Proprio come all’Università di Siena! Del resto il vicesindaco è professore!

Campanile-MangiaSiena, Engioi e il Mangiacotto (da: My BOG – La mia palude)

Dr. J. Iccapot. I sapori conosciuti nell’infanzia sono quelli che si ricordano meglio, specie se si tratta  dei dolci e in particolare di quelli di Natale.
Fra tutti i dolci della tradizione senese, sono particolarmente affezionato ai cavallucci: semplici, grigi, compatti, con pochi sapori ben definiti che si aprono al palato non appena li addenti. Rigorosamente mangiati solo nei pochi giorni delle feste, a me ricordano il Natale di quando ero piccolo, i dolciumi serviti dalla mamma in quelle rare occasioni, segnate dal calendario, in cui si poteva mangiare qualcosa fuori dall’ordinario.

I dolci senesi sono conosciuti ovunque, inutile parlarne; carni di cinta, tartufi e quant’altro sono poi le ricchezze della zona.
Credevo di conoscere, almeno di nome, tutti i prodotti culinari (e vinicoli) di Siena, quando mi sono imbattuto, giorni fa, in un nuovo prodotto gastronomico che scommetto nessuno di voi conosce: il Mangia cotto (o Mangiacotto che dir si voglia). Sorpresi, vero? Non ne avete mai sentito parlare? Eppure, se navigate in internet, scoprirete che non solo lo conoscete da tanto tempo, ma che addirittura è il simbolo della città!

Il Mangiacotto lo trovate, indovinate un po?, sulle pagine (in “inglese”) di EnjoySiena, il sito del comune di Siena su cui imparare l’inglese giocando (giocando alla caccia all’errore, eh!), il sito in cui avevano addirittura tradotto il nome di Giovanni di Balduccio in John Balducci, prima di correggerlo dopo aver letto il mio post della scorsa settimana.

Se visitate la pagina dedicata alla Torre del Mangia (per l’appunto), leggerete che:
“The tower […] is baked until the crown” cioè, per chi non parla l’inglesondo, “La torre […] è cotta sino al coronamento”.
Insomma, avevamo in Piazza un enorme specialità, quasi un kebab, pronto per essere mangiato da chiunque vi si fosse  avvicinato e ne avesse avuto voglia, e per centinaia di anni non se ne è accorto nessuno!

Questa pagina è ancora lì, a far arrossire Siena e i senesi tutti.

Eppure, la dottoressa Pallai, assessore al turismo a capo della catena di comando per la sua responsabilità politica, non solo ha capacità di espressione orale in inglese molto buona, ma anche buona capacità di scrittura e buona capacità di lettura in questa lingua sconosciuta ai redattori delle pagine in parola.
Ora, se quanto ella dichiara nel curriculum vitae corrisponde a verità, le dovrebbe bastare scorrere un rigo, un rigo solo, di questa pagina, per arrossire di vergogna, prendere il cellulare e fare quello che qualsiasi committente dovrebbe fare con un suo fornitore o con i suoi collaboratori.

È chiedere troppo voler evitare questo scempio e questa vergognosa figura mondiale che stiamo facendo da oltre un mese?

Operatori, enti e associazioni, direttamente coinvolti nella vicenda, non hanno preso visione? Non commentano? Non intendono fare nulla?

Povera Siena, sì, ma ancor più: poveri senesi!

Niente paura! Ci penserà il prossimo rettore, designato da chi ha affossato l’ateneo senese

 

Oldman

Valeria Strambi. Buoni risultati anche per l’Università di Siena, che passa dai 2.314 immatricolati dello scorso anno ai 2.319 di quest’anno.

Rabbi Jaqov Jizchaq. …me cojoni, come dicono alla Sorbona! È già tanto che non diminuiscano, intendiamoci, ma come si può pretendere che gli studenti addirittura aumentino? È “il tocco” e tutto va male. Anche oggi ho avuto una conversazione con uno studente che si accingeva a fare la tesi in una certa materia, ma il professore è andato in pensione e l’insegnamento in quella materia viene palleggiato fra docenti che fanno un diverso mestiere. La qual cosa non è affatto rassicurante per un giovane che voglia cavarci qualcosa dalla tesi e dalla specializzazione che intraprende. È tutto così, una storia che si ripete pressoché quotidianamente: come si può pensare che gli studenti aumentino, se gli insegnamenti diminuiscono drammaticamente? Anche se fra un paio di annetti ricomincerà il reclutamento vero e proprio (non l’avanzamento di carriera di ricercatori che già coprivano i rispettivi insegnamenti), quanti ne piglieranno, a fronte dei cinquecento circa che se ne saranno andati? Dieci? Venti (manco a vederli…)? E in quali materie?

Groucho Marx. Siamo circondati dal nemico. Siamo tre uomini e una donna. Mandateci dei rinforzi. O, per lo meno, mandateci altre due donne.

