, come emerge dall’ultimo rapporto della Fondazione Agnelli. Secondo il rapporto, infatti, il livello di preparazione dei giovani universitari italiani è calato enormemente, così come le loro possibilità di trovare impieghi adeguati (e non per colpa della crisi economica»). Che ingrati. Meno male che restano i fidelissimi: Antonello Masia, Marco Tomasi (quello che consigliava a Riccaboni di far presto a nominare Ines Fabbro direttore amministrativo: «non si sa mai»), Alessandro Schiesaro, Tommaso Detti, Omar Calabrese, Maurizio Bettini, Jolanda Cei Semplici, Antonio Cardini, Saverio Carpinelli, Maurizio Boldrini, Alessandro Stagnini, Alessandro Piazzi, Gabriella Piccini e, ovviamente, Angelo Riccaboni e Ines Fabbro. Anche a loro Luigi Berliguer, da garante nazionale del Pd, ripete spesso: «Guardatevi da questa città».

Sullo stesso argomento:
– Francesco MerloL’importanza di chiamarsi Berlinguer (Corriere della Sera, 19 maggio 1996).
– Francesco SpecchiaBerlinguer critica i nepotisti ma si dimentica del figlio (Libero, 30 novembre 2010).
– Giovanni Grasso. E c’è chi entra in Università, ne esce andando in pensione e poi ci rientra (Il senso della misura, 16 marzo 2011).
– Giancarlo MarcottiMa quanto è bravo Aldo Berlinguer (Borsa Forex Trading Finanza, 30 settembre 2011).
– Gian Marco Chiocci. I peccatucci del “saggio” Berlinguer (il Giornale, 20 gennaio 2013).