Sull’università di Siena: Bruno Valentini, il “nuovo”/vecchio che avanza

BrunoValentiniL’Eretico di Siena pone 8 domande al candidato a sindaco di Siena Bruno Valentini che sfiderà alle primarie del Pd Alessandro Mugnaioli. Il titolo del post è suggerito dalla risposta-flash che Valentini dà sull’università.

Ascheri. Il Valentini, invece, resta una sorta di sfinge: di certo, è un anticeccuzziano dell’ultima ora, cui, strada facendo, si sono aggiunti, pregustando aria di vittoria, degli anticeccuzziani dell’ultimo quarto d’ora. Che abbia talento oratorio, nonché una faccia più spendibile di qualunque ceccuzziano, nessun dubbio; il quesito che viene da porsi, è questo: chi voterà per Valentini, per chi voterà? Per l’uomo capace di rinnovare drasticamente il Pd senesota, facendolo divenire un partito almeno decente, o per un furbone che ha aspettato lo sfacelo per proporsi con autorevolezza? Inutile girarci intorno, il dilemma è tutto qui; per scioglierlo, c’è solo un modo, da parte sua: rispondere (a differenza di ciò che non ha mai fatto Franchino il Ceccuzzi) ad alcune domande sulle persone che, in questa città, conservano i loro posti nonostante un’appartenenza Docg alla Casta locale. A fare i bei discorsi di fondo sui perché del Siena’s crash, oggi, sono buoni davvero tutti: il bravo Valentini – se vuole guadagnare la fiducia di questo blog – deve rispondere dunque a qualche domandina. Sulle persone – lo ripetiamo -, non sui massimi sistemi.

Domanda di Ascheri. Il Magnifico Rettore professor Riccaboni le sembra incarnare la personalità giusta per il ruolo che ricopre? A prescindere ovviamente dalla questione strettamente legata alle indagini sulle elezioni. Riccaboni, sì o no?

Risposta di Valentini. Per quanto riguarda l’Università, io e i senesi dobbiamo rispettare l’esito delle elezioni del Rettore. Chiedo di accelerare il risanamento, di rafforzare la didattica e di organizzare l’Università partendo dai bisogni degli studenti.

Necessaria la costituzione di parte civile per i danni all’ateneo senese provocati dal trio Riccaboni-Frati-Fabbro

Caravaggio

Con il titolo «Siena: la caduta» e sottotitolo «Era la città ideale, ora sembra diventata un manifesto del cattivo governo. Un mito disarcionato. Da una banca.» il venerdì di Repubblica presenta un servizio di Paola Zanuttini, con foto di copertina che ritrae un fantino mentre cade da cavallo. Si dice che da ieri sera i contradaioli siano stati informati dell’azione legale che il “Consorzio per la Tutela del Palio di Siena” intende attivare contro la Repubblica, che ha diffuso, senza autorizzazione, una foto del Palio. All’interno un altro titolo: «Viaggio tra le ombre della città che fu ideale». Il lungo sottotitolo: «Il crac del Monte dei Paschi vissuto come un trauma. In un posto dove un cittadino su quattro lavora con la banca, dove sport, cultura e il Palio dipendono da un Istituto di Credito. Che ora non ha più credito.» Ho incontrato la giornalista, rispondendo per circa un’ora alle sue numerose domande. Di seguito, quel che ha pubblicato del lungo colloquio, nel quale riporta brevemente i dati riguardanti le azioni truffaldine, relative all’utenza studentesca sostenibile.

Paola Zanuttini. È piena di blogger, Siena, ma si vede che questi lupi solitari ululano le loro verità alla luna, altrimenti la cittadinanza non sarebbe così sconcertata dai noti fatti. Prendiamo Giovanni Grasso, ordinario di Anatomia umana e autore del blog Il senso della misura, dove segnala ogni illecito, abuso o scandalo cui assiste all’Università. Lui scrive, scrive, ma non succede granché, se non interviene la magistratura. Anche le persone che accusa non reagiscono: «Al massimo, se li incontro, mi evitano». Effettivamente, quella che l’ex rettore Luigi Berlinguer definiva una piccola Oxford ha perduto un po’ dello stile britannico. Grasso elenca un rosario di nefandezze. Ce n’è una niente male. Nel 2011/12 entrava in vigore in tutti i Corsi di Farmacia e di Chimica e Tecnologia Farmaceutiche il numero programmato. Siena non l’ha applicato e, non richiedendo i test d’ingresso, si è accaparrata 1120 iscritti, quando ne poteva accogliere 273. Bel colpo per le casse dell’Università, ma non per gli studenti: hanno avuto solo 52 professori, mentre Milano proponeva 147 docenti per 640 iscritti.