Rabbi Jaqov Jizchaq. …voglio dire, così non si può andare avanti: o ci mandate rinforzi, oppure decidete cosa farne di tutti coloro che lavorano in quei settori talmente indeboliti dalle uscite di ruolo, da essere ridotti ad un groviera che non consente più di garantire né un insegnamento, in ossequio alla decenza, oltre che naturalmente ai famosi “requisiti minimi di docenza”, né un’adeguata mole di ricerca, per assenza di quella “massa critica” indispensabile affinché essa abbia luogo.

Università: sulla scomparsa della comunità scientifica e della figura del Maestro

Enzo Scandurra

Enzo Scandurra

Intellettuali silenti e declino dell’Università (il manifesto, 3 febbraio 2016)

Enzo Scandurra. Il declino lento e inarrestabile dell’Università, la sua rinuncia ad essere l’universo, luogo di produzione di sintesi convincenti, ben esprime e rappresenta il collasso narrativo dell’Occidente e lo stato dell’afasia contemporanea. Il dibattito sul suo ruolo si è, anni fa, incagliato (e lì è rimasto) intorno a questo nodo fondamentale: sapere per il mercato o sapere per essere capaci di scelte consapevoli? Ha prevalso il primo termine: quello che va bene al mercato, va bene anche all’università e così a partire da Luigi Berlinguer si è sviluppato quel processo di declassamento e di delegittimazione che sembra non conoscere fine. Se sentiste parlare gli studenti, avreste modo di conoscere quanto essi non vedono l’ora di abbandonarla come un luogo inutile, un castigo necessario, nell’attesa (sempre più disperata) di un posto di lavoro. Forse fa eccezione qualche studente, sopravvissuto al collasso, che tenta di ricomporre una qualche sintesi all’interno dei dottorati di ricerca, poi niente, silenzio.

Avendo smarrito i propri fini, l’Università è diventata un sistema burocratico-amministrativo fallimentare e improduttivo, senza alcuna capacità di scorgere i segnali del cambiamento e tanto meno di possedere la capacità di interpretarlo e incidere sulle trasformazioni che sconvolgono il mondo contemporaneo. È capace l’università, tanto per fare solo alcuni esempi tra mille possibili, di fornire una qualche narrazione adeguata dei cambiamenti climatici in atto, della questione ambientale, della crisi economica, della crisi del modello urbano? No, non ne è capace, anzi si limita, nel migliore dei casi, a fornire dei rimedi parziali, delle risposte inadeguate, essendo in tutt’altre faccende affaccendata.

Come affermava Pietro Barcellona, non esiste più una comunità scientifica, ma solo alleanze fra cordate e gruppi di potere, là dove i nostri figli avrebbero disperatamente bisogno di un Paese che si appropri del proprio futuro, che sappia progettare ponti e cattedrali, scoprire i segreti delle stelle e i miracoli delle nanotecnologie, senza perdere di vista, però – aggiungeva Pietro – che il vero problema è sempre il destino dell’uomo nel tempo che ci tocca vivere. E alla scomparsa della comunità scientifica si aggiunge quella drammatica della scomparsa della figura del Maestro.

Anziché una ricomposizione, i saperi vengono continuamente disarticolati, scomposti, separati gli uni dagli altri fino al nozionismo più esasperato (i famosi Cfu, crediti formativi), così da preparare il terreno a quei mitici concorsi universitari in ordine ai raggruppamenti disciplinari (Ssd), vero e propri pilastro culturale intorno al quale si organizzano accordi elettorali, cordate accademiche e produzione di inadeguati e falsi saperi. E che dire delle pubblicazioni scientifiche sulla base delle quali una fantomatica Agenzia (Anvur) è chiamata a giudicare ogni membro della morente comunità accademica? Intorno ad esse – le pubblicazioni scientifiche – sono sorte migliaia di nuove riviste accreditate, fiorisce l’unica attività editoriale ancora produttiva del Paese.

Per anni screditata dagli attacchi dei mass-media (luogo di malaffare, di corruzione, di svendita degli esami, ecc.), l’Università ha finito con l’adeguarsi alla cattiva immagine che di essa ne è stata fatta tra la gente comune, rinunciando perfino a far valere le proprie ragioni, non rintuzzando la concorrenza sleale delle varie libere università sorte come funghi. Del resto, se essa è demandata solo a fornire sterili nozionismi, perché un privato non potrebbe riscuotere maggiori successi?

Conosco sempre più docenti che hanno chiesto di essere messi in pensione prima del tempo. Almeno da questo punto di vista, essi si sono arresi. Il declino dell’università, che pure essi hanno ostacolato, avversato e combattuto con passione, ha finito con lo sfinirli. Asor Rosa ha paragonato questo esodo a quello dei dinosauri in estinzione: «Questo lungo e faticoso cammino – rispetto all’approdo finale, ossia lo stato presente delle cose – fa sentire chi l’ha compiuto nelle condizioni di quegli animali primitivi che a un certo punto uscirono di scena per il totale mutamento delle condizioni generali del pianeta» (“Il Grande silenzio, intervista sugli intellettuali”).