Laura Vigni, candidata a sindaco di Siena, chiede le dimissioni del rettore dell’università

Laura-VigniLaura Vigni. Il rinvio da parte del Tribunale di Siena della decisione sul ricorso dei lavoratori dell’Università riguardante il salario accessorio, prolunga ancora lo stato d’incertezza in cui restano tanti lavoratori dell’Università mentre sull’istituzione si addensano altre nubi. 
Purtroppo, come avevo già denunciato in un mio intervento datato 11 novembre, si è invece aggravata ulteriormente la situazione dei lavoratori della Cooperativa “Solidarietà” che – al contrario di quanto il Rettore Angelo Riccaboni mi aveva assicurato in occasione di un incontro sollecitato dallo stesso Riccaboni dopo quel mio intervento – cesserà ogni rapporto con l’Ateneo dal prossimo aprile, lasciando 64 lavoratori in cassa integrazione. A fare le spese di un piano di risanamento di dubbia efficacia, come nelle peggiori e più facili previsioni, sono quindi ancora una volta i più deboli, meno tutelati.

Illuminante infine, appare la valutazione negativa del Collegio dei Revisori di Conti dell’Ateneo formulata nell’ultima relazione, nella quale «si esprime parere contrario all’approvazione da parte del Consiglio d’amministrazione dell’Università di Siena del bilancio unico d’Ateneo di previsione autorizzatorio per l’esercizio 2013, nonché del bilancio unico d’Ateneo preventivo non autorizzatorio per il 2013» e viene auspicato «che il Miur definisca i criteri per il dissesto finanziario e quindi possa assoggettare l’Ateneo a tale procedura prima che la situazione economica, finanziaria e patrimoniale degeneri ulteriormente».
 Questi fatti mettono in discussione più di ogni parola la validità del programma di risanamento di Riccaboni, che non sembra aver raggiunto nessuno dei suoi scopi. Il Rettore non può che prenderne atto.

Altrettanto discutibile mi appare la decisione di confermare nel CdA dell’Università in “rappresentanza” degli enti locali Roberto Morrocchi. Egli sembra rappresentare più la “società” dei partiti che la società civile e in ogni caso simboleggia la più totale continuità con il sistema precedente che ha portato al disastro finanziario la nostra principale istituzione culturale. La più volte dichiarata intenzione del rettore di voler effettuare un radicale rinnovamento rispetto a politiche e pratiche del passato sembra essere sempre di più un artificio retorico e propagandistico.
 Se la piena e totale autonomia dell’università è un principio che non può essere messo in discussione, la comunità universitaria non può rimanere insensibile e indifferente alle sempre maggiori preoccupazioni che il territorio senese avverte sul destino della sua università. Non posso che auspicare che essa trovi la forza di emanciparsi dai condizionamenti e la capacità di cambiare radicalmente rotta per traghettare finalmente la nostra università fuori dal guado.

Siena: zimbello d’Italia con la “piccola Oxford” del menga

ZimbelloUnisiRabbi Jaqov Jizchaq (…) la “piccola Oxford”, che smisurata presunzione: v’è gente vana come la sanese? Ma quale “piccola Oxford” del menga? Zimbello d’Italia, per il crack multiplo di banca, università e maggioranza politica. L’Italia, a sua volta, zimbello d’Europa, come rivelano i dati allarmanti e umilianti diffusi dall’OCSE: siamo il popolo più ignorante che detiene il record europeo della più bassa percentuale di laureati nella fascia di età fra i 30 e i 34 anni (il 19% a fronte di una media europea del 30%), stabilmente situati al 34° posto su 36 paesi Ocse. Oxford ha dato al mondo una sessantina di premi Nobel e un pugno di Fields Medals; molto tempo fa in questo blog espressi il rammarico che a Siena le scienze pure ed applicate non godessero della dovuta rilevanza; ma nella città che ospita una storica Accademia che ebbe tra i suoi corrispondenti Immanuel Kant, nella città che dette ricovero a Galileo in momenti difficilissimi della sua esistenza, non solo non ha mai preso piede un polo scientifico vero e proprio, ma dopo lo scoppio della crisi, oramai sono stati potati un numero così sconfortante di livelli magistrali e dottorali, che di certo non è lecito sperare in meglio per l’avvenire delle “scienze avanzate”. Sicché non si capisce bene cosa voglia dire “rilancio” per buona parte dell’ateneo senese: tornare alla configurazione precedente gli anni ’70, più qualche cosa? Bene, nulla quaestio, ma diteci almeno cosa volete farne di tutto il resto, perché la politica di nascondere la testa sotto la sabbia non va bene.

Di quattrini, in futuro ve ne saranno sempre di meno; i livelli occupazionali precrisi verranno ripristinati nel 2025, dicono gli economisti, mentre nel frattempo in Italia scompaiono 480 posti di lavoro al giorno. Pensare pertanto di reintegrare i settori disciplinari spolpati dalle massicce uscite di ruolo è pura, irresponsabile utopia. Vagheggiare un futuro in cui si ricomincerà a bandire concorsi a tutto spiano è demenziale: “l’idraulico non verrà”, come titolava un poemetto di Fruttero & Lucentini. Non so che ateneo si immaginano i nostri comandanti e subcomandanti, ed è superfluo che ripeta ancora una volta monomaniacalmente quella che a mio modestissimo avviso appare oggi l’unica strada rimasta aperta per salvare dal naufragio interi reparti della ricerca e naturalmente dare una prospettiva a chi ci sta dentro (che bene o male lavora per l’università statale, non per qualche contrada o partito, e che secondo le recenti direttive dell’ANVUR deve oltretutto prodursi in performances di alto livello assai improbabili al di fuori di contesti appropriati): laddove oramai una orgogliosa “autonomia” sia palesemente insostenibile, si tratta di ricompattare i settori disciplinari e costituire corsi di laurea degni di questo nome con tutti i livelli, da quelli di base ai dottorati di ricerca, non più localmente, ma a livello interateneo; ragionare cioè in termini “federali” in chiave di “università della Toscana”, contemplando la possibilità di spostare i docenti interessati laddove la loro disciplina abbia una qualche possibilità di sopravvivenza.

Non vedo altra soluzione per frenare la deriva entropica della quale sono preda oramai anche atenei più solidi di quello senese, con l’uscita di ruolo di un professore su quattro e la chiusura di circa duemila corsi di laurea. Mi si dica altrimenti in cosa cosiste la “strategia di rilancio”. Purtroppo però, al di là delle asperrime polemiche di “noartri contro voartri”, mi pare che al fondo del “dibattito” intorno all’università di Siena (già passato in secondo piano dopo lo scoppio dello scandalo bancario) permanga un atteggiamento di sostanziale inerzia ipocritamente fatalistica: ci si esprime sul futuro dell’ateneo in chiave metaforica, con astrazioni come “l’antico ateneo”, ignari del fatto che non esiste un corpo unico, ma tanti pezzi disarticolati, alcuni dei quali già perduti, altri che si vanno perdendo, e che le cause di tale processo non consentono di rubricare tutto ciò che va perduto alla voce “le cose inutili”. Il mondo politico si pasce di retorica e delle risse senza costrutto. Non ho mai sentito nessun esponente politico di nessun partito esprimersi con un briciolo di concretezza e competenza su questi temi (e ci chiedono pure il voto).

I quattro dell’Ave Maria e la centralità della didattica nella riforma dell’Università

Stefano Semplici, Giampaolo Azzoni, Paolo Leonardi, Emanuele Rossi

Atenei, ipotesi autoriforma (da: Avvenire, 6 luglio 2012)

Enrico Lenzi. Offerta formativa di qualità per tutti o più attenzione al merito? Potenziamento della didattica o valorizzazione della ricerca? Il mondo universitario italiano da tempo si sta macerando su questi dilemmi. E anche tutte le riforme che negli ultimi anni i ministri hanno messo in campo non sono al momento riusciti a trovare un punto di equilibrio, almeno secondo l’opinione di chi nell’università vive e opera. E allora quattro docenti (Stefano Semplici dell’Università di Roma Tor Vergata e Collegio «Lamaro Pozzani»; Giampaolo Azzoni  dell’Università di Pavia, Centro di etica del Collegio Borromeo; Paolo Leonardi dell’Università di Bologna, Collegio Superiore; Emanuele Rossi del Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa) hanno deciso di prendere carta e penna nel tentativo di offrire una soluzione ai dilemmi, o almeno «un contributo al dibattito». «È una proposta che parte dal basso – spiega Stefano Semplici, ordinario di Filosofia morale – e che è il risultato di una riflessione a partire dai testi e dalle proposte fatte fino ad ora». E a sorpresa per questo gruppo di docenti non solo «il punto di equilibrio si può trovare», ma «siamo anche convinti che entrambi i punti siano obiettivi prioritari per far funzionare l’università».

Partiamo dal primo: equità e merito. «Come abbiamo scritto al ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca Francesco Profumo – spiega Semplici – la contrapposizione fra equità e merito non solo è sbagliata, ma dannosa per il Paese e in particolare per chi ha bisogno di maggior aiuto per far fiorire il suo talento». Insomma l’università deve «garantire percorso formativi che mettano in grado tutti – e questa è l’equità – di poter sviluppare i propri talenti e anche di aiutare a farli emergere in coloro che non sembrano averli». Nello stesso tempo «deve saper riconoscere il merito, ma non considerandola come una risorsa del singolo, bensì dell’intera comunità». Per il professor Semplici «occorre pensare ai “benemeriti”, cioè a coloro che hanno potuto sviluppare i propri talenti e poi li hanno posti al servizio di tutti».

Altrettanto delicato il secondo dilemma: didattica o ricerca. «Sono le due gambe su cui si regge l’università e devono viaggiare in parallelo – sottolinea Semplici–. Oggi, invece, si tende a privilegiare la produzione scientifica e la ricerca nella valutazione dei docenti, lasciando ai margini la didattica. Risultato? Professori dedicati solo alla ricerca e poco propensi a entrare in aula a fare lezione. Con grave danno per gli studenti». E qualche avvisaglia di questa tendenza si è vista con alcune levate di scudo da parte di alcuni docenti «che si lamentano del tetto obbligatorio di 100 ore di lezione all’anno, quasi che quel tempo – tra l’altro 10 ore al mese visto che luglio e agosto non ci sono lezioni – fosse perso per le cose importanti, cioè la ricerca». Il danno per l’università è più che evidente.

La proposta elaborata dal gruppo dei quattro docenti affronta anche altri aspetti giudicati decisivi per una buona riforma dell’università. «Penso all’incentivazione dei comportamenti virtuosi nell’amministrazione degli atenei – spiega il professor Semplici – in modo da produrre risparmi da reinvestire ad esempio nel diritto allo studio. O alla figura del garante degli studenti. Ma anche al sistema di abilitazione e reclutamento, che continua a non garantire una valutazione di qualità del corpo docente, lasciando maglie troppo larghe per il riconoscimento dell’idoneità e anche in questo caso basando la valutazione solo sui titoli e le pubblicazioni ignorando la didattica».

La proposta del professor Semplici e dei suoi tre colleghi ha già creato un po’ di dibattito nel mondo accademico, tra consensi e critiche. «Abbiamo voluto – ribadisce il docente di Filosofia morale – un contributo, che pensiamo di buon senso, cercando di mettere ordine nelle varie proposte sul tavolo. Ma soprattutto partendo dall’esperienza diretta sul campo».

Nell’università pubblica non si devono identificare i migliori; i migliori si devono creare

Tutti gli errori sull’università (da: la Repubblica, 15  giugno 2012)

Raffaele Simone. Le prime notizie sul “Pacchetto Merito” (ma non c’era un logo meno indisponente?) con cui il ministro Profumo intende portare il “merito” nella scuola hanno suscitato dissensi da ogni parte. Anche le misure sull’università contenute nel pacchetto non sollevano grida di entusiasmo; anzi.