Coloro che sono rimasti, si sono adeguati, così che dopo il Grande silenzio è subentrata anche la Grande tristezza. Sembra una questione archiviata; le cifre e i numeri che circolano sul suo stato di salute (meglio sarebbe dire sulla sua malattia terminale) ne attestano la morte presunta. Forse a metterci sopra la pietra tombale sarà l’annunciato (ennesimo) provvedimento di Renzi sulla “Buona Università”.

Ma in un’affollata assemblea di dottorandi e ricercatori precari, a Roma qualche giorno fa, ho sentito esclamare: «Dobbiamo scatenare una controffensiva culturale di portata equivalente a quella scatenata da Confindustria, verso la metà degli anni Novanta, iniziando a criminalizzare l’università italiana. Dimostriamo loro che non siamo bamboccioni improduttivi; noi produciamo scienza, nuovi saperi, cultura vivente…».

Benvenuta e salutare è allora l’iniziativa per l’Università promossa l’11 febbraio a Napoli da, Arienzo, Bevilacqua, Bonatesta, Carravetta, Catalanotti, Olivieri (Lettera-Appello al mondo dell’Università, su il manifesto del 22 gennaio). Coraggio si ri-parte! Non dalle aule della Bocconi; questa volta si parte dalle macerie del Sud. E gli intellettuali dove sono? Perché non escono dal Grande Silenzio per scendere in campo a fianco di questi ragazzi, senza i quali il silenzio diventerà tombale?

Tra finti risanamenti dell’Ateneo senese comincia il palio del Rettore

Ombra«All’interno della Facoltà di Medicina un confronto serio e costruttivo per trovare la sintesi sul nome» (Corriere di Siena, 2 febbraio 2016)

Anna Coluccia (Docente universitario). Dal Corriere di Siena del 28 u. s. apprendo con sorpresa che nelle elezioni per il futuro Rettore della nostra Università sarebbero in corsa due candidati, contrapposti quasi a singolar tenzone.

Senza entrare ora nel merito dell’attendibilità o meno della notizia, ritengo che essa – nella forma in cui è stata data – rischia di far passare sotto silenzio, e quindi svilire, il dibattito tuttora in corso all’interno del nostro Ateneo e della ex Facoltà di Medicina in particolare. Dispiace soprattutto che le prossime elezioni per il Rettorato vengano presentate come una specie di competizione agonistica tra due “contendenti”. Posso assicurare che fortunatamente non è così: nel nostro Ateneo fervono ancora le discussioni sul futuro dell’Università, si confrontano idee e programmi. Il tutto all’insegna di una progettualità alta, che appassiona ed impegna tutti coloro che hanno a cuore lo Studio senese mentre attraversa una fase molto delicata, e direi cruciale, della sua storia plurisecolare. La situazione dell’Ateneo è infatti più complessa rispetto a quanto emerge dalle Sue fin troppo benevoli osservazioni sull’asserito “risanamento” attuato dall’attuale governance. Per molti aspetti infatti tale situazione è da ritenersi ancora critica. A meno che di non voler considerare in termini positivi, dissennatamente, l’innegabile ridimensionamento cui l’Università di Siena è andata incontro in questi ultimi anni, a molti livelli.

Al di là di questi rilievi, vorrei che il lettore del «Corriere» sapesse, per esempio, che nella ex Facoltà di Medicina è in corso un dibattito serio e costruttivo alla ricerca di una piattaforma comune capace di diventare sintesi per un discorso che affronti con reale efficacia, finalmente, le sfide del presente. Proprio per questo, prima di fare i nomi di chicchessia, noi del Dipartimento di Scienze Mediche Chirurgiche e Neuroscienze, abbiamo scelto la strada della riflessione, affidando a un nostro collega, il professor Alessandro Rossi, l’incarico di perlustrare le differenti progettualità disponibili e di individuare una possibile sintesi tra di esse. Ciò al fine di giungere a una candidatura unitaria, espressione della nostra ex Facoltà ma capace di dialogare con i molteplici saperi presenti nel nostro Ateneo. È una questione di metodo: vorremmo che il nostro candidato fosse frutto di una consapevole partecipazione democratica da parte di tutti e non di una designazione dall’alto (ogni riferimento è, mi creda, meramente casuale…).

Tanto mi premeva precisare, caro Direttore, senza alcuna intenzione polemica, ma in spirito di verità e come contributo a un’informazione più ricca e articolata rispetto alle attuali vicende della nostra Università.