L’idea di base è quella di spingere gli atenei a identificare, in ogni sede, i “migliori”. Non è chiaro cosa spetterebbe agli studenti migliori, salvo qualche riduzione di corso: potrebbero laurearsi un anno prima (una laurea triennale dopo due anni? una magistrale dopo un solo anno?) o conseguire il titolo dottorale dopo due anni invece dei previsti tre. Non capisco quale logica convinca il ministro che questi sconti possano costituire un premio; si tratta di plateali facilitazioni, che non aiuteranno i “migliori” a esserlo davvero, ma spingeranno i furbi a esser frettolosi, magari rompendo le scatole ai professori perché gli permettano la via breve. Non basta. I professori avranno l’obbligo di 100 ore di insegnamento (non erano 350 nella recente Riforma Gelmini? Chi ci capisce è bravo) e si ridurranno i finanziamenti agli atenei che non sceglieranno gli insegnanti “migliori”. Come si riconosceranno questi insegnanti? Ci penserà una commissione ad hoc, integrata da un componente straniero. Profumo è troppo esperto per non sapere che questa misura girerà a vuoto: ci voleva proprio un’altra commissione di valutazione, in un’università dove la valutazione, ignorata da sempre, è diventata ad un tratto ubiqua e invadente? E poi, ancora una volta il mito del componente straniero, il quale chissà perché, per il solo fatto di essere straniero, dovrebbe essere migliore dei colleghi italiani! Non basta: i docenti così identificati (che non potranno essere più del 20% del totale: e perché?) riceveranno premi anche loro. In cosa? In denaro? In posti per creare una scuola o una struttura? In risorse di studio e di ricerca? Non è chiaro. I premi avranno effetto anche nel mondo esterno: i datori di lavoro che assumeranno i migliori laureati e dottori di ricerca avranno incentivi fiscali; incentivi anche agli atenei per attrarre docenti dall’estero e ai professori che pubblicano in inglese.

In questa lista di queste misure si ritrovano, in mescolanze varie, miti e cascami che gravano da tempo sulla sfera della ricerca e dell’educazione. Anzitutto l’idea fissa di identificare i “migliori”. In un sistema pubblico non si devono identificare i migliori; i migliori si devono creare. A questo scopo, l’università deve proporre l’offerta migliore perché tutti possano essere migliori, anche se si sa che non tutti lo saranno, e deve poi occuparsi in modo serio dei non-migliori e dei tanti che, pur avendo vocazione, sono sviati e confusi da una struttura scoordinata e di qualità instabile. L’obiettivo di riconoscere “chi-è-già-migliore” va lasciato a quelle università (statunitensi o giapponesi) che praticano dichiaratamente la “selezione naturale”, lasciando indietro chi non è tra i primi, invece che farsene carico. C’è poi il mito secondo cui al bravo serve meno tempo: potrà anche esser così, ma con cicli formativi già frammentati (tre anni per tutti + due per pochi + tre di dottorato per pochissimi) che senso ha abbreviare ancora? Non manca l’idea sbagliata (esclusività italiana) dello straniero come deus ex machina, segno tenace di provincialismo, che dà per scontato che “loro” sono migliori e immacolati. Già da tempo colleghi stranieri partecipano a valutazioni di vario tipo, ma non pare proprio che la qualità media delle università sia migliorata. Lo stesso presupposto suggerisce di incentivare chi pubblica in inglese: io pubblico quasi tutti i miei lavori in inglese (e in altre lingue) dalla metà degli anni Ottanta, ma ciò non induce nessuno a leggerli, se non vuole. E che dire degli incentivi alle imprese che prenderanno i migliori? È il mondo alla rovescia: le imprese dovrebbero esser spinte a pretendere giovani preparati; incentivi andrebbero dati semmai a chi prende i meno fortunati. Il sistema universitario italiano, che nel panorama internazionale non riesce a superare il terz’ordine, non migliorerà iniettando “pacchetti” in una struttura che nel suo insieme è pericolante. Ha bisogno di qualcuno che riveda il progetto intero e rimetta mano a tutta l’architettura. Vasto programma …

Gli studenti del DAS chiedono le dimissioni del rettore e del direttore amministrativo, ritenuti palesemente inadatti al ruolo che ricoprono

Dimensione Autonoma Studentesca (DAS). Siamo costretti a domandarci cosa ci fosse da inaugurare, visto che la nostra Università versa da anni in una drammatica situazione di corruzione e mala gestione. Non sono stati una sorpresa i nomi dei 18 indagati, e tanto meno che tra questi nomi spiccassero quelli dei recenti Rettori e Direttori Amministrativi, le cui scelte abbiamo sempre contestato. Come se questo non bastasse, la nostra Università è al centro dell’attenzione degli inquirenti anche in merito alla regolarità dell’elezione del Rettore Riccaboni. Abbiamo deciso di non interrompere il teatrino dei vuoti festeggiamenti per rigettare in toto il cerimoniale di una casta che si delegittima ormai da sola. L’unico momento sensato e significativo di tutta la mattinata infatti è stato, a nostro avviso, quello degli interventi dei lavoratori che, pur portando avanti giuste rivendicazioni, troppo raramente trovano uno spazio di dialogo all’interno del mondo accademico, fagocitato da nepotismi e baronie.

Quanto l’inaugurazione fosse autoreferenziale è testimoniato dal fatto che ad alcuni studenti è stato impedito l’ingresso nell’aula se non previa perquisizione. Ancora una volta vediamo le forze dell’ordine schierate a difesa dei ladri in giacca e cravatta e non di chi subisce le conseguenze del loro operato. A questo proposito ricordiamo ancora nitidamente il complice silenzio da parte di tutte le istituzioni in occasione dell’attacco repressivo attuato un anno fa nei confronti degli studenti che manifestavano pacificamente contro lo smantellamento dell’Università pubblica.

Oggi che la questione dell’Ateneo è all’ordine del giorno, e in una situazione di tale gravità, taciuta e alimentata finora, è esilarante constatare la premura con cui prendono posizione quei partiti i cui membri figurano tra gli indagati delle due inchieste. E le accuse sono pesantissime: peculato, truffa, falso ideologico e abuso d’ufficio.

La nostra Università per anni è stata saccheggiata dalla sua stessa amministrazione, e proprio le elezioni del nuovo Rettore, che avrebbe dovuto avviare l’Ateneo sulla strada della ripresa, probabilmente sono state truccate. Non abbiamo mai risparmiato critiche anche aspre in merito alle scelte politico-amministrative della nostra governance d’Ateneo, ma adesso la loro legittimità è posta sotto attacco da tutti i fronti. Per questo, mai come oggi chiediamo a gran voce le dimissioni del Rettore e del Direttore Amministrativo, palesemente inadatti al ruolo che ricoprono.

Per la comunità accademica Riccaboni non è più il rettore dell’Università di Siena

Si può sorvolare su tutto, ma non si può accettare che il rappresentante legale dell’università esponga al ridicolo l’istituzione che rappresenta. Com’è noto, la Procura della Repubblica di Siena ha contestato il reato di falsità ideologica ad alcuni indagati che, in concorso tra loro e attestando falsamente la regolarità del procedimento elettorale adottato, avrebbero indotto in errore il Ministro che, proprio sul presupposto della regolarità delle elezioni, emetteva il decreto di nomina di Riccaboni a rettore dell’Università degli Studi di Siena. Il rettore, però, ha dichiarato di «non essere coinvolto né direttamente né indirettamente nella vicenda e che sarebbe strumentale e dannoso per l’Ateneo ipotizzare un collegamento diretto con la validità e la legittimità delle elezioni». Una dichiarazione comica che, nelle condizioni tragiche in cui versa l’università, solleva alcuni doverosi interrogativi. Il rettore ha, forse, da esibire meriti amministrativi o un’efficace azione di risanamento per giustificare la sua permanenza alla guida dell’ateneo? Ha, forse, predisposto un piano di rientro che riporti il bilancio in equilibrio entro i prossimi cinque anni? Ha, forse, azzerato i costi dei poli universitari esterni e valorizzato l’offerta formativa della sede centrale? Niente di tutto ciò! Al contrario, lui e il direttore amministrativo, con una gestione autocratica, demagogica e in totale assenza di trasparenza, si sono rivelati incapaci di gestire l’ordinaria amministrazione e di risolvere almeno qualche emergenza. Due sedicenti “tecnici” (un economista e un direttore amministrativo con 18 anni d’esperienza) che, proprio nei rispettivi campi di competenza, hanno rivelato dilettantismo e insipienza, senza poter addurre la ridicola attenuante dell’ex rettore Piero Tosi: “io, però, sono un patologo”. E così, un’istituzione dal glorioso passato è nelle mani di una consorteria che s’illude di gestire i complessi problemi della macchina universitaria – che non conosce – finendo con l’ingannare e danneggiare sé stessa, prima che gli altri, e l’ateneo che dovrebbe servire. Riuscirà il nostro magnifico a recuperare il senso delle istituzioni necessario in tali circostanze? O, più modestamente, un po’ di buon gusto? Ce lo auguriamo tutti, nell’esclusivo interesse dell’Ateneo! Del resto, sembra che anche l’autorità di governo sul territorio, in virtù della riserva espressa dal Ministro nel decreto di nomina, abbia sollecitato Riccaboni a rassegnare le inevitabili dimissioni e a rinviare l’inaugurazione dell’Anno Accademico.

Articolo pubblicato anche da:
Il Cittadino Online (20 novembre 2011). “Università: Riccaboni recuperi il senso delle istituzioni”.

Attività conto terzi: risorsa o truffa per le università?

tommaso_gastaldi.jpgIl professor Tommaso Gastaldi, Università di Roma “La Sapienza”, chiede al Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, On. Renato Brunetta, una risposta ufficiale su un malcostume ormai diffuso non solo tra i docenti ma anche tra il personale amministrativo, con pesanti penalizzazioni per didattica e ricerca.

Tommaso Gastaldi. Quesito. L’attività relativa ai contratti conto terzi svolta da un professore universitario a tempo pieno deve considerarsi soggetta ad approvazione da parte della Facoltà di appartenenza, come avviene di norma per tutti gli incarichi retribuiti, oppure, al contrario, un docente può svolgere di fatto qualunque numero di ore per qualsiasi importo senza dover chiedere autorizzazione alla propria facoltà o renderne conto? Se sì, quali sono le conseguenze per omessa richiesta di autorizzazione? Nel caso di contratti conto terzi – per i quali si sono percepiti ad esempio decine di migliaia di euro – svolti senza alcuna autorizzazione della Facoltà, vi sono conseguenze per il docente che non ha chiesto autorizzazione, il Dipartimento che non ha informato del contratto la Facoltà, e la Facoltà che ha omesso il controllo?
Segnalazione. Constato che nel mio Dipartimento (ed in molti altri) ci si imbarca nello svolgimento di contratti conto terzi per importi notevoli (svariate centinaia di ore pro capite, spesso da erogare in tempi stretti a causa di precise clausole contrattuali) senza richiesta di autorizzazione alla Facoltà e distogliendo attenzione e forze dalla normale attività lavorativa, oltre che sfruttando alacremente le strutture e infrastrutture pubbliche ed il personale non docente e di segreteria. Mi sembra un’anomalia che, in virtù della piccola percentuale percepita dall’università, i docenti possano impegnare qualsiasi numero di ore in attività dalle quali spesso traggono ingenti profitti personali, inevitabilmente a scapito della docenza e dei compiti istituzionali. Tutto ciò appare fortemente lesivo degli interessi pubblici nell’ambito della Pubblica Amministrazione e, pertanto, mi sono permesso con il massimo rispetto, di porre il quesito e la segnalazione all’attenzione del Ministero nella certezza di poter contare su una risposta definitiva e autorevole, nell’ottica di andare nella direzione (e rivoluzione) per la quale il Ministro si batte quotidianamente.

È ancora Università?

Questa riflessione è del 1989 e il titolo è redazionale. Per chi non lo avesse conosciuto, il Prof. Comparini è stato maestro della Scuola Anatomica Senese dell’Università di Siena per quasi quarant’anni.


Leonetto Comparini (1924-1999). Diciamo chiaro che l’Università è Scuola: la Scuola delle scuole: e che da sempre nella scuola c’è chi insegna e chi impara: ci sono i maestri e ci sono gli allievi. Allievi tutti lo siamo stati, perché docenti universitari, esperti cioè nell’insegnamento e nella ricerca e capaci di guidare l’uno e l’altra, non si nasce né ci si improvvisa. Si diventa; e ci vuole una maturazione lunga – tanto lunga che non finisce mai – e l’impegno, il lavoro, la fatica di tutti i giorni e – il che non guasta – la necessaria capacità. Ed è la “Scuola”, detto tra virgolette, che fa da incubatrice in questo processo alla nascita, e dopo guida la crescita fino al suo compimento. Questa realtà della Scuola universitaria, che naturalmente si rinnova traendo alimento e sostanza dalla sua stessa vita, è la spina dorsale dell’Università. Non nego che possa venir fuori domani qualcosa di diverso: ma certo non sarà più l’Università.
Io sono felice di aver vissuto pienamente questa realtà. Debbo dire che se qualcosa sono riuscito a dare – e penso, in tutta franchezza, di averlo fatto – molto anche ho ricevuto da questa straordinaria esperienza.