La valutazione della qualità della ricerca «è una questione squisitamente politica: non è il conflitto che dobbiamo temere, ma l’indifferenza, la pigrizia e la rassegnazione»

Stefano Semplici

Stefano Semplici

Università, la battaglia della VQR. Professori divisi sulla valutazione (Da: Il Corriere della Sera, 16 gennaio 2016)

Stefano Semplici. L’opinione pubblica non si interessa e non si interesserà dell’esercizio di valutazione della qualità della ricerca 2011-2014, dal quale dipenderà una fetta consistente del finanziamento delle nostre università. È una questione fitta di algoritmi, indecifrabili acronimi e bizantinismi incomprensibili, destinata a rimanere un rito misterico per gran parte degli addetti ai lavori. Chiarissimi saranno però i risultati: classifiche certificate dall’autorità del Direttivo dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca, supportato dalla competenza e professionalità dei Gruppi di Esperti della Valutazione all’uopo costituiti. Il fine, in questo caso, sembra davvero giustificare ogni mezzo e ogni tecnicismo: il merito e l’eccellenza verranno finalmente riconosciuti e premiati; l’osceno nepotismo di una casta di privilegiati superpagati abituata a usare il denaro pubblico per i propri interessi sarà rottamato una volta per tutte; i fannulloni incapaci di reagire perfino alle dure penalizzazioni e alla gogna pubblica previste da questa competizione verranno infine messi in condizione di non nuocere.

Cosa potremmo chiedere di meglio per avere finalmente anche in Italia una «buona» università? Chi si oppone, di conseguenza, non è semplicemente un gufo o un rosicone. Può essere solo un «barone» o un servo di baroni, che merita di essere trattato, nella migliore delle ipotesi, come gli stolidi oppositori delle riforme, tutti liquidati come zelatori dell’ormai improponibile bicameralismo perfetto. Nel «nuovo» che avanza possono esserci – è vero – limiti, imperfezioni e perfino ingiustizie. Ad essi si potrà sempre porre rimedio. L’importante è aver tracciato la rotta.

All’opinione pubblica, ai nostri studenti e alle loro famiglie non chiedo di sapere cosa siano i «metadati bibliografici del prodotto, inclusi gli identificatori ISI WoS e Scopus» o di interessarsi della questione cruciale della «identificazione dell’addetto alla ricerca cui il prodotto è associato tramite il suo identificativo ORCID» (cito dalla versione definitiva del Bando di partecipazione alla VQR 2011-2014). Vorrei però che si aprisse almeno qualche spazio per chiarire che la protesta contro la VQR che si sta diffondendo nelle università italiane non è l’azione corporativa di professori che rifiutano di essere valutati. Sono i soldi dei cittadini a mantenere la libertà della scienza e del suo insegnamento e i cittadini hanno il diritto di sapere che questi soldi sono spesi bene. Questa protesta è anche responsabile, perché non ha colpito e non colpisce gli studenti.

Ciò detto, occorre riconoscere onestamente l’esistenza di due diverse faglie di conflitto, che in parte si sovrappongono e che occorre tuttavia tenere distinte. La prima corrisponde ad un conflitto dei professori con il governo per una rivendicazione legittima e chiaramente circoscritta. Il blocco degli scatti di anzianità, che costituiscono una parte rilevante del trattamento economico dei docenti universitari, così come degli altri lavoratori del pubblico impiego, è stato applicato in questo settore in modo differenziato e prolungato rispetto a tanti altri e nessuno si è mai preoccupato di spiegare quali fossero le colpe meritevoli di quella che molti percepiscono, oltre che come una punizione incomprensibile, come una lesione alla dignità del proprio impegno e del proprio lavoro. Questo è il vettore della protesta intorno al quale si è raccolto il consenso più ampio: l’astensione dalla VQR, in questa prospettiva, è uno strumento che non contesta, almeno apertamente e in linea di principio, la sua natura, i suoi obiettivi e l’uso che viene fatto dei suoi risultati.

C’è però una protesta che ha un fine diverso e che riguarda il rapporto fra le modalità con le quali la valutazione è stata introdotta in Italia e la missione dell’università. Anche questa è certamente una protesta contro il governo e contro il parlamento. Essa è però al tempo stesso – e bisogna avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome – il risultato di un conflitto fra professori. In gioco, in questo caso, c’è proprio il rifiuto di «queste» modalità di valutazione della loro attività (e non – lo ripeto ancora una volta – di una valutazione trasparente e rigorosa, a partire dal controllo del rispetto da parte dei docenti dei loro doveri nei confronti degli studenti), a causa degli effetti che esse hanno prodotto e che sono stati così riassunti in una petizione che ha già raccolto alcune centinaia di firme: «una politica di progressiva riduzione delle già scarse risorse coperta dalla parola d’ordine del merito; l’erosione del diritto allo studio e l’esasperazione di insostenibili squilibri fra le diverse aree del paese; la ricerca dell’eccellenza contrapposta al dovere dell’equità; la competizione con ogni mezzo contrapposta alla solidarietà e alla collaborazione che dovrebbero caratterizzare la vita dei nostri atenei; la mortificazione dell’impegno nella didattica come pilastro irrinunciabile della “missione” dell’università».

Sono professori i membri del Direttivo dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca. Sono quasi tutti professori i componenti dei Gruppi di Esperti della Valutazione. Molti saranno i professori fra coloro che giudicheranno il lavoro dei colleghi attraverso il meccanismo della peer review (sapendo chi stanno giudicando, mentre il giudicato non saprà chi gli ha dato il voto). Se la VQR si farà, di conseguenza, le ragioni di alcuni professori avranno «vinto» su quelle dei loro colleghi. È naturalmente possibile che non esista la relazione di causa ed effetto fra «questa» VQR e i fenomeni che ho ricordato o che sia ragionevole ritenerli, almeno a piccole dosi, il prezzo che è inevitabile pagare per aumentare l’efficienza e la qualità del sistema. Quello che non è possibile è liquidare questi punti come preoccupazioni da addetti ai lavori e rifiutare un confronto aperto e pubblico su di essi. Perché su tutti e in primo luogo sui nostri giovani ricadranno le conseguenze di queste scelte. Ecco perché la questione è squisitamente politica. Non è il conflitto che dobbiamo temere, ma l’indifferenza, la pigrizia e la rassegnazione.

Anche nell’Università le regole si fanno dopo il gioco, per accomodare i risultati della partita

Altan-ultimiRabbi Jaqov Jizchaq. Scrive il Sole 24 ore: «L’Anvur concede 15 giorni in più alle università per inviare le pubblicazioni scientifiche.» Tempo di VQR, ossia di valutazione della qualità della ricerca: «un esercizio di valutazione del quale è sempre più difficile accettare anche solo come “male minore” modi, obiettivi e conseguenze». Si obietta a coloro che dicono di rifiutare questa valutazione, che, come Bertoldo, non trovano mai l’albero giusto a cui impiccarsi, ma v’è del vero nelle parole sopra citate e vi sono fondate ragioni nella protesta che sta montando in molti atenei, compreso il nostro. Non foss’altro perché i criteri adottati sono tutt’altro che chiari e il tutto è circonfuso di un velo esoterico.

Soprassedendo, nevvero, sulle questioni economiche, che tanto qui si campa d’aria e come scrisse tempo addietro un famoso alcolomane, tutti i docenti universitari guadagnano diecimila euro al mese, rilevo difatti una schizofrenia nel sistema. Qual è l’effetto delle recenti riforme e ristrutturazioni, in una condizione in cui il turn over è fermo da anni (oltre che gli stipendi), col dimezzamento dei docenti? Non mi soffermerò oltre sui soliti aedi ubriachi e disinformati che scrivono sulle gazzette locali che ci sono “cento nuovi professori” (sic).

Si punta, secondo il VQR, a premiare l’eccellenza nella ricerca, ma al contempo si assiste fatalmente allo smantellamento di aree scientifiche basilari, indi si accorpano voluttuosamente corsi di laurea e dipartimenti. Qual è stata la prassi di questi ultimi anni? Per tirare a campà, con la moria di docenti, cioè per trovare i numeri necessari a non chiudere, si sputtanano i corsi di studio annacquandoli fino a renderli completamente insapori. Poi si tira fuori dal cilindro la distinzione fra università d’insegnamento e di ricerca (che nessuno sa, nell’attuale frangente, che cacchio voglia dire).

Per anni è sembrato che la ricerca fosse un optional. Coloro che reclamavano uno spazio maggiore per la ricerca pareva fossero marziani o potenziali perdigiorno che non volevano occuparsi del vero problema all’indomani dell’introduzione del 3+2 e successivamente con l’avvio dei massicci pensionamenti senza turn over, ossia coprire il fabbisogno nella didattica. Oggi si rigira la frittata eccedendo nella direzione opposta, e come è stato scritto, «Per chi aspira a “fare carriera” ogni ora trascorsa al servizio degli studenti appare come un’ora di tempo perso».

Così, per timore che dire “grazie” nuoccia all’aplomb di Lorsignori, si ringrazia con un metafisico pernacchione coloro che obtorto collo hanno profuso tanti sforzi tirando la carretta della didattica (magari per coprire assenteisti desaparecidos), incolpandoli di aver mancato ai propri doveri, dopo che li si è costretti a farlo. Inutile che il tapino si lamenti: «ma io l’avevo detto, che la ricerca è davvero importante, e voi non mi avete ascoltato»; è tempo di rivoluzioni (o di golpe), dobbiamo costruire l’uomo nuovo e non c’è tempo per recriminare e pensare a cosa farne di quello vecchio! Insomma, chi ha avuto, ha avuto, scurdammose ‘o passato.

D’improvviso infatti è spuntata l’ANVUR («Uhhhhhh! Tremate!!!! Io sono ANVUR, figlio di MIUR!» , il VQR e la SUA ed è la didattica a non contare più assolutamente niente. Senza dire che, con gli standard di produttività adottati, la valutazione del rendimento diventa tutta una cervellotica questione di mediane e di indici bibliometrici, “cravatte” e diagonali nei quali si subodora il fumus della presa per il didietro. Sembra che quanto detto sopra, ossia la polverizzazione d’intere aree scientifiche causata dall’uscita di ruolo senza ricambio e dallo sbando che ne è conseguito, non abbia a incidere sulla “qualità della ricerca” (!). Ora valgono altri criteri, c’è un nuovo cielo, una nuova terra, e com’è d’uso in questo paese, le regole spesso si fanno dopo il gioco per accomodare i risultati della partita.

Un confronto pubblico e franco sui temi dell’ateneo non può avere rilevanza penale nel mondo alla rovescia senese!

Bucoverita

Rabbi Jaqov Jizchaq. La Procura pare essere diventata l’autentica Agorà di questo ridente mondo alla rovescia senese, visto che per poter discutere in modo aperto e democratico di problemi che investono la comunità intera, il destino di una delle sue istituzioni più importanti e, in modo particolare, la vita di quella cospicua componente della comunità locale che all’università ci lavora, pare si debba correre il rischio di essere fatti oggetto di un’azione legale. Dunque una prece al pubblico ministero: vostro onore, quando verranno in Procura i rappresentanti dell’università, per favore interrogateli in modo stringente sui problemi intorno ai quali ho affannosamente cercato di richiamare l’attenzione dei lettori del blog, fino ad estorcere loro una risposta: sia che abbia ragione Piccini, sia che abbia ragione Riccaboni, infatti, essi non possono essere elusi. Buttarla in caciara, con una girandola di carte bollate serve solo a sfuggire momentaneamente all’inevitabile redde rationem e spero che l’esortare ad un confronto pubblico e franco sui seguenti temi non abbia rilevanza penale (nel paese alla rovescia):

1) che fine farà Siena nella cornice descritta, in ultimo anche nell’articolo di Galli della Loggia, di una silenziosa riduzione di molti atenei italiani medio-piccoli, principalmente del centro-sud, a “teaching universities” (che manco si sa cosa cavolo voglia dire) e del processo che vede emergere per ogni regione un ateneo eretto a dominus, e gli altri verosimilmente ridotti a sedi distaccate. Come si prepara Siena a questa eventualità? La risposta che ti danno se sollevi questo problema, in genere, è che tutto si trasforma, πάντα ῥεῖ: e però anche la putrefazione è una trasformazione!

2) con il dimezzamento in corso del personale docente, sono già state smantellate o in corso di smantellamento diverse aree scientifiche di base: con sgomento tendo l’orecchio, ma non odo alcun lamento da parte della “intellighenzia” locale; i sopravvissuti di questo terremoto, peraltro, non hanno davanti a sé un destino chiaro, visto che le aree smantellate non risorgeranno. Tutto ciò è l’opposto del corretto utilizzo delle risorse umane. Il giusto e a lungo atteso avanzamento di carriera di un certo numero di ricercatori non risolve il problema numerico legato ai “requisiti minimi”, sia in ordine alla preservazione dei corsi di studio, che dei dipartimenti, giacché era già personale di ruolo. Il numero di nuovi assunti sarà verosimilmente infinitesimo, se comparato a quello dei pensionandi. A livello nazionale il CRUI lamenta che si prospettino 1500 ingressi a fronte di 10.000 uscite negli ultimi 8 anni. Ribadisco che sarei curioso di sapere quanti saranno prevedibilmente i nuovi ingressi a Siena e in quali aree. La cornice generale è quella di un paese in cui il tasso di ingresso all’università si attesta intorno al 40%, contro la media Ocse del 60% e siamo l’unico paese in cui gli iscritti all’università diminuiscono: “Come risulta dal rapporto Ocse Education at Glance con il 20% di laureati nella fascia 25-34 anni, occupiamo il 34-esimo posto su 37 nazioni“. Alcuni sostengono che occorra perciò varare un “New Deal” dell’università per invertire la tendenza; altri che viceversa è il caso di prenderne atto e ridurre anche il numero di atenei: ma anche per impiccarsi – diceva la mi’ nonna – ci vuole il boia! Non è che basti meditare buddisticamente sugli stadi della decomposizione del corpo. Sta di fatto che non credo – con quello che abbiamo detto circa la sopravvivenza di “pochi hub” della ricerca – che sia perseguibile l’utopia di un ateneo “piccolo e bello” con poche specializzazioni. Nella speranza di non aver violato alcun articolo di legge o di fede o di buon senso, rinnovo gli auguri di buon anno. Capodanno in piazza, “Nessuna paura”. (La Nazione) “Nessuna speranza, nessuna paura”. Era scritto sul coltello del Caravaggio.

A Natale i bambini devono credere alle favole! All’università di Siena ci credono anche gli adulti! Sempre!

Unisi-tacchino

Rabbi Jaqov Jizchaq. Un giornale locale (non dirò quale) definisce il comunicato del Rettore ”l’urlo liberatorio del guerriero che dopo aver sostenuto tante battaglie si ritira, da vincitore” (sic). Seguono “cento posizioni da professore” sbattute sul tavolo, come fiches sul tavolo del poker: benedette, certo, soprattutto per una quota di ricercatori invecchiati aspettando un passaggio di grado, ma vorrei capire (in relazione ai problemi di cui ai precedenti messaggi) quanti saranno i professori veramente “nuovi” e in quali aree e immagino già la risposta.

Adesso, senza nulla togliere e “senza nulla a pretendere”, come direbbe Totò, se posso interporre una nota dissonante in questa soave armonia, trovo che vi sia qualcosa di inquietante nel dipingere una situazione oramai completamente normalizzata: è come se si volesse celare all’opinione pubblica la realtà di fortissime trasformazioni in corso, il cui esito non è chiaro. Ma voi, popolo bue, non occupatevene, non è affar vostro, tutto va per il meglio; continuate a dormire, perché la vida es sueño. Auguro a tutti buone feste e ripropongo la triste storia natalizia avicolo-dickensiana del tacchino induttivista, originariamente dovuta a Bertrand Russell:

«Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell’allevamento dove era stato portato, gli veniva dato il cibo alle 9 del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Così arricchiva ogni giorno il suo elenco di una proposizione osservativa in condizioni più disparate. Finché la sua coscienza induttivista non fu soddisfatta ed elaborò un’inferenza induttiva come questa: “Mi danno il cibo alle 9 del mattino”. Questa concezione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato”.»

Ateneo senese: i sindacati sul kolossal dell’inaugurazione dell’anno accademico

Teatro-Rinnovati

Rsu, Cisapuni, Cisl, UilRua, Ugl, Usb PI. Non vogliamo partecipare a un’inutile passerella che non ci rappresenta. Noi non vogliamo passerelle ma organizzazione vera, carriere, dignità. Chiediamo da oltre un anno di dare corso a previsioni contrattuali, come le progressioni economiche orizzontali, ma l’immobilismo dei vertici di quest’Ateneo, rasentano il teatro dell’assurdo. Ancora ci viene detto che ci sono tanti problemi di gestione, difficoltà che non permettono di eseguire determinate procedure nei tempi previsti. Strano… Sempre quelle che riguardano noi del personale tecnico e amministrativo. Poi se stiamo celebrando con una colossale inaugurazione, degna di un film di cinecittà, l’uscita dal tunnel del buco, com’è che si usa ancora la scusa della difficoltà amministrativa? Forse perché non è una scusa, la verità è che siamo messi peggio di prima e quello che andiamo a celebrare è fumo…

Noi non parteciperemo a un’inaugurazione in cui dovremmo andare a dire che va tutto bene, celebrare questa gestione e, con ricchi premi e cotillon, nascondere tutto sotto il tappeto. Usciti dove! Qui va tutto peggio, i soldi mancano più di prima, in contabilità finanziaria chiuderemo l’anno peggio del 2014, cosa va meglio? Siamo senza istituto cassiere da anni e a ogni scadenza è un dramma, i piani di studio non funzionano, abbiamo una tassazione altissima, non abbiamo riconsiderato le fasce di reddito in base al nuovo ISEE, questa è l’attenzione data agli studenti, perché dovrebbero iscriversi? Non promuoviamo la ricerca come si dovrebbe, non riusciamo ad attrarre fondi, ma forse ai docenti tutto questo va bene, non sappiamo, vorremmo dicessero qualcosa. Davvero per i docenti la priorità di questo Ateneo è comprare i tocchi per i nuovi colleghi?? Non abbiamo distribuito il salario accessorio nel modo in cui si doveva per gli infiniti rinvii dell’amministrazione, non abbiamo gestito l’organizzazione del lavoro nel modo in cui si doveva, non abbiamo dato le responsabilità come si doveva…

Non è raccontando che ora è tutto a posto che si fa il bene dell’università, non è vendendo fumo che si fa il bene dell’Ateneo. Ci si dovrebbe rimboccare le maniche, ma su una piattaforma comune a tutta la comunità, invece passa la linea del Rettore che è di facciata. Non ce ne voglia il Magnifico, ha fatto tanto a modo suo, ma non abbastanza, perché una priorità sarebbe stata quella di creare, rafforzare la comunità, il senso di appartenenza. Invece il clima lavorativo è sempre peggio. Dov’è la strategia di medio periodo? Non c’’è perché si pensa già alle elezioni del Rettore e questa inaugurazione è solo ideata per celebrare la fine dell’incarico del Magnifico. “Il re è nudo”. Colui che si sente il grande timoniere in realtà non ha fatto altro che rimestare con un bastoncino in una tinozza d’acqua sudicia. Domandatevi quali sono questi risultati… Elencateli da voi… Tardiva, … troppo tardiva risulta la convocazione di lunedì 26 ottobre di una contrattazione, per cercare di calmare gli animi. Davvero i vertici di quest’Ateneo credono che una convocazione metta l’animo in pace al personale che rappresentiamo? Vogliamo risposte vere, contratti firmati, chiediamo il rispetto del Contratto Nazionale di Lavoro!! A quale titolo dovremmo essere partecipi di una inaugurazione di anno accademico che ci vedrà ancora una volta ai margini di questa comunità, a dover essere lacchè o servi dei vertici, e non poter rivendicare la nostra dignità. Chi vuole essere lacchè si accomodi, noi no! L’inaugurazione avvenga ma non in nostro nome! O meglio, visto che siamo internazionali… e il Magnifico vuole un’inaugurazione in inglese, not in our name!

Ancora con la retorica del “meglio ateneo del mondo” che rende impossibile ogni confronto serio sui problemi dell’ateneo senese

Altan-correntecacca

Rabbi Jaqov Jizchaq. È uscita la classifica delle università del Sole 24 Ore, dalla quale si evince, come oramai avviene storicamente, che l’ultimo posto è occupato dall’università “Parthenope” di Napoli (ma perché non la chiudono? Occupa stabilmente l’ultima posizione da quando esiste!). Siena, invece, “trionfa immortale”. Ho appena finito di compiacermene, che subito incomincio ad incavolarmi, per il solito acritico modo di porgere la notizia da parte dei media, che paiono non distinguere tra dati relativi e dati assoluti (Siena meglio di Pisa o Milano in che, nell’ingegneria nucleare od aerospaziale, oppure nella chimica industriale, che qui non sono mai esistite?) e per il subitaneo scatto del mondo politico per cavalcare il trionfo.

Primo, un gran tourbillon. Non ho capito come “la statistica” di trilussiana ascendenza, possa paragonare le mele con le pere, onde istituire un ordine di preferenza tra cose incomparabili. Non ho capito bene, cioè, come faccia Siena a stare davanti (tra le altre) a Torino, Pavia, Milano, Pisa (caduta al ventiquattresimo posto!), ossia università floride, che hanno tutte le lauree, le specializzazioni e i dottorati al loro posto, ne hanno dozzine più di Siena, per giunta in tutti i settori di base che Siena sta perdendo, oppure non ha mai avuto e bandiscono concorsi a tutto spiano; mentre qui il turn over è fermo quasi da due lustri, e rimediamo allo svuotamento delle cattedre con accorpamenti cinobalanici che rendono il contenuto dei corsi sempre più sfuggente. Per la didattica, addirittura, sopravanziamo Padova e Milano Bicocca, e per la ricerca superiamo nientepopodimeno che il Politecnico di Torino e l’università di Genova, stracciando, ça va sans dire, Firenze e Napoli “Federico II”, salutando da lontano Roma.

Un sogno ad occhi aperti, direi. Non è un po’ sospetto che Siena sia davanti a Pisa e a Firenze, sedi di cui Siena si avvia ad essere di fatto (se non di diritto, come si paventa) succursale? Per molte aree, oramai, queste sedi costituiscono o costituiranno il naturale approdo di trienni senesi (finché esisteranno, dopo la cancellazione dei livelli magistrali). Amicus Plato, sed magis amica veritas. Non è che non gioisca per il buon piazzamento, nonostante tutto, di un ateneo che il marcio mondo politico e la demagogia che si trascina dietro come una puzza hanno dapprima, con sommo disprezzo, sfruttato per strani mercanteggiamenti, dissanguandolo, indi messo alla berlina e fatto segno del dileggio popolare.

Ma è proprio questa retorica bipolare (un giorno “daje all’appestato”, il giorno dopo, pronti a fregiarsi dei successi del “meglio ateneo del mondo”) che risulta insopportabile, giacché rende impossibile ogni confronto serio sui problemi dell’ateneo, affogando ogni considerazione razionale, ora nella livida palude del rancore, ora in un mare di panna montata. Noto, in particolare, che nella classifica del Sole 24 ore, Siena occupa il trentaquattresimo posto (dunque piuttosto in giù, nella classifica) alla voce “sostenibilità”, ossia “il
numero medio di docenti di ruolo nelle materie di base e caratterizzanti per corso di studio”. E questo, se interpreto bene i dati, segnala la fragilità e la instabilità di fondo di un ateneo che si avvia a perdere entro il 2020 metà del suo corpo docente.

Leggendo dei buoni risultati della ricerca e dei cattivi circa la sostenibilità, vorrei in particolare che riflettessero, coloro che andavano dicendo che il risanamento andava fatto trinciando a tutto spiano sul personale addetto alla didattica e alla ricerca (quasi che il core business dell’università fosse la produzione di pampepati): ora siamo nella condizione per cui se ne va esattamente la metà dei docenti, un po’ a casaccio ed a turn over ancora fermo (quando riaprirà, si tratterà di una trentina di persone, rispetto alle 500 andate via), ma non vedo ragioni per gioire.

Chiedere, come sommessamente ha fatto nei precedenti messaggi il sottoscritto – cittadino pagante le tasse – cosa resterà di Siena, in un contesto dove appare sempre più evidente la tendenza a creare “pochi hub” della ricerca, non è fuor di luogo: vorrei capire se a Siena toccherà il privilegio di far parte del “gotha” degli atenei forti (e con quali mezzi dovrebbe realmente competere con Padova, Pisa, Milano, Torino ecc. che si accatteranno il grosso delle risorse e sforneranno il grosso della ricerca?), oppure è destinata a retrocedere a sede distaccata di un polo regionale con la testa altrove. In ogni caso un serio dibattito su questo punto non è più rinviabile. Capisco che sono rogne che il rettore uscente lascia volentieri al suo successore, ma se nella campagna elettorale per la successione non si parlerà di questo, di cosa si parlerà